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Una recensione critica che nasce come reazione a un’altra tecno-ottimista pubblicata sulla nave sul libro di Claudo Paolucci: 𝐍𝐚𝐭𝐢 𝐂𝐲𝐛𝐨𝐫𝐠. 𝐂𝐨𝐬𝐚 𝐥’𝐢𝐧𝐭𝐞𝐥𝐥𝐢𝐠𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐚𝐫𝐭𝐢𝐟𝐢𝐜𝐢𝐚𝐥𝐞 𝐠𝐞𝐧𝐞𝐫𝐚𝐭𝐢𝐯𝐚 𝐜𝐢 𝐝𝐢𝐜𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥’𝐞𝐬𝐬𝐞𝐫𝐞 𝐮𝐦𝐚𝐧𝐨. Una recensione scritta come autore di 𝐍𝐎𝐒𝐓𝐑𝐎𝐕𝐄𝐑𝐒𝐎 – 𝐏𝐫𝐚𝐭𝐢𝐜𝐡𝐞 𝐮𝐦𝐚𝐧𝐢𝐬𝐭𝐞 𝐩𝐞𝐫 𝐫𝐞𝐬𝐢𝐬𝐭𝐞𝐫𝐞 𝐚𝐥 𝐦𝐞𝐭𝐚𝐯𝐞𝐫𝐬𝐨, un libro nel quale ho messo al centro della riflessione la scomparsa del corpo, del volto (non della faccia che è ovunque) e dello sguardo (ormai sempre chino), celebrando un Nostroverso incarnato, per chiamare alla resistenza dell’umano, contro la (pre)potenza della macchina. Per questo e altro non ho potuto resistere a condividere una riflessione stultifera critica sul libro di Claudio Paolucci. Il libro parla dell’IA come di uno specchio che rivela chi siamo, di una rivelazione del funzionamento dell’intelligenza umana, dentro una continuità evolutiva, di come noi, siamo cyborg per natura. Paolucci vede l’ibridazione come costitutiva dell’umano, io parlo dell’ibridazione tecnologica come di una potenziale alienazione. Quello che segue è il tentativo di riaffermare gli argomenti del mio libro evidenziando ciò che, del libro di Paolucci, non mi ha convinto e non mi sento di condividere.


Il fascino pericoloso del tecno-ottimismo

Claudio Paolucci è un semiologo e filosofo dell'Università di Bologna.  Con il suo libro Nati Cyborg. Cosa l’intelligenza artificiale generativa ci dice dell’essere umano (2024), ha celebrato le macchine-IA capaci di parlare come una svolta evolutiva del genere umano, fornendo una lettura entusiastica dell'intelligenza artificiale generativa e delle sue implicazioni, utili per la comprensione del nostro essere umani.

Per Paolucci l'integrazione con le tecnologie non rappresenta una minaccia per l’umanità, ma piuttosto la rivelazione della vera natura umana che sta nel nostro essere stati sempre dei cyborg, degli organismi cibernetici[1], la cui cognizione e identità si estendono oltre i confini biologici del corpo, attraverso protesi tecniche e sistemi simbolici, oggi anche attraverso potenti strumenti tecnologici come le IA. L’approccio privilegia la dimensione cognitiva e computazionale, tratta il corpo come semplice supporto o estensione della cognizione.

“L’intelligenza artificiale generativa rappresenta una svolta evolutiva e l’essenza che viene rivelata dai nuovi enunciati macchinici è quella di [noi come] esseri umani. Di fronte alle nuove macchine che hanno linguaggio, siamo noi a essere in gioco e le macchine ci mostrano ora […] qualcosa di importante sulla nostra stessa essenza e sul nostro funzionamento.” (Claudio Paolucci)

La tesi centrale del libro è che l'avvento dell'IA generativa, con ChatGPT e sorelle varie, e i loro LLM (Large Language Models), non segni una rottura drammatica con l'umano (in fondo noi e le macchine facciamo le stesse cose), ma riveli invece quanto la nostra cognizione sia sempre stata distribuita, esternalizzata, profondamente intrecciata con artefatti tecnici e “sistemi semiotici”[2]. Lungi dal doverci preoccupare della disumanizzazione prodotta dall'IA, dovremmo riconoscere che essere cyborg[3] è condizione costitutiva, persino desiderabile, dell'essere umano contemporaneo. Le macchine, a differenza di ciò che sostiene Floridi, non sono stupide e la loro intelligenza è assimilabile alla nostra, da qui il concetto di cyborg applicato agli umani.

Anche se l’IA avanzata attuale continua a non provare emozioni, è incapace di soffrire, di sentire o di provare piacere, manca di stati intenzionali, il fatto che ci induca a credere di poterli avere e di provare emozioni non è cosa di poco conto, deve farci riflettere. Non lo è neppure la sua capacità di produrre significato, a partire dal semplice accesso a miriadi di dati in forma di parole (significanti), dandoci l’impressione di essere una “persona”, un soggetto a tutti gli effetti, un essere dotato di intelligenza, quindi capace di compiere delle inferenze sulla “realtà” ancora prima di averne esperienza diretta, ma precedendola, applicando i suoi schemi interni a priori a cui far adattare l’input sensoriale, in potenza sempre caotico, configurandolo.

Quella che emerge dal libro di Paolucci è una descrizione funzionalista dell’umano che si avvicina molto a quella della macchina e alle sue pretese di ridurre al limite l’incertezza per dare ordine al mondo, favorendo le azioni efficaci di chi lo abita. Azioni da considerare intelligenti perché svolte da un (cyborg) umano e che oggi tendiamo a considerare tali anche quando sono svolte da una macchina-IA. Per il semiologo Paolucci, essendo gli umani attraversati dal linguaggio e medium loro stessi (lo sono anche le IA che tendono però a farsi Oracolo, Dio), come cyborg fanno le stesse cose della ChatGPT (lo specchio nel quale ci riflettiamo): manipolano segni, producono allucinazioni, costruiscono rappresentazioni e generano apparenze, con in più la possibilità che nella loro evoluzione finiscano per rendere l’umano antiquato (l’IA non ha forse reso antiquati anche gli umani giocatori di GO?).

Una riflessione (imbecille[4]) personale

Nonostante la chiarezza espositiva dello stile accademico utilizzato, e i numerosi esempi forniti, tratti dalla vita quotidiana e dalla tecnologia contemporanea, con l’intenzione di rendere i concetti più tangibili, il testo, seppure breve, non è di facile lettura.

I molteplici riferimenti teorici (il testo dialoga con autori come Pierce, Eco, Clark[5], Chalmers, il linguista Benveniste, e altri, la cui scarsa o nessuna conoscenza non facilita la comprensione del testo), l’approccio semiotico e filosofico, e il linguaggio specialistico (termini tecnici della semiotica e delle scienze cognitive) utilizzato, pieno di perifrasi e frasi complesse non facilmente decodificabili da un non esperto, obbligano il lettore alla rilettura e a tentare di comprendere ciò che l’autore vuole effettivamente dire, con i suoi riferimenti alla semiotica, alla cognizione,  e alle varie correlazioni che ne derivano.

Il testo di Paolucci (qui una parte del testo) si presta a interpretazioni e riflessioni diverse, dentro ambiti non da tutti frequentati o conosciuti, che ineriscono a temi che fanno parte da tempo del dibattito accademico filosofico, semiologico, linguistico e mass-mediologico. A conoscenza di altre recensioni pubblicate, sia qui sulla Stultiferanavis (Francesco Parisi), sia altrove (suggerisco la lettura della recensione di Aluisi Tosolini e di Alessandra Campo, dalla quale ho tratto alcuni spunti), ho deciso di focalizzarmi su un ambito di riflessione diverso, limitato, non toccato da altri, ma per me altrettanto importante.

Questa riflessione assume una posizione filosoficamente critica nei confronti delle tesi di Paolucci, non per negare banalmente l'importanza delle tecnologie nella costituzione dell'esperienza umana, ma per contestare il riduzionismo cognitivo, il funzionalismo[6] ispirato ad Alan Turing adottato, il tecno-ottimismo acritico, soprattutto per problematizzare l'idea che essere cyborg rappresenti un progresso rispetto all'essere semplicemente imbecilli (in‑baculum, senza bastone) umani.

Per contestualizzare e delimitare la critica di riduzionismo è utile ricordare quali siano i tre nuclei concettuali fondamentali del progetto teorico di Paolucci: il concetto pierciano[7] di abitudine riattualizzato, la teoria della mente estesa e la tesi che siamo cyborg naturali, da sempre.  Paolucci restituisce alla semiotica una dimensione materiale e incarnata, dialoga con le neuroscienze, la robotica e l’IA, evita dualismi ingenui tra naturale e artificiale, biologico e tecnologico. Più che un riduzionismo cognitivo forte quindi, quello di Paolucci è probabilmente un tentativo di spostare il discorso cognitivo su basi “semiotiche enattive”[8] e pragmatiche, allo scopo di non ridurre la mente né a pura computazione interna, né a sola neurofisiologia, dentro una visione che vede i processi cognitivi come co‑costituiti dai sistemi di segni e dall’ambiente in cui agiamo.​ L’enfasi data alla dimensione cognitiva e alla estensione tecnologica che oggi ci caratterizza come umani finisce però per diventare un limite del suo intero impianto teorico.

Chi critica Paolucci collega il suo riduzionismo cognitivo alla riformulazione di categorie tradizionali come soggettività, significato, immaginazione, e percezione, in termini di funzioni cognitive: per esempio la percezione come “allucinazione controllata[9]” in chiave cervello bayesiano[10].  Da ciò ne deriva una lettura di dimensioni come etica, politica o storicità, attraverso il prisma dell’adattamento cognitivo, e questo può essere percepito come una “cognitivizzazione” di ambiti più ampi, un “riduzionismo” cognitivo.

Un aspetto di questo riduzionismo è la visione del corpo di Paolucci. Pur criticando la lettura cartesiana della mente come res cogitans separata dal corpo-macchina (res extensa), e pur sostenendo che la cognizione è incarnata (Clark) e quindi dipendente dalle caratteristiche del corpo, dai suoi sistemi sensomotori e dalla sua morfologia, l’incarnazione in Paolucci è prevalentemente funzionale.

Il corpo non è altro che il veicolo, lo strumento attraverso il quale la cognizione si realizza, estendendo la mente all’ambiente. In questa visione il corpo finisce per essere una semplice interfaccia tra la mente e la realtà, la mente e il mondo. Oggi è anche più di una interfaccia, essendo la superficie di contatto, il supporto a cui si installano e si ibridano protesi e dispositivi tecnici. In tutto questo scompare il corpo vissuto, nella sua dimensione fenomenologia e affettiva.

Il corpo di Paolucci è debole e “imbecille”, bisognoso di appoggi esterni, quali utensili, scrittura, archivi, e oggi algoritmi e IA. Il corpo biologico, pensa Paolucci, da solo non funziona, è un semplice supporto materiale di processi cognitivi che sono, in ultima analisi, computazionali o quasi-computazionali. Secondo il modello funzionalista adottato il corpo funziona solo se inscritto in circuiti di esternalizzazione e delega (della memoria, del calcolo, della percezione e altro), all’ambiente tecnico esterno. Il corpo è un semplice nodo di una mente estesa (la mente non è confinata nel cervello ma può estendersi nel mondo), parte di un concatenamento cognitivo più grande dove la mente comprende l’organismo, l’ambiente, gli strumenti e i dispositivi che fungono da prolungamenti funzionali del corpo. 

Questi innesti esterni sono all’origine dell’intelligenza, rendono possibile l’esperienza corporea del vedere, del ricordare, del decidere. Dentro questa visione il cyborg è il destino evolutivo del corpo, non inteso come post-umano, ma come un corpo da sempre ibridato con protesi cognitive e semiotiche, che lo hanno reso cyborg dalla nascita, aiutandolo a adattarsi al mondo. Oggi l’IA sembra confermare questa visione cyborg, rende visibile una verità: molte funzioni che credevamo interne al corpo‑mente come scrivere, immaginare, dialogare, ecc., ora assegnabili a sistemi esterni, ci rivelano che il nostro corpo è da sempre progettato, per funzionare come parte di un organismo cibernetico allargato.​

Contro questa prospettiva cyborg, cognitivista e riduzionista, per la quale il corpo, rispetto alla mente, è in larga parte irrilevante, facendo mia la prospettiva fenomenologica, cercherò di sostenere che il corpo è il centro vissuto del nostro essere nel mondo, che la dimensione corporea, relazionale, fragile e vulnerabile dell'esistenza umana non possa essere ridotta a supporto  periferico di processi mentali rappresentazionali, a semplice materia computazionale, a informazione calcolabile, processabile, né sostituita da protesi tecniche, senza che vadano perduti componenti fondamentali di significato, di autonomia e di dignità umane.

Riduzionismo cognitivo e celebrazione acritica

Facendo propri pensieri di studiosi come Andy Clark[11] (promotore con David Chalmers della teoria della mente estesa), il quale sosteneva il nostro essere “natural born cyborg” e che la natura umana sia quella di ibridarci con l’ambiente, oggi con le macchine, l’autore sviluppa la sua argomentazione attorno ad alcuni nuclei teorici centrali.

In primo luogo, sostenendo che la cognizione umana sia essenzialmente distribuita ed estesa: noi umani non pensiamo solo nella e attraverso la testa, ma aiutandoci con artefatti, iscrizioni, dispositivi che esternalizzano e potenziano le nostre capacità cognitive. L'IA generativa sarebbe quindi semplicemente l'ultima iterazione di un processo millenario di esternalizzazione cognitiva che include la scrittura, i sistemi di (an)notazione matematica, i computer e ora i modelli linguistici (LLM) delle IA generative.

L'autore propone poi una continuità ontologica tra intelligenza naturale e intelligenza artificiale. I Large Language Models (LLM), sostiene Paolucci, non sono radicalmente diversi dalla cognizione umana, ma condividono con essa caratteristiche fondamentali, quali l'apprendimento statistico da pattern, la capacità di generalizzazione, la generazione creativa a partire da nuove combinazioni. La distinzione tra vera comprensione umana e semplice elaborazione statistica delle macchine viene presentata come pregiudizio antropocentrico privo di fondamento.

L'aspetto più problematico della trattazione di Paolucci è la celebrazione della condizione cyborg come superiore a quella di un ipotetico umano naturale (imbecille) o senza protesi.

L'integrazione con sistemi tecnici non sarebbe semplicemente inevitabile, ma (tecno)positivamente desiderabile. Grazie al potenziamento tecnologico, all’ibridazione, alle macchine, alle IA, gli esseri umani diventano più intelligenti, più capaci, più liberi dai limiti della loro biologia animale, umana. Il bastone, la protesi, l'interfaccia digitale non sono stampelle che compensano debolezze, ma amplificatori che ci permettono, come umani cyborg, di trascendere le limitazioni della nuda condizione umana.

Questa visione si accompagna a una sostanziale fiducia nella neutralità delle nuove tecnologie e nella loro capacità di elargire benefici e vantaggi a tutti. Pur riconoscendo in modo formale l'esistenza di questioni etiche e sociali inerenti alla tecnologia.  Nella realtà dello sviluppo tecnologico e della implementazione dell'IA contemporanea, Paolucci sembra minimizzare le dinamiche di potere a esse associate o da cui derivano, le tante asimmetrie economiche esistenti, le forme di controllo e di sfruttamento che le caratterizzano.

Il focus rimane prevalentemente epistemologico e semiotico, come se il mondo reale là fuori esistesse solo come parte della mente estesa, una sua proiezione, con scarsa attenzione alle dimensioni politico-economiche, alle conseguenze materiali concrete dell'automazione e oggi della presa cognitiva delle tecnologie di IA sul mondo.

C’è poi un altro aspetto che merita attenzione. Nel naturalizzare la tecnica presentando l’ibridazione come necessaria, inevitabile e neutra, Paolucci non tiene conto delle innumerevoli caratteristiche qualitative delle protesi o estensioni tecnologiche di cui parla. Non tutte le protesi sono uguali (esterne, incorporate, invasive, neurali, ecc.) e ognuna di esse pone problemi filosofici, etici politici differenti, non sono funzionalmente equivalenti.

Il corpo che resiste: critica del riduzionismo cognitivo e tecnologico

La prima e forse più fondamentale obiezione alla prospettiva di Paolucci riguarda il riduzionismo cognitivo[12] che attraversa la sua opera intera.

Ridurre l'essere umano a semplice sistema di elaborazione dell'informazione, sia pure nel suo essere distribuito ed esteso, significa praticare una concezione riduzionista della cognizione contro cui si sono espressi neuroscienziati come Gazzaniga. Significa anche operare una drastica semplificazione, che elimina dimensioni costitutive dell'esperienza umana, mai riducibili alla semplice elaborazione simbolica e/o statistica. La semplificazione nasce dalla tendenza ad assegnare un’importanza sempre maggiore al cervello, considerato il motore e il garante delle procedure computazionali a cui sarebbe possibile ridurre la cognizione umana.

Leggendo l’opera di Paolucci si può cadere nella trappola del superamento del dualismo cartesiano di mente e corpo. Il superamento appare plausibile grazie alla teoria della mente estesa e al richiamo alla cognizione incarnata (embodied cognition). Sembra reso possibile anche dall’integrazione tra semiotica “pierciana” (il concetto di abitudine inteso come meccanismo che da forma alla nostra relazione con il mondo) filosofia della mente e scienze cognitive, ma il dualismo, il riduzionismo cognitivo, si ripresenta sotto forma di distinzione tra la funzione cognitiva (ciò che conta) e substrato materiale (sempre intercambiabile), tra mente estesa e distribuita e corpo come semplice hardware. Si ripresenta in una relazione corpo mente asimmetrica senza alcuna reciprocità e simmetria: è sempre la mente che si estende, mai il corpo che pensa autonomamente. Si presenta nel trattare il corpo come semplice supporto funzionale (“hardware della mente”) alla cognizione.

Ciò che va perduto in questa concezione è la dimensione fenomenologica del corpo vissuto, schiacciato dentro un monismo funzionalista che non tiene conto di dimensioni umane ed esistenziali fondamentali quali l’affettività, il piacere[13], il dolore[14], l’intercorporeità[15], la motricità[16] pre-riflessiva e altro ancora. Ne deriva una teorizzazione semiotica disincarnata, nella quale il corpo, essendo semplice hardware, serve solo a veicolare il software rappresentato da processi (meccanismi, funzioni) cognitivi. Il corpo diventa semplice oggetto percepito e non soggetto percipiente, scompare la sua dimensione cinestetica, pre-riflessiva, intercoporea e intersoggettiva, con conseguenze etiche e politiche.

La rappresentazione del corpo – dall'Egitto alla Grecia, dal Medioevo al Rinascimento, dal Barocco alle avanguardie, fino all'era degli schermi – ha seguito un filo rosso preciso: la progressiva separazione tra corpo vissuto (il corpo sentito dall'interno, esperienza incarnata) e corpo rappresentato (il corpo visto, misurato, codificato dall'esterno).

In questa visione e concezione funzionalista il corpo umano appare come sistema sensomotorio cognitivo, gli stati mentali sono definiti dal loro ruolo causale e non dalla loro capacità realizzativa fisica, da un corpo, sede di passioni, desideri, pulsioni. Il corpo umano e la sua componente biologica sono relegati a semplice struttura periferica, un insieme di dispositivi di esternalizzazione. Come tale, una volta che il copro è stato definito funzionalmente, diventa teoricamente sostituibile: un cyborg vale l’altro, un cyborg macchina alla lunga potrà valere come un cyborg umano. La sostituibilità deriva dal non prendere in considerazione il vissuto di ogni corpo specifico incarnato, che poi vuole dire considerare la sua storia, le sue cicatrici, i suoi ritmi, la sua unicità, ma solo la funzione cognitiva che esso svolge. Dentro questa visione una protesi robotica avanzata e una mano biologica (“parità funzionale”), se realizzano le stesse funzioni, pari sono.

Al contrario il corpo non è semplicemente un supporto biologico per un cervello (mente estesa) computazionale, né può essere adeguatamente sostituito o potenziato da protesi tecniche, senza perdite fondamentali in termini di senso e di significato. Il corpo è il medium primario attraverso cui (ci) siamo nel mondo, è il luogo dell'esperienza preriflessiva[17], della sensibilità, delle emozioni, dell'affettività. La percezione non è una semplice elaborazione di dati sensoriali, ma è un’apertura incarnata al mondo, un orientamento pratico. Comporta il coinvolgimento precognitivo, che precede e fonda ogni operazione simbolica o computazionale.

Il corpo sostituibile perde la sua dimensione esistenziale costitutiva e diventa semplice mezzo, interfaccia. Il funzionalismo che emerge dalla teoria di Paolucci non può dare conto dell’esperienza vissuta di ogni individuo incarnato, di cosa si prova ad (avere) essere corpo. Ci sono poi differenze qualitative cruciali, ad esempio tra una protesi robotica e un organo vivente come una gamba: la protesi è uno strumento di cui sono consapevole, la gamba è senziente, vulnerabile, mortale, è trasparente all’uso, in poche parole è “me”. Inoltre, è parte integrante del mio schema corporeo pre-riflessivo.

"Abbiamo questa idea, derivata dalla fantascienza, secondo cui possiamo ricostruirci più forti, più veloci, migliori. Una mano protesica però resta un artefatto, quella umana è unorgano di senso (Mary Roach)

Quando Paolucci celebra la condizione cyborg come superamento dei limiti corporei vede il corpo visto da fuori, come oggetto, quindi sempre quantificabile e misurabile, e non come corpo-vissuto, il corpo soggetto della percezione e dell’azione, il corpo che ogni uomo è e non che ogni uomo ha. Come tale il corpo vissuto è il punto di vista personale sul mondo, non è una semplice rappresentazione mentale. Il corpo vissuto è tale anche perché è essenzialmente vulnerabile[18], è affettivo, si costituisce dentro l’intercorporeità[19] e la motricità pre-riflessiva, non è una macchina. Paolucci sembra misconoscere o sottovalutare che questi presunti limiti (attriti) siano in realtà condizioni di possibilità dell'esperienza significativa umana.

La fatica, la vulnerabilità[20], la fragilità, la mortalità umane non sono malfunzionamenti da correggere attraverso un potenziamento tecnologico, ma dimensioni costitutive dell'esistenza umana. Costitutive perché danno forma e urgenza ai nostri progetti come esseri umani, alle nostre relazioni, ai nostri valori. Un essere invulnerabile e immortale, attraverso protesi tecniche, non sarebbe un umano potenziato, ma qualcosa di qualitativamente diverso, un uomo diminuito come ha sostenuto Miguel Benasayag, un umano senza quelle coordinate fondamentali attraverso cui l'esistenza umana acquisisce senso.

La dimensione del volto e dello sguardo, centrale nella filosofia di Emmanuel Lévinas (autore a cui mi sono ispirato per i miei due libri: Oltrepassare – Intrecci di parole tra etica e tecnologia e il sopra menzionato NOSTROVERSO) e nell'etica della relazione, introduce ulteriori elementi critici. Il volto dell'altro non è un'interfaccia informativa da cui estrarre dati, ma una epifania dell'alterità, dell’Altro, che impone una responsabilità etica prima di ogni elaborazione cognitiva umana. Lo sguardo reciproco che fonda la relazione intersoggettiva non può essere mediato da avatar o simulato da IA senza una perdita fondamentale: la presenza corporea dell'Altro, la sua (che è anche la propria) vulnerabilità esposta, il suo appello silenzioso, costituiscono la base precognitiva dell'etica, che nessuna intelligenza artificiale, per quanto sofisticata, può replicare o sostituire.

La tentazione di sostituire la presenza corporea con simulazioni digitali, per quanto immersive e tecnicamente avanzate, produce un impoverimento della relazione umana. Il metaverso (qui inteso come metafora dei mondi online, compresi quelli oggi associabili alle IA) può essere uno spazio di pratiche significative, ma solo se rimane radicato nella corporeità, se non pretende di sostituire, bensì di estendere e arricchire le possibilità di incontro tra corpi incarnati, vissuti e situati.

La neutralità tecnologica è un mito!

Una seconda linea di critica riguarda la sostanziale neutralità che Paolucci attribuisce alle tecnologie. Presentare l'IA generativa come semplice potenziamento cognitivo, assimilabile alla scrittura o al calcolo, significa ignorare, per non dire sottovalutare, le specifiche configurazioni di potere, le logiche economiche, e le forme di controllo sociale che caratterizzano concretamente queste tecnologie nel (tecno)capitalismo contemporaneo dell’era delle macchine. Ogni tecnologia incorpora valori, norme, rapporti di potere. Gli occhiali standardizzano la visione, lo smartphone colonizza l'attenzione, la protesi robotica impone certi movimenti e ne esclude altri. La tecnologia non è mai solo funzionale, è sempre anche normativa.

I Large Language Models non sono strumenti neutrali, disponibili a tutti in modo democratico, ma prodotti (modelli) commerciali di aziende High Tech alla conquista del mondo. Sono aziende multinazionali e monopolistiche, che investono miliardi in risorse computazionali, sono impegnate nella raccolta (trafugamento) di dati e di informazioni, estratti senza il consenso di chi li produce. I dati e le informazioni sono resi trasparenti grazie alla complicità degli utilizzatori delle tecnologie e allo sfruttamento lavorativo invisibile di migliaia di lavoratori (dai click-workers nei paesi del Sud globale che etichettano dati, ai moderatori di contenuti traumatici, alle persone incaricate di aiutare le IA ad avere meno allucinazioni, ecc.).

Presentare ChatGPT come una protesi cognitiva, senza analizzare chi possiede questa protesi, chi la controlla, chi decide come viene progettata e con quali obiettivi, significa operare una mistificazione ideologica che naturalizza rapporti di potere specifici, anche quando naturali proprio non sono.

La condizione cyborg celebrata da Paolucci non è una condizione universale e paritaria. È profondamente disuguale e ingiusta. Risulta essere stratificata per classe, su base geografica, per capacità e disponibilità economiche. Solleva molteplici domande di cui il libro di cui parliamo sembra essere disinteressato a porsi.

Chi può permettersi le protesi tecnologiche più avanzate? Chi rimane escluso? Chi viene ridotto a fornitore di dati per addestrare sistemi che poi non può permettersi di utilizzare?

Queste domande, fondamentali per una valutazione critica della cosiddetta società cyborg, rimangono largamente inevase nell'opera di Paolucci. È come se lui stesso fosse già un semplice cyborg, noncurante delle sorti dei cyborg (più imbecilli) a lui vicini, forse incapace di esserlo proprio perché cyborg, quindi potenzialmente programmato e/o programmabile.

In aggiunta, con riferimento al libro di Virginia Eubanks (Automating Inequality), le stesse tecnologie possono funzionare come strumenti di empowerment per alcuni, come meccanismi di controllo, di sorveglianza e di punizione per altri. L'IA non è mai neutra rispetto alle disuguaglianze esistenti, ma tende a incorporarle e ad amplificarle. Lo fa attraverso pregiudizi algoritmici, opacità decisionale, configurazioni (algoritmiche, ecc.) che privilegiano chi già detiene il potere economico e sociale. Celebrare la condizione cyborg senza analizzare criticamente queste asimmetrie significa assumere implicitamente la prospettiva dei privilegiati (aspiranti cyborg) tecnologici ignorando chi subisce le conseguenze negative dell'automazione e della tecnolog-IA.

Dipendenza e vulnerabilità tecnologica

Un’altra critica riguarda la sottovalutazione della dipendenza e della vulnerabilità che la condizione cyborg comporta.

Paolucci presenta l'integrazione tecnologica come ampliamento delle capacità e della libertà, ma una prospettiva più realistica deve riconoscere come questa integrazione produca anche nuove forme di dipendenza, di fragilità e di controllo. Forme che, sposando l’approccio cognitivista e semiotico, sembrano semplici esiti strutturali del modo in cui funzionano mente e sistemi di segni, ma che così non sono. Ad esempio, come evitare di pensare che chi controlla il flusso di stimoli e di informazioni controlla anche le previsioni del sistema cognitivo? Come fare a evitare di riflettere, anche per motivi etici, sul fatto che gli algoritmi che oggi selezionano contenuti o notifiche orientano ciò che l’utente ritiene probabile, interessante o plausibile? Come tutto questo può trovare una sistematizzazione dentro l’approccio cognitivo, se non adottando un approccio riduzionistico?

Quando esternalizziamo funzioni cognitive in sistemi che non comprendiamo pienamente e che non controlliamo, cediamo autonomia e capacità di autodeterminazione ad altri. Ad esempio, continuare a usare il GPS induce una dipendenza reale che si traduce nella perdita dell'orientamento spaziale, ma produce anche atrofia delle capacità (cognitive) umane di orientamento, movimento e navigazione. Affidarsi ad algoritmi di raccomandazione per scelte culturali, informative, relazionali, non è solo espressione di maggiore efficienza, ma anche di delega di sovranità decisionale, a sistemi opachi ottimizzati per obiettivi che non sono necessariamente (forse mai) i nostri.

Questa dipendenza non è meramente individuale, ma sistemica. Intere infrastrutture sociali, dalla sanità all'educazione, dai trasporti alla finanza, sono ormai integrate con sistemi tecnici la cui interruzione produrrebbe collassi catastrofici. La resilienza individuale e collettiva diminuisce man mano che aumenta la dipendenza da tecnologie complesse, fragili, e controllate da pochi attori privati. La società cyborg, la società delle macchine, è anche una società strutturalmente vulnerabile: a guasti tecnici, ad attacchi cyber(criminali), a decisioni corporate, e a interruzioni infrastrutturali.

L'integrazione cyborg, infine, comporta forme nuove e pervasive di sorveglianza. Ogni protesi digitale è anche un sensore che raccoglie i nostri dati, memorizza informazioni per poi analizzarle, traccia comportamenti, alimenta profili utilizzabili a scopo di controllo, di manipolazione e discriminazione. Il self esteso celebrato da Paolucci è anche un self trasparente, soggetto a monitoraggio continuo, oggetto di analisi e di intervento da parte di attori che non rispondono democraticamente agli interessati. La promessa di potenziamento, tutta da verificare perché a un cervello umano aumentato potrebbe corrispondere un uomo diminuito, si accompagna alla realtà della sorveglianza ubiqua.

Il mito del superamento: essere umani "senza bastone"

Forse l'aspetto più problematico delle tesi di Paolucci è l'implicita svalutazione dell'essere umano naturale o senza (bastone) protesi, a favore della condizione cyborg presentata come realtà superiore. Questa prospettiva incorpora una logica di miglioramento e di superamento che è profondamente problematica da diverse angolazioni.

"stiamo forse riducendo gli esseri umani senzienti a semplici contenutori di pezzi di ricambio? [...] di fronte all'anatomia umana non c'è bisogno solo di tecnica ma anche di umiltà" (Mary Roach)

Dal punto di vista dei disability studies[21], l'idea che le protesi tecniche rappresentino sempre e necessariamente un miglioramento rispetto alla nuda condizione corporea riproduce forme di abilismo[22] e normalizzazione[23]. Le persone disabili hanno da tempo contestato la retorica del superamento tecnologico, sottolineando come le disabilità non siano semplicemente deficit da correggere attraverso protesi, ma modi diversi di essere(ci) nel mondo, che meritano riconoscimento e inserimento sociale piuttosto che normalizzazione tecnologica. Il modello sociale della disabilità insiste che è la società, non il corpo, a produrre disabilità, attraverso barriere e mancanza di accessibilità.

Estendendo questa critica, possiamo dire che celebrare la condizione cyborg come superiore all'essere umano significa implicitamente svalutare la corporeità, la vulnerabilità, la fragilità, l’attrito, la dipendenza reciproca, tutti elementi che caratterizzano l'esistenza umana. Significa aderire a un'ideologia del potenziamento continuo, dell'ottimizzazione senza fine, del superamento dei limiti che è in realtà funzionale alle logiche del (tecno)capitalismo contemporaneo, che spinge a essere sempre più produttivo e consumista, sempre più performante, sempre più connesso, sempre più ottimizzato, un cyborg insomma, una macchina.

Contro questa ideologia, occorre ripensare la relazione tra corpo e tecnologia, non come semplice estensione ma come relazione dialettica e trasformativa, capace di creare nuove possibilità e nuovi vincoli, nuovi confini. L’approccio, per citare Bernard Stiegler, è sempre farmacologico, perché la tecnologia è pharmacon[24], veleno e rimedio insieme.

Serve un umanesimo critico per riaffermare il valore incarnato (rebellio carnis) della vulnerabilità, dell’affettività (noi non abbiamo emozioni, siamo sintonizzati corporalmente con il mondo attraverso tonalità affettive), dell'interdipendenza, della finitudine, come dimensioni non da superare, ma da abitare con consapevolezza, responsabilità e dignità.

Essere umani non è una condizione da cui emanciparsi attraverso enhancement tecnologico[25], ma una realtà complessa che include tanto potenzialità quanto limiti, tanto capacità quanto fragilità. La saggezza non consiste nel superare questa condizione ma nel viverla pienamente, riconoscendo nella vulnerabilità condivisa la base dell'etica, della compassione e della solidarietà.

Il volto, il corpo, lo sguardo non sono ostacoli da bypassare attraverso mediazioni tecniche sempre più sofisticate, ma dimensioni costitutive dell'incontro umano, che hanno valore proprio nella loro immediatezza carnale. La presenza fisica dell'altro, con la sua opacità irriducibile, la sua alterità non programmabile, la sua capacità di sorprendere e interpellarci, è ciò che rende possibile una relazione autentica che nessuna simulazione algoritmica può replicare. Ridurre l'intersoggettività a scambio (cognitivo) informativo mediato tecnologicamente significa impoverire drasticamente la ricchezza dell'esperienza relazionale incarnata umana.

Tecno-ottimismo e rimozione del conflitto

Essendo a volte tacciato di tecnofobia, critica che non ha fondamento alcuno e quindi mi infastidisce, vorrei soffermarmi, con una riflessione critica, sul tecno-ottimismo diffuso che permea l'intera opera di Paolucci e più in generale il discorso contemporaneo sull'IA.

Presentare l'intelligenza artificiale generativa come rivelazione neutra della natura cyborg dell'umano significa, secondo me, rimuovere sistematicamente le dimensioni conflittuali, le conseguenze negative, e le scelte politiche che caratterizzano concretamente lo sviluppo tecnologico.

L'automazione attraverso IA sta producendo effetti reali, con conseguenze pesanti nel mondo lavorativo. Non solo perdita di posti di lavoro, ma aumento dello sfruttamento, crescita della precarietà e della povertà, nuove forme di precarizzazione, di dequalificazione professionale e lavorativa, di concentrazione del potere economico in poche aziende multinazionali tecnologiche. Gli stessi creativi, gli scrittori, gli artisti, i programmatori che Paolucci immagina beneficiati, favoriti e potenziati dall'IA generativa stanno, in realtà sperimentando una svalutazione crescente del loro lavoro, le pressioni competitive da parte di sistemi automatizzati, e l’appropriazione non consensuale delle loro opere, usate per addestrare modelli che poi li sostituiscono. Questa non è semplice transizione o coevoluzione ma conflitto reale con vincitori (pochi o pochissimi) e vinti (molti o moltitudini).

Un altro argomento per me cruciale, accennato all’inizio di questo testo è l’assenza di una riflessione politica associata alla rivoluzione della tecnolog-IA in corso. Una riflessione che sempre dovrebbe essere fatta, non tanto nel proprio ruolo professionale o lavorativo, ma come persona, come cittadino.

La questione ambientale, ad esempio, è completamente assente, eppure nell'entusiasmo generale e diffuso per l'IA generativa, dovrebbe essere un tema cruciale, sia di riflessione sia di studio e narrazione. L’apprendimento del machine learning e dei Large Language Models richiede quantità enormi di energia e di acqua, contribuisce significativamente alle emissioni di carbonio e allo stress idrico. La materialità e la pesantezza dell'infrastruttura computazionale (server farms, cloud computing, chip, sistemi di raffreddamento, e di riciclo, ecc.) contraddicono radicalmente la retorica della smaterializzazione cyborg. La società cyborg è tutt’altro che immateriale, ha un peso ecologico concreto e crescente, che non può essere ignorato in nome dell'entusiasmo per le accresciute potenzialità cognitive.

Un altro argomento sono le implicazioni geopolitiche dell'IA. La competizione tra stati per la supremazia tecnologica (terre rare e non solo), l'uso militare dei sistemi autonomi, la sorveglianza di massa, il controllo sociale autoritario facilitato dall'automazione, ecc. rappresentano dimensioni oscure della condizione cyborg che un'analisi critica non può eludere. Il tecno-ottimismo di Paolucci funziona attraverso una sistematica rimozione di tutte queste realtà problematiche, concentrandosi su scenari ideali di potenziamento cognitivo, mentre ignora le concrete dinamiche di potere, sfruttamento e controllo che caratterizzano lo sviluppo dell'IA nel mondo reale. Non poco oserei dire, perché noi umani non siamo solo quello che facciamo, ma anche quello che siamo. Sempre dovremmo pensare e agire anche come persone.

Alcune considerazioni finali: per un umanesimo critico nel tempo delle macchine

Per provare a concludere, il libro Nati Cyborg di Claudio Paolucci rappresenta un esempio paradigmatico del tecno-ottimismo acritico che caratterizza ampi settori del dibattito contemporaneo sull'intelligenza artificiale.

La celebrazione della condizione cyborg come superamento positivo dei limiti umani, la riduzione della cognizione a semplice elaborazione dell'informazione, la sottovalutazione delle dimensioni corporee e relazionali dell'esistenza, l'occultamento delle dinamiche di potere e delle conseguenze negative concrete dell'automazione, producono una visione distorta e ideologica della realtà, che serve più a legittimare lo status quo tecnologico che a comprenderlo criticamente.

Contro questa prospettiva, è necessario riaffermare un umanesimo critico che riconosca il valore irriducibile della corporeità, della vulnerabilità, dell'intersoggettività incarnata. Non siamo solo cervelli computazionali né sistemi di elaborazione dell'informazione estesi attraverso protesi tecniche. Siamo corpi situati, esseri relazionali, soggetti vulnerabili la cui dignità e il cui valore non derivano da performance cognitive o efficienza operativa ma dalla semplice condizione di essere umani.

Il corpo non è un limite da superare ma il luogo dell'esperienza, della sensibilità, dell'apertura al mondo. Il volto dell'altro non è un'interfaccia da cui estrarre informazioni, ma appello etico che precede ogni calcolo. Lo sguardo reciproco non è scambio di dati, ma fondamento della relazione che nessuna mediazione tecnologica può sostituire senza perdite fondamentali. Queste dimensioni dell'esistenza umana, troppo spesso liquidate come romantiche o nostalgiche, nel discorso tecno-ottimista sono invece essenziali, per preservare una vita degna di essere vissuta, nell'epoca delle macchine cosiddette intelligenti.

Ciò non significa rifiutare le tecnologie o negare che abbiano sempre avuto un ruolo nella costituzione dell'umano. Significa piuttosto mantenere la capacità critica di interrogare quali tecnologie, per quali scopi, con quali conseguenze, sotto il controllo di chi, e con quale distribuzione di benefici e costi. Significa battersi contro la colonizzazione tecnologica che passa attraverso l’enfasi su una estensione tecnologica che rischia di naturalizzare rapporti di potere e di occultare l’ambivalenza della tecnica. Significa rifiutare la retorica dell'inevitabilità e del progresso automatico per rivendicare la possibilità di scelte collettive informate su come vogliamo vivere, quali valori vogliamo preservare, quali dimensioni dell'esperienza umana non siamo disposti a sacrificare sull'altare dell'efficienza o del potenziamento. Significa non rinunciare a interrogare i rapporti di potere che attraversano la decantata neutralità della ibridazione tecnologica

La domanda non è se saremo cyborg, in un certo senso, lo siamo sempre stati, ma quale tipo di cyborg vogliamo essere, quali integrazioni tecnologiche accettiamo e quali rifiutiamo, come preserviamo autonomia e dignità in un mondo di sistemi tecnici sempre più pervasivi e potenti.

Il libro di Paolucci, con il suo tecno-entusiasmo acritico che enfatizza il lato liberatorio della “macchina” senza riconoscerne i rischi, e il suo riduzionismo cognitivo che privilegia la dimensione computazionale e informazionale a scapito della dimensione esistenziale e fenomenologica del corpo, non fornisce strumenti adeguati ad affrontare queste domande cruciali. Un'alternativa critica, radicata nell'umanesimo consapevole della propria storicità, ma fermo nella difesa di valori fondamentali, rimane necessaria e urgente per navigare responsabilmente il tempo dell’era delle macchine intelligenti.


Post Scriptum: non essendo un esperto conoscitore della materia di cui Paolucci è maestro, mi sono limitato a una critica legata ai temi di mio interesse. Riconosco a Paolucci l’importanza del suo contributo nel dibattito contemporaneo su corpo, cognizione e tecnologia. Mi auguro che questo dibattito non si fermi qui e che possa servire a indicare nuove direzioni di sviluppo e integrazione. La STULTIFERANAVIS sarà ben lieta di ospitare contributi inerenti al dibattito in corso.

 


Bibliografia

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Paolucci, C. (2020). *Persona. Soggettività nel linguaggio e semiotica dell'enunciazione*. Milano: Bompiani. 

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Damasio, A. (1994). *L'errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano* (trad. it. F. Macaluso). Milano: Adelphi, 1995.


Note

[1] Gli organismi cibernetici (cyborg) sono sistemi viventi ibridi in cui componenti biologiche e componenti tecniche sono integrati in un unico circuito di controllo e comunicazione. In generale, indicano qualsiasi entità in cui il funzionamento dipende da feedback tra corpo vivente e dispositivi artificiali. Pacemaker, neuroprotesi, impianti cocleari e interfacce cervello‑computer sono esempi concreti di organismi cibernetici, perché il corpo umano dipende da dispositivi elettronici che monitorano, elaborano segnali e intervengono automaticamente. In senso più lato, anche sistemi uomo‑macchina complessi (pilota + autopilota, operatore + esoscheletro robotico) possono essere descritti come organismi cibernetici quando l’azione emerge dall’interazione stretta tra componente biologica e componente artificiale. 

[2] Un sistema semiotico nella vita quotidiana è un insieme di segni codificati che producono significato attraverso convenzioni condivise, come il linguaggio o i gesti. Esempi concreti includono semafori, pubblicità e interazioni sociali, dove segni visivi o verbali comunicano regole o desideri. I sistemi semiotici nei social media sono insiemi codificati di segni digitali, come emoji, like e hashtag, che generano significati condivisi attraverso interazioni collettive. Questi elementi funzionano come linguaggi visivi e testuali, modellando emozioni, opinioni e identità online.

[3] Organismi che pensano attraverso e con le macchine

[4] Per Paolucci i “cyborg imbecilli” siamo noi umani, in quanto specie nata debole che diventa intelligente solo appoggiandosi a protesi e tecnologie esterne. Il termine “imbecille” è preso alla lettera, nel senso etimologico di fisicamente e cognitivamente fragile, non come insulto.

[5] Secondo Paolucci Clark “ha mostrato come la natura stessa dell’essere umano, quella natura che gli ha consentito di passare dall’essere predato  all’essere il più spietato predatore esistente sul pianeta senza fare nulla al suo corpo, sia la sua continua capacità di delegare all’ambiente e agli artefatti culturali le proprie skill cognitive in modo da svolgere in modo più efficace compiti che, se li svolgessimo  all’interno della nostra testa o del nostro corpo biologico, sarebbero molto meno efficaci o molto più complessi

[6] Si può dire che pensa in modo intelligente tutto ciò che mostra un comportamento che diremmo intelligente se venisse eseguito da un essere umano 

[7] Il concetto pierciano di abitudine, legato al suo pragmatismo, la definisce come una disposizione stabile o "seme" di un'azione futura, un'abitudine mentale (habitus) che si forma attraverso la ripetizione, rendendo un comportamento più efficiente e automatico, sgravando la coscienza e creando un legame tra un segnale, una routine e una gratificazione, che anticipa e guida le nostre risposte nel mondo, trasformando l'esperienza in una credenza permanente e in una conoscenza acquisita. 

[8] A pagina 26 del suo libro, Paolucci ci fornisce la definizione che qui trascrivo: «Con “enattivismo” si intende quella tradizione interna alle scienze cognitive e alla filosofia della mente che rifiuta la distinzione tra pensiero e azione, nonché la tripartizione classica che sostiene che la percezione è l’input del pensiero, che il pensiero è la manipolazione cognitiva di rappresentazioni e che l’azione è l’output della cognizione. Per gli enattivisti, che si ispirano ai lavori pionieristici di Francisco Varela, il pensiero è “enacted” e serve per agire efficacemente nel mondo e non per costruirsene una rappresentazione vera.» . Tuttavia va ricordato che l’enattivismo (Varela, Thompson, Rosch) è più orientato all’interazione incarnata e al ruolo del corpo, la teoria della mente estesa, a cui si richiama Paolucci, si concentra soprattutto sull’uso di strumenti esterni e tecnologie cognitive.

[9] Una allucinazione controllata è un modo di descrivere la percezione come costruzione attiva del cervello, che genera ipotesi sul mondo e le corregge in base agli stimoli sensoriali. In questa prospettiva non “vediamo ciò che c’è”, ma una previsione che viene continuamente aggiustata: quando il controllo tramite i dati sensoriali fallisce si hanno le vere allucinazioni, quando invece funziona si ha percezione normale.

[10] Il cervello bayesiano (o Bayesian brain hypothesis) è un framework teorico nelle neuroscienze cognitive che postula il sistema nervoso centrale come operante secondo i principi dell'inferenza bayesiana per interpretare stimoli sensoriali e generare comportamenti adattivi. Secondo questo modello, il cervello: Mantiene rappresentazioni probabilistiche del mondo esterno sotto forma di distribuzioni di probabilità (prior beliefs); Integra nuove evidenze sensoriali con le conoscenze pregresse attraverso il teorema di Bayes, aggiornando continuamente le proprie credenze (posterior beliefs); Minimizza l'incertezza predittiva confrontando le predizioni interne con gli input sensoriali effettivi, generando "errori di predizione" che guidano l'apprendimento

[11] Clark influenza profondamente Paolucci con la teoria della "mente estesa" (Extended Mind), dove l'intelligenza emerge da concatenamenti tra corpo biologico e artefatti culturali, come utensili o IA, permettendo di delegare capacità cognitive per efficacia superiore

[12] Il riduzionismo cognitivo è una prospettiva filosofica e scientifica che sostiene che i fenomeni mentali (pensieri, emozioni, coscienza) non siano altro che processi fisici e chimici che avvengono nel cervello, riducibili alle leggi della fisica e della neurologia, tentando di risolvere il problema mente-corpo spiegando la mente come proprietà emergente del cervello. Se da un lato questo approccio permette di studiare la mente scientificamente attraverso neuroscienze e psicologia, dall'altro viene criticato perché rischia di ignorare la complessità dei fenomeni psicologici e i limiti della conoscenza scientifica, rischiando di perdere il significato emergente della coscienza, del vissuto e dell'esperienza umana.  

[13] Il piacere, il dolore, la nausea, il desiderio, la paura non sono stati mentali che "accadono" in un corpo neutro, ma sono modi di essere-corporeo, modi in cui il mondo ci tocca e ci muove. 

[14] Il dolore fisico non è semplicemente un'informazione: è una dimensione *esistenziale* che trasforma la mia relazione con il mondo, che contrae il mio orizzonte di possibilità, che mi isola o mi espone.

[15] Husserl e Merleau-Ponty hanno mostrato che l'esperienza dell'altro corpo non è mediata da inferenze cognitive (come nella "teoria della teoria" della mente), ma è diretta e pre-riflessiva. Questa dimensione è oggi confermata dalla scoperta dei neuroni specchio (Rizzolatti, Gallese), ma sarebbe un errore ridurre l'intercorporeità a meccanismo neurale. In Paolucci la dimensione sociale è presente ma tende ad essere pensata in termini di condivisione di abitudini cognitive, non di risonanza corporea, manca l'attenzione alla gestualità, alla postura, alla prossimità corporea che costituiscono il tessuto pre-linguistico dell'interazione sociale.

[16] Il movimento non è una proprietà del corpo ma è costitutivo della corporeità e del pensiero stesso. Noi pensiamo in movimento, non prima del movimento. La kinestesia (la sensazione del movimento) è la base della coscienza. Il corpo in movimento non è hardware che esegue comandi da un software-mente. Nel gesto spontaneo, nell'improvvisazione, nella danza, il corpo "pensa" in modi che precedono e eccedono la deliberazione cognitiva. C'è una saggezza motoria, un'intelligenza kinestesica che non è riducibile a rappresentazioni o computazioni. 

[17] Secondo una prospettiva neuroscientifica che si richiama alla fenomenologia, al di sotto della dimensione cognitiva o riflessiva, si trova una dimensione implicita, spesso data per scontata, poco indagata: l’orizzonte pre-riflessivo. Raramente viene tematizzato. Sempre viene vissuto nella prassi del nostro stare al mondo.

[18] Il corpo vissuto è essenzialmente vulnerabile. Può ammalarsi, invecchiare, soffrire, morire. Questa vulnerabilità non è un difetto accidentale che la tecnologia potrebbe eliminare, ma una dimensione costitutiva dell'esistenza corporea. La vulnerabilità corporea ci espone agli altri, crea dipendenza reciproca, è la base dell'etica. Se il corpo viene paragonato a una macchina hardware, può essere riparabile si può aggiustare, ma il corpo vivente non funziona così. La malattia, il dolore cronico, l'invecchiamento non sono "malfunzionamenti" correggibili, ma esperienze esistenziali che ridefiniscono radicalmente il nostro essere-nel-mondo. 

[19] L'intercorporeità è il riconoscimento reciproco e la co-creazione di significato che avvengono attraverso l'interazione corporea tra due o più individui, prima ancora che a livello verbale o mentale, coinvolgendo la percezione del corpo dell'altro, le posture, le tensioni e i movimenti in uno scambio continuo di informazioni sensoriali ed emotive, fondamentale per la formazione del sé e delle relazioni. 

[20] Secondo  pensatori come Heidegger (Essere e tempo), e Levinas (Totalità e infinito) la finitudine corporea è fondamentale per comprendere temporalità, mortalità, alterità

[21] Gli studi sulla disabilità sono un campo accademico interdisciplinare che analizza la disabilità non solo come una questione medica, ma come un fenomeno sociale, culturale, politico e storico, sfidando le norme e concentrandosi sulle esperienze vissute, sull'oppressione e sull'inclusione attraverso una lente critica, attingendo a sociologia, storia, filosofia e diritto per comprendere le barriere e difendere i diritti. Sposta l'attenzione dal deficit individuale alle strutture sociali, promuovendo l'empowerment, i diritti e la vera inclusione piuttosto che la mera integrazione, e utilizza le discipline umanistiche per esaminare come vengono costruiti i corpi "tipici".

[22] L’abilismo è una forma di discriminazione, pregiudizio e svalutazione verso le persone con disabilità, fondata sull’idea che esista un modello “normale” di corpo e mente abili. In una prospettiva abilista, chi non rientra in questo standard viene considerato inferiore, problematico o meno degno di valore e diritti.

[23] La normalizzazione umana è il processo attraverso cui comportamenti, identità, corpi o modi di vivere vengono riportati o ricondotti a ciò che una società definisce “normale” o conforme alla norma. In pratica, è il movimento con cui si stabilisce uno standard umano desiderabile e si misura (o corregge) chi se ne discosta

[24] Il bastone è protesi che mi aiuta a camminare, ma trasforma anche il mio modo di muovermi, ridefinisce la mia autonomia. Lo smartphone mi connette al mondo ma colonizza la mia attenzione.

[25] L'enhancement tecnologico (o potenziamento tecnologico) è l'uso di tecnologie per migliorare o amplificare le capacità umane oltre i loro livelli normali o naturali. Questo tema solleva importanti questioni etiche: chi avrà accesso a queste tecnologie? Creeremo disuguaglianze ancora più profonde? Fino a che punto è lecito modificare la natura umana? Cosa significa essere "umani" in un contesto di potenziamento diffuso?

StultiferaBiblio

Pubblicato il 29 dicembre 2025

Carlo Mazzucchelli

Carlo Mazzucchelli / ⛵⛵ Leggo, scrivo, viaggio, dialogo e mi ritengo fortunato nel poterlo fare – Co-fondatore di STULTIFERANAVIS

http://www.stultiferanavis.it

Gli organismi cibernetici (cyborg) sono sistemi viventi ibridi in cui componenti biologiche e componenti tecniche sono integrati in un unico circuito di controllo e comunicazione. In generale, indicano qualsiasi entità in cui il funzionamento dipende da feedback tra corpo vivente e dispositivi artificiali. Pacemaker, neuroprotesi, impianti cocleari e interfacce cervello‑computer sono esempi concreti di organismi cibernetici, perché il corpo umano dipende da dispositivi elettronici che monitorano, elaborano segnali e intervengono automaticamente. In senso più lato, anche sistemi uomo‑macchina complessi (pilota + autopilota, operatore + esoscheletro robotico) possono essere descritti come organismi cibernetici quando l’azione emerge dall’interazione stretta tra componente biologica e componente artificiale. 

Un sistema semiotico nella vita quotidiana è un insieme di segni codificati che producono significato attraverso convenzioni condivise, come il linguaggio o i gesti. Esempi concreti includono semafori, pubblicità e interazioni sociali, dove segni visivi o verbali comunicano regole o desideri. I sistemi semiotici nei social media sono insiemi codificati di segni digitali, come emoji, like e hashtag, che generano significati condivisi attraverso interazioni collettive. Questi elementi funzionano come linguaggi visivi e testuali, modellando emozioni, opinioni e identità online.

Per Paolucci i “cyborg imbecilli” siamo noi umani, in quanto specie nata debole che diventa intelligente solo appoggiandosi a protesi e tecnologie esterne. Il termine “imbecille” è preso alla lettera, nel senso etimologico di fisicamente e cognitivamente fragile, non come insulto.

Secondo Paolucci Clark “ha mostrato come la natura stessa dell’essere umano, quella natura che gli ha consentito di passare dall’essere predato  all’essere il più spietato predatore esistente sul pianeta senza fare nulla al suo corpo, sia la sua continua capacità di delegare all’ambiente e agli artefatti culturali le proprie skill cognitive in modo da svolgere in modo più efficace compiti che, se li svolgessimo  all’interno della nostra testa o del nostro corpo biologico, sarebbero molto meno efficaci o molto più complessi

Si può dire che pensa in modo intelligente tutto ciò che mostra un comportamento che diremmo intelligente se venisse eseguito da un essere umano 

Il concetto pierciano di abitudine, legato al suo pragmatismo, la definisce come una disposizione stabile o "seme" di un'azione futura, un'abitudine mentale (habitus) che si forma attraverso la ripetizione, rendendo un comportamento più efficiente e automatico, sgravando la coscienza e creando un legame tra un segnale, una routine e una gratificazione, che anticipa e guida le nostre risposte nel mondo, trasformando l'esperienza in una credenza permanente e in una conoscenza acquisita. 

A pagina 26 del suo libro, Paolucci ci fornisce la definizione che qui trascrivo: «Con “enattivismo” si intende quella tradizione interna alle scienze cognitive e alla filosofia della mente che rifiuta la distinzione tra pensiero e azione, nonché la tripartizione classica che sostiene che la percezione è l’input del pensiero, che il pensiero è la manipolazione cognitiva di rappresentazioni e che l’azione è l’output della cognizione. Per gli enattivisti, che si ispirano ai lavori pionieristici di Francisco Varela, il pensiero è “enacted” e serve per agire efficacemente nel mondo e non per costruirsene una rappresentazione vera.» . Tuttavia va ricordato che l’enattivismo (Varela, Thompson, Rosch) è più orientato all’interazione incarnata e al ruolo del corpo, la teoria della mente estesa, a cui si richiama Paolucci, si concentra soprattutto sull’uso di strumenti esterni e tecnologie cognitive.

Una allucinazione controllata è un modo di descrivere la percezione come costruzione attiva del cervello, che genera ipotesi sul mondo e le corregge in base agli stimoli sensoriali. In questa prospettiva non “vediamo ciò che c’è”, ma una previsione che viene continuamente aggiustata: quando il controllo tramite i dati sensoriali fallisce si hanno le vere allucinazioni, quando invece funziona si ha percezione normale.

Il cervello bayesiano (o Bayesian brain hypothesis) è un framework teorico nelle neuroscienze cognitive che postula il sistema nervoso centrale come operante secondo i principi dell'inferenza bayesiana per interpretare stimoli sensoriali e generare comportamenti adattivi. Secondo questo modello, il cervello: Mantiene rappresentazioni probabilistiche del mondo esterno sotto forma di distribuzioni di probabilità (prior beliefs); Integra nuove evidenze sensoriali con le conoscenze pregresse attraverso il teorema di Bayes, aggiornando continuamente le proprie credenze (posterior beliefs); Minimizza l'incertezza predittiva confrontando le predizioni interne con gli input sensoriali effettivi, generando "errori di predizione" che guidano l'apprendimento

Clark influenza profondamente Paolucci con la teoria della "mente estesa" (Extended Mind), dove l'intelligenza emerge da concatenamenti tra corpo biologico e artefatti culturali, come utensili o IA, permettendo di delegare capacità cognitive per efficacia superiore

Il riduzionismo cognitivo è una prospettiva filosofica e scientifica che sostiene che i fenomeni mentali (pensieri, emozioni, coscienza) non siano altro che processi fisici e chimici che avvengono nel cervello, riducibili alle leggi della fisica e della neurologia, tentando di risolvere il problema mente-corpo spiegando la mente come proprietà emergente del cervello. Se da un lato questo approccio permette di studiare la mente scientificamente attraverso neuroscienze e psicologia, dall'altro viene criticato perché rischia di ignorare la complessità dei fenomeni psicologici e i limiti della conoscenza scientifica, rischiando di perdere il significato emergente della coscienza, del vissuto e dell'esperienza umana.  

Il piacere, il dolore, la nausea, il desiderio, la paura non sono stati mentali che "accadono" in un corpo neutro, ma sono modi di essere-corporeo, modi in cui il mondo ci tocca e ci muove. 

Il dolore fisico non è semplicemente un'informazione: è una dimensione *esistenziale* che trasforma la mia relazione con il mondo, che contrae il mio orizzonte di possibilità, che mi isola o mi espone.

Husserl e Merleau-Ponty hanno mostrato che l'esperienza dell'altro corpo non è mediata da inferenze cognitive (come nella "teoria della teoria" della mente), ma è diretta e pre-riflessiva. Questa dimensione è oggi confermata dalla scoperta dei neuroni specchio (Rizzolatti, Gallese), ma sarebbe un errore ridurre l'intercorporeità a meccanismo neurale. In Paolucci la dimensione sociale è presente ma tende ad essere pensata in termini di condivisione di abitudini cognitive, non di risonanza corporea, manca l'attenzione alla gestualità, alla postura, alla prossimità corporea che costituiscono il tessuto pre-linguistico dell'interazione sociale.

Il movimento non è una proprietà del corpo ma è costitutivo della corporeità e del pensiero stesso. Noi pensiamo in movimento, non prima del movimento. La kinestesia (la sensazione del movimento) è la base della coscienza. Il corpo in movimento non è hardware che esegue comandi da un software-mente. Nel gesto spontaneo, nell'improvvisazione, nella danza, il corpo "pensa" in modi che precedono e eccedono la deliberazione cognitiva. C'è una saggezza motoria, un'intelligenza kinestesica che non è riducibile a rappresentazioni o computazioni. 

Secondo una prospettiva neuroscientifica che si richiama alla fenomenologia, al di sotto della dimensione cognitiva o riflessiva, si trova una dimensione implicita, spesso data per scontata, poco indagata: l’orizzonte pre-riflessivo. Raramente viene tematizzato. Sempre viene vissuto nella prassi del nostro stare al mondo.

Il corpo vissuto è essenzialmente vulnerabile. Può ammalarsi, invecchiare, soffrire, morire. Questa vulnerabilità non è un difetto accidentale che la tecnologia potrebbe eliminare, ma una dimensione costitutiva dell'esistenza corporea. La vulnerabilità corporea ci espone agli altri, crea dipendenza reciproca, è la base dell'etica. Se il corpo viene paragonato a una macchina hardware, può essere riparabile si può aggiustare, ma il corpo vivente non funziona così. La malattia, il dolore cronico, l'invecchiamento non sono "malfunzionamenti" correggibili, ma esperienze esistenziali che ridefiniscono radicalmente il nostro essere-nel-mondo. 

L'intercorporeità è il riconoscimento reciproco e la co-creazione di significato che avvengono attraverso l'interazione corporea tra due o più individui, prima ancora che a livello verbale o mentale, coinvolgendo la percezione del corpo dell'altro, le posture, le tensioni e i movimenti in uno scambio continuo di informazioni sensoriali ed emotive, fondamentale per la formazione del sé e delle relazioni. 

Secondo  pensatori come Heidegger (Essere e tempo), e Levinas (Totalità e infinito) la finitudine corporea è fondamentale per comprendere temporalità, mortalità, alterità

Gli studi sulla disabilità sono un campo accademico interdisciplinare che analizza la disabilità non solo come una questione medica, ma come un fenomeno sociale, culturale, politico e storico, sfidando le norme e concentrandosi sulle esperienze vissute, sull'oppressione e sull'inclusione attraverso una lente critica, attingendo a sociologia, storia, filosofia e diritto per comprendere le barriere e difendere i diritti. Sposta l'attenzione dal deficit individuale alle strutture sociali, promuovendo l'empowerment, i diritti e la vera inclusione piuttosto che la mera integrazione, e utilizza le discipline umanistiche per esaminare come vengono costruiti i corpi "tipici".

L’abilismo è una forma di discriminazione, pregiudizio e svalutazione verso le persone con disabilità, fondata sull’idea che esista un modello “normale” di corpo e mente abili. In una prospettiva abilista, chi non rientra in questo standard viene considerato inferiore, problematico o meno degno di valore e diritti.

La normalizzazione umana è il processo attraverso cui comportamenti, identità, corpi o modi di vivere vengono riportati o ricondotti a ciò che una società definisce “normale” o conforme alla norma. In pratica, è il movimento con cui si stabilisce uno standard umano desiderabile e si misura (o corregge) chi se ne discosta

Il bastone è protesi che mi aiuta a camminare, ma trasforma anche il mio modo di muovermi, ridefinisce la mia autonomia. Lo smartphone mi connette al mondo ma colonizza la mia attenzione.

L'enhancement tecnologico (o potenziamento tecnologico) è l'uso di tecnologie per migliorare o amplificare le capacità umane oltre i loro livelli normali o naturali. Questo tema solleva importanti questioni etiche: chi avrà accesso a queste tecnologie? Creeremo disuguaglianze ancora più profonde? Fino a che punto è lecito modificare la natura umana? Cosa significa essere "umani" in un contesto di potenziamento diffuso?