Il bordo della tazza era liscio, il punto dove era sbeccata, ruvido. Lo sentiva ogni volta che la portava alle labbra. Matteo, per colazione, si sedeva sempre alla finestra della cucina, con la tazza tra le mani, e fissava il cortile interno del condominio. Le macchine erano parcheggiate in fila nei posti assegnati, le finestre erano tutte uguali, con le varie tapparelle che facevano su e giù, ciascun appartamento tenendo fede ai propri orari. Ogni cosa sapeva da ordinaria quotidianità, il vicino che usciva sempre alle sette e cinque minuti, la bambina che faceva sempre i capricci con la nonna che la portava a scuola, i due cani del palazzo che si incrociavano al guinzaglio e si abbaiavano sempre per trenta secondi. Matteo si sentiva rassicurato nel verificare che le cose, tendenzialmente, restavano le stesse, giorno dopo giorno. La scheggiatura della tazza era nata come un imprevisto ma era diventata, anch'essa, rassicurazione di continuità: da quando c'era, restava.
Suo padre, invece, no. Era andato via una mattina di dieci anni prima, senza dire una parola. Non un litigio con sua madre, non delle urla, non un saluto, nessuna lettera di addio, neanche per lui. Matteo non capiva perché nemmeno un banale biglietto per lui, magari di scuse, magari con una frase di circostanza. Niente. Solo una porta che si era chiusa e che il padre non aveva mai più riaperto, lasciando alle proprie spalle un solo ricordo: la sua tazza preferita, sbeccata. E quella tazza sembrava l'unica prova tangibile che quell'uomo fosse esistito nel passato di quella famiglia, che non si fosse trattato di un sogno condiviso. Matteo ricordava perfettamente il momento in cui la tazza era caduta dalle mani del padre, in una comune mattina, uguale a tutte le altre. Sua madre aveva detto a suo padre di buttarla via ma lui si era rifiutato, asserendo che non poteva assolutamente farlo, che quella era la tazza che lo seguiva dai tempi dell'università, e che l'avrebbe usata anche così sbeccata.
Matteo, dal giorno in cui suo padre lo aveva dimenticato, si era ritrovato a fare i conti - oltre che col suo dolore, che continuava a non sapere in quale cassetto riporre - con gli sguardi forzatamente compassionevoli dei vicini, con il silenzio della casa, con la madre che - non era cambiata per via della vicenda - praticava vittimismo sistematico, ora riversandolo quasi totalmente su di lui.
Un giorno, una crepa sottile, quasi invisibile, iniziò a serpeggiare dal punto della scheggiatura. Ogni volta che Matteo riempiva di tè la tazza, la crepa si faceva più scura, più evidente. Era come se la tazza stesse lentamente morendo, come se stesse perdendo la sua battaglia di resistenza, in cui metteva in gioco da troppo tempo il potere della solitudine. Matteo, in fondo, sapeva che prima o poi quella tazza si sarebbe infranta del tutto. E quella mattina, la sentì vibrare tra le dita. In quel momento, si rese conto che la cosa non lo spaventava più, e forse non se ne stupì poi troppo. Buttò via la tazza, ormai divisa in due parti. Ma gli fu chiarissimo che non buttò via i ricordi. Quelli erano ormai parte di lui. Nel bene, e nel male.