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Una riflessione sulla speranza nei contesti di crisi, ispirata a Gabriel Marcel. La speranza non come attesa di un futuro migliore, ma come postura che resta davanti all’assenza senza colmarla, affrontando il presente senza illusioni.


Alla fine di questo 2025, che è stato un anno brutto senza attenuanti, parlare di speranza rischia di suonare come una stonatura.

Gaza devastata fino a diventare quasi impronunciabile, l’Ucraina consumata da una guerra che si prolunga mentre l’assuefazione cresce, le mille mai finite guerre africane, una cultura fascista che non ritorna ma avanza, spesso senza più bisogno di maschere. In un tempo così, la speranza non è una parola innocente, e usarla male significa partecipare a una rimozione. Per questo vale la pena pensarla come presenza di un’assenza, nel senso radicale che le dà Gabriel Marcel. Non come fiducia nel futuro, non come promessa di miglioramento, non come compensazione simbolica del disastro presente. La speranza nasce precisamente quando non c’è nulla di garantito, quando l’assenza non può essere colmata né spiegata, quando il reale non offre appigli rassicuranti. È una speranza che non promette, e proprio per questo non mente.

la speranza come postura dell’essere che prende forma nelle situazioni in cui il vuoto è ineliminabile

In Marcel la speranza non coincide mai con l’ottimismo. Non è previsione, non è calcolo, non è la convinzione che le cose andranno meglio. È una postura dell’essere che prende forma nelle situazioni in cui il vuoto è ineliminabile: l’assenza di giustizia, l’assenza di pace, l’assenza di senso. In queste condizioni sperare non significa aspettare, ma restare, senza chiudere l’esperienza né con il cinismo né con l’illusione.

Questo, oggi, è particolarmente scomodo, perché siamo immersi in una retorica della speranza che funziona come anestetico. Si chiede di sperare per sopportare, di sperare per rimandare, di sperare per rendere tollerabile l’intollerabile. È una speranza che neutralizza il conflitto e trasforma la pazienza in virtù morale. Marcel è all’opposto. La sua speranza non serve a stare meglio, serve a non falsificare l’esperienza. Non giustifica l’attesa mentre la violenza continua.

siamo immersi in una retorica della speranza che funziona come anestetico, ci si chiede di sperare per sopportare, di sperare per rimandare, di sperare per rendere tollerabile l’intollerabile

La speranza come presenza di un’assenza, in questo fine anno, ha allora una forma austera. È il rifiuto di colmare il vuoto con narrazioni edificanti. È la decisione di non trasformare le vittime in argomento, la sofferenza in occasione retorica, il futuro in alibi. È una fedeltà al fatto che qualcosa manca in modo insopportabile, e che questo mancare non può essere normalizzato. Marcel parlerebbe qui di disponibilità, di un restare aperti all’essere e agli altri anche quando tutto spinge verso la chiusura.

Questa speranza non è efficiente né consolatoria. È fragile, esposta, sempre minacciata dalla disperazione, che non viene mai definitivamente superata. E tuttavia resiste. Non perché crede che il mondo migliorerà, ma perché rifiuta di consegnare interamente il presente alla logica della distruzione. In questo senso la speranza non è un sentimento, ma una forma di responsabilità.

Alla fine di questo 2025, se una speranza è ancora pensabile, non è quella che guarda avanti con fiducia, ma quella che resta davanti all’assenza senza distogliere lo sguardo. Non promette salvezza, ma impedisce che il disastro diventi norma, che la violenza diventi paesaggio, che il fascismo torni a essere “una delle opinioni possibili”.

È poco, forse. Ma è quanto basta per non cedere.

Pubblicato il 26 dicembre 2025