Nella sua curiosa, divertente e inquietante rivisitazione della fiaba di Cappuccetto Rosso, intitolata Cappuccetto Giallo, Bruno Munari ci offre una moderna fiaba metropolitana, attenta a far emergere le piccole, grandi nevrosi di un moderno ambiente urbano. Sembra, in questo, anche voler suggerire l’idea che la città, con tutto il suo vissuto, i suoi problemi e i suoi protagonisti, sia un ambiente altrettanto avventuroso e più pericoloso del tradizionale bosco, emblema del mistero nelle fiabe tradizionali.
L’esplosione di alcuni bubboni della modernità, intesi soprattutto come espressione quiescente della civiltà, ci pone di fronte ad una messa in discussione e, probabilmente, ad un clamoroso rovesciamento del celebre adagio bassomedievale secondo cui “L’aria della città rende liberi”.
Alla prova storica del cosiddetto progresso, infatti, e davanti alle accelerazioni della modernità e della civiltà, stabilmente codificata nell’assioma occidentale, l’aria della città si è fatta dapprima asfittica e poi rapidamente venefica.
Fra gli indicatori di questa epifania, anche un movimento demografico che, in parte, percorre la direzione opposta rispetto a quella che sembrava irreversibile e che portava, a partire dal Medioevo europeo, a spostamenti più o meno massicci e motivati dalle campagne verso le città.
Uno degli aspetti più interessanti di questo fenomeno è la crescita, in risposta alle crescenti nevrosi urbane o comunque come reazione agli aspetti deteriori frutto della civiltà e della civilizzazione, di un movimento di resistenza interna alla società, in quanto massima espressione della civilizzazione, che ha tra i suoi portati anche quello di un ritorno dell’individuo (dal Latino, letteralmente non diviso) e delle comunità (aggregati antitetici rispetto alla società) ad una vita più aderente alla natura.
Gli interrogativi sul concetto di benessere e di libertà si sono fatti via via più profondi
E’ interessante anche che ciò avvenga non solo attraverso scelte di vita fatte all’interno di contesti urbani tradizionali, ma sempre più anche come uscita dallo spazio urbano e ridistribuzione sul territorio. Gli interrogativi sul concetto di benessere e di libertà si sono fatti via via più profondi, e anche l’enfasi posta su fatti di cronaca (fatti risaltare ad arte) può servire a rianimare un dibattito che, in realtà, ha una tradizione ricca, anche se spesso silenziata.
pochi concetti sono innaturali, distorti e distorsivi, come quello di civiltà
Siamo da sempre abituati a convivere con il concetto di civiltà. E’ talmente pervasivo, questo concetto. che sembra non possiamo farne più a meno, al punto che, dal punto di vista linguistico, civile ha assunto tout court un significato che potremmo definire sinonimo di buono. Di più, la civiltà incarna un dress code etico diventato la prima pelle dell’uomo (vestire in abiti civili non vuol dire forse essere “noi stessi”?). Eppure, riflettendo, dovremmo forse considerare che pochi concetti sono innaturali, distorti e distorsivi, come quello di civiltà.
La civiltà, intanto, ha in qualche modo origine da una mistificazione e forzatura storica: una civiltà vive, si sviluppa e prospera laddove c’è una distorsione del tempo in senso lineare. Anche l’introduzione dello studio della Storia è sostanzialmente funzionale ad instillare, fin dalla più tenera età, l’idea di progresso, un’idea fumosa e fuorviante che conserva un fascino difficile da intaccare. Strappare l’uomo alla natura ha sempre avuto, e ha tuttora, un primo, imprescindibile imperativo categorico: strappare l’uomo al presente, scaraventandolo nel passato o proiettandolo nel futuro. La civiltà ha infatti un disperato bisogno di essere storicizzata, pena la sua decadenza ed una profonda messa in discussione, quindi, degli assetti fondanti della convivenza non solo fra individui, ma anche fra questi e l’ambiente, letteralmente tutto ciò che ci circonda.
Alla prova della storicizzazione, l’origine della civiltà obbliga ad una globalizzazione dei termini ante quem, violentemente imposta, tanto quanto gli esiti della civiltà stessa, benedicendo lo sviluppo e il progresso sotto l’egida dell’esegesi occidentale. Si parli della nascita della scrittura, o delle pitture rupestri, o dell’invenzione della ruota, o della istituzione della sepoltura, i tratti che contraddistinguono la civiltà devono necessariamente rispondere ai canoni della storia e della tecnica, sottolineando puntualmente momenti di cesura cui la vita dei popoli di tutto il mondo deve, altrettanto necessariamente, sottostare.
Portato alle estreme conseguenze, questo processo conduce chiaramente, con inquietante naturalezza, al Transumanesimo prima e al Postumanesimo poi. Ogni civiltà, se intesa così come è, cioè intrinsecamente tecnica e storica, approderà quasi certamente a questo obiettivo, conseguito in maniera più o meno consapevole. Da questo punto di vista, appare completamente fittizio anche qualsiasi tentativo di condurre questo dibattito all’interno dell’alveo dello scontro di civiltà. Se, infatti, il problema fosse piuttosto la natura ambigua, conflittuale e distruttiva della civiltà stessa?
l’uomo, come ci ricorda de La Boétie, spesso desidera la servitù, si è creata una saldatura micidiale fra potere e annichilimento dell’umano
In questo percorso, l’uomo necessita di una guida: è il potere, che, espresso in tutte le sue forme, ha natura intrinsecamente autoritaria. E poiché l’uomo, come ci ricorda de La Boétie, spesso desidera la servitù, si è creata una saldatura micidiale fra potere e annichilimento dell’umano. Due esempi possono forse chiarire in quali sabbie mobili rischiamo di trovarci.
Da un lato, si colloca l’educazione alla cittadinanza come esito radicale ed estremizzazione semantica e pratica: mentre, infatti, squarcia il velo dell’ipocrisia concettuale che viene veicolata dall’idea di civiltà, al contempo si propone, come finalità più o meno esplicita, di fatto una ri – educazione alla cittadinanza, non priva, a volte, di elementi velatamente autoritari. Il cives della tradizione giuridica romana, già frutto di una operazione culturale tutt’altro che inclusiva ed utilizzata spesso con finalità paternalistiche, conservava purtuttavia un elemento identitario che la società globale ha azzerato. Il risultato paradossale è che, della cittadinanza come espressione della civiltà, sono rimasti oggi in larga parte problemi e ferite aperte, lacerazioni e contraddizioni probabilmente insanabili.
Dall’altro lato, si staglia quello che oggi è chiamato talvolta dirittumanismo. Al di là della curiosità accademica, infatti, c’è, ad uno sguardo più attento, una questione ben più sostanziale. Il tema dei diritti è legato a quello dell’umanità e dunque, almeno teoricamente, svincolato da ogni forma di imposizione e di esportazione da parte dello Stato. In senso storico, i diritti umani sono anche, non casualmente e ben lungi dal configurarsi come un tentativo di portare ad emersione qualcosa di connaturato all’uomo, una gigantesca operazione di marketing politico e di manipolazione cognitiva, orientata a plasmare su valori arbitrariamente ritenuti “occidentali” una certa visione del mondo.
La lunga campagna di demonizzazione, ora lapalissiana, ora sotto le mentite spoglie di luoghi comuni storiografici come la cosiddetta “anarchia feudale”, di qualsiasi modello “altro”, occidentale e non, di intendere i valori, la convivenza e l’economia, rispondono allo stesso bisogno di reset sociale e culturale spinto con forza bruta dalla Rivoluzione Francese in avanti.
è inevitabile interrogarsi sui fondamenti di ciò che chiamiamo civiltà
Anche i fatti recenti della cronaca ci spingono quindi, una volta di più, a porci il problema della civiltà, di che cosa in effetti essa sia, di quali problemi porti e del perché si possa, e forse si debba, uscirne. Quando il lupo della fiaba di Cappuccetto Rosso, o l’orco dell’immaginario collettivo, è lo Stato, è inevitabile interrogarsi sui fondamenti di ciò che chiamiamo civiltà e, al contempo, subire il richiamo della Sindrome di Stendhal.
A suggerire questa interpretazione il dibattito suscitato, appunto, anche dalla cronaca recente, attorno al quale si sono sviluppate posizioni diverse. Christian Raimo, ad esempio, sostiene che, quand’anche lo Stato agisca in modo sbagliato e coercitivo, non è per così dire saggio sottrarsi alle sue amorevoli cure. Lo Stato, unica e suprema istanza del benessere collettivo e inamovibile moloch novecentesco, benchè incartapecorito non sembra ammettere alternative e vive sussurrandoci costantemente l’idea che non sia possibile non solo convivenza civile al di fuori dell’entità statuale, ma neppure garanzia di servizi essenziali alla persona. Questa idea del nuovo Stato materialista odierno non ha neppure la profondità inquietante dello Stato etico hegeliano: è lo Stato sradicato, fluido e globalizzato.
Le democrazie occidentali rappresentano anche, in quest’ottica, la migliore garanzia per l’espressione della libertà individuale. Non c’è però una autentica evidenza, né di ordine storico né di ordine antropologico, a supporto di questa liturgica convinzione, alla quale molti modelli, analisi, riflessioni sono venuti e stanno venendo contrapponendosi; con la consueta intelligenza e verve, Carmelo Bene provocatoriamente sosteneva che, in termini di quelli che chiameremmo “servizi alla persona”, non vi è nulla che la democrazia (con fatica) garantisca e che una dittatura non possa garantire.
Le democrazie occidentali rappresentano anche, in quest’ottica, la migliore garanzia per l’espressione della libertà individuale.
Ammesso, dunque, che abbia senso parlare di civiltà come di uno stato ideale che presume elevarci da una condizione di inferiorità, spirituale e culturale prima ancora che civile, il sovrapporsi e lo sfumare del concetto di civiltà in quello, assolutamente tragicomico, di Occidente rappresenta, potenzialmente e concretamente, una tragedia che diventa farsa. La cosiddetta civiltà è sempre più stata interpretata e vissuta come evoluzione tecnica supportata da dispositivi di potere, della cui aggressività ci siamo via via maggiormente accorti nel corso del tempo e in maniera lampante negli ultimi anni. Hobbes aveva già magistralmente evidenziato la natura intrinsecamente autoritaria e coercitiva del potere, che paradossalmente lasciava margini significativi per apprezzare la valenza e difendere la fondamentale intangibilità della vita individuale. Il potere ha tanto più bisogno di affermarsi e di ringhiare quanto più se ne scorge l’illusorietà e se ne comprende l’autentica natura.
Questo implica anche, del resto, la consapevolezza che nel potere vi è sempre un principio sbagliato e innaturale: prova ne è il fatto che si può vivere, e bene, anche in assenza di poteri costituiti in senso verticistico. Anche il puntello delle regole della convivenza cosiddetta sociale e civile sembra traballare di fronte alla semplice constatazione che queste potrebbero non essere poi così determinanti nel modo in cui siamo abituati a vederle imposte: il vero anarchico, già diceva Fabrizio De Andrè, è colui che, lungi dal vivere senza regole, se le pone prima che gli vengano imposte.
Quale futuro ha dunque la civiltà di fronte all’incedere del mondo multipolare, del riscatto di popoli, comunità e singoli individui? Nella libertà individuale e nell’autodeterminazione delle comunità, attraverso un detox dalla civiltà nei suoi aspetti più tecnocratici, una speranza per il futuro. Un futuro multipolare che sembra voler sfuggire alle maglie del nostro concetto di civiltà e, soprattutto, all’ opera di civilizzazione.