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Che altro è buttare un libro se non una condanna a morte, una censura delle idee? Già, più o meno come buttare un cartone della pizza: anche su questi ultimi possono riportate scritte, notizie, racconti. Non è forse vero che ne Lo zoo di vetro Tom scriveva poesie in un magazzino stipato di scatole di scarpe? Le scatole stesse raccoglievano, nel grigiore silente della polvere, quel proibito anelito a una fuga impossibile. Erano parole dai toni patetici o letteratura in essere? Williams lascia che a insinuare la risposta sia il pubblico affranto.


L’oubli est nécessaire à la société comme à l’individu. Il faut savoir oublier pour goûter la saveur du présent, de l’instant et de l’attente, mais la mémoire elle-même a besoin de l’oubli. - - Marc Augé, Les formes de l’oubli

Cestinare libri: un atto spregevole? Forse. O, forse, non così spregevole per chi ama la lettura.

I veri lettori - ammesso che tale espressione significhi qualcosa, che contenga personae e non solo istanze di possibilità aleatorie - sanno che leggere significa avere a cuore una storia, amarne i personaggi (o detestarli anche, con passione), e che dunque allontanare da sé ciò che impedisce a quei puri sentimenti di esistere è una necessità. L’intruso è il brutto, la cattiva letteratura, l’inqualificabile confusione che trascina un’unica vicenda mal narrata nella confusione di un mondo inenarrabile. Alienare, se possibile, la bruttezza da sé e dagli altri. Sì, dagli altri; benché quando si cestina un libro non lo si faccia né per un atto di altruismo né per educazione civica: solo per amor proprio.

I collezionisti, dal canto loro, selezionano non per amore esclusivo del pezzo raro: una raccolta di soli libri da collezione vale senz’altro meno di ciascuno dei testi che la compone. Ne umilia, anzi, la natura: il vero collezionista cerca la varietà: è in essa che trova l’oro senza scartare la sabbia. Utilizza setacci diversi, in nessuno dei quali rimane impigliato il libro che, felicemente, libero, verrà imbucato nel primo cestino dei rifiuti. Gettato, come oggetto singolo o insieme a consimili frattaglie di cellulosa in un raccoglitore per la carta.

Attenzione! Vi sono libri inqualificabili e libri inclassificabili. Sarebbe un delitto confondere gli uni con gli altri. Dei secondi possiamo prenderci cura, sorridere a ogni fallito nostro tentativo di catalogarne i contenuti, collocarli in modo pertinente sugli scaffali di una biblioteca personale. E sorridere, persino, a ogni loro tentativo di mostrarsi saggi, o narratori di storie. Alcuni inclassificabili possono rivelarsi delle vere chicche, spinose certo da collocare, all’interno di una collezione privata.

Sul carattere degli «inclassificabili» si era già soffermato Walter Benjamin (e chi altri se no?) in un breve e delizioso scritto in cui narra delle scelte di riorganizzazione della propria biblioteca personale, «Ich packe meine Bibliothek aus» (1931).

Rispetto ai libri inqualificabili c’è invece ben poco da dire, se non che sono stati prodotti per errore, in virtù di scelte spesso grossolane, di ambizioni mal riposte: nati per il macero -nel macero, per meglio dire, di sé- destinati a tornarvi attraverso le cineree e inchiostrate vie delle fosse comuni della carta.

Va detto che, nella foga di cestinare il cestinando, proprio gli inclassificabili, che per definizione non trovano posto in alcuno scaffale tematico, sono forse i libri più a rischio: si può cadere in errore, tragicamente scambiarli per inqualificabili. Qualora, a motivo  di tale svista, li si sia troppo presto consegnati a morte acerba, non se ne potrà che rimpiangere l’assenza: quasi impossibili da reperire e così facili da fraintendere: uccisi per errore, bruciati da fuoco amico.

Che altro è buttare un libro se non una condanna a morte, una censura delle idee? Già, più o meno come buttare un cartone della pizza: anche su questi ultimi possono riportate scritte, notizie, racconti. Non è forse vero che ne Lo zoo di vetro Tom scriveva poesie in un magazzino stipato di scatole di scarpe? Le scatole stesse raccoglievano, nel grigiore silente della polvere, quel proibito anelito a una fuga impossibile. Erano parole dai toni patetici o letteratura in essere? Williams lascia che a insinuare la risposta sia il pubblico affranto.

Fatti: il valore del libro è un dato oggettivo; essere contro la pena di morte è un principio nobile ma uccidere un contenitore di cibo, o di scarpe, o poco più, rimane illegittimo? Gli inqualificabili sono i poco più delle scatole anonime. In fondo, è una vita che siamo in grado di togliere con proprietà, poiché è stata nostra facoltà conferirgliene una provvisoriamente.

La vera scelta non riguarda la sentenza di morte, dunque, ma la possibilità di rinnovare la provvisorietà dell’esistenza. Far pulizia di certe vite letterarie malnate, conferite per errore, generate nel macero, è dunque più simile a un atto di amore per la vita, di amore per una libertà che, fatalmente, priverà altre persone, o magari le altre delle personae che ci portiamo appresso, della facoltà vivificatrice, a suo tempo da noi conferita a una soltanto di esse. Da qualsiasi punto di vista, cestinare un libro rimane dunque una condanna.

Ma condannati a che? A non poter toccare la bruttezza con mano, a essere marzialmente difesi dal banale, dall’inutile; condannati all’oblio, alla necessità dell’oblio -la quale, però, è pur sempre una difesa della memoria (Augé). Ma come far coincidere l’amore per la vita con l’atto di porgere la morte? La questione, in questi termini, è fallace: «far coincidere» non è corretto: serve riconoscere la natura di una coincidenza che pre-esiste al giudizio; di una discordante legge della vita.

Nel quotidiano dispiegarsi dell’esistenza, azioni come amare e uccidere raramente coincidono: la ricerca del binomio sul piano superficiale della vita popola squallidi fatti di cronaca. Non è la quotidianità vissuta, infatti, bensì il mito a insegnarci che quel legame esiste. Il mondo simbolico, come quello del pensiero, non è suscettibile di essere traslocato: per mostrarsi si affida alle astrazioni, a metafore che (Derrida) non sono mai semplici rappresentazioni o trasposizioni di un altrove ricodificato ma continui slittamenti di senso. Il rozzo trasporto su un piano di realtà quotidiana è dunque destinato a fallire (a volte in modo tragico) o a scandalizzare, qualora il lettore (meschino) non percepisca in trasparenza la molteplice natura della materia che gli è dato plasmare.

È la miopia, dunque, a creare la contraddizione, l’attrito fra amore e morte, a dare corpo, costanza e umidità alle stille che batteranno ossessive nella conca, scavata da tempo antico, che fa da crogiolo -perfino nel mondo culturale, alieno ai ritrovi dei balordi- di pedanti e pseudo-cultori-della-lettura propensi allo scandalo. Alcuni di questi frequentatori della conca li si ritroverà senz’altro a pubblicare qua e là foto di libri abbandonati ai bordi delle strade, poggiati su contenitori traboccati scatole e carte di nessun valore, ben orgogliosi dei propri foto-reportage, di quegli specchi dei propri sé di carta malamente cestinati.

Ciascuno scelga lo specchio in cui riflettersi.

Ma è poi sempre così vero che certi scandali solletichino il piacere del bacchettone? Di fronte alla manifesta incapacità, di cui la società è platealmente rappresentativa, di discernere tra concetti fini, direi che è possibile. Cioè, che di fronte ad un animo frettoloso, che si ritira ogniqualvolta si allentino le redini dello spirito critico, paia accettabile che l’atto di cestinare libri sia, di fronte alla catatonica stasi di un sistema poco curioso, un atto non soltanto proibito, ma da proibire (quantomeno sul piano etico) affinché ogni cosa, ivi compresa l’inqualificabile bruttura trovi difesa in virtù di un principio inclusivo, grazie al potere mitico di cui l’oggetto libro è investito in quanto tale. In quanto tale e, perciò stesso, ucciso.  

Tutte queste riflessioni sono valide, chiaramente, solo fin tanto che il giudizio sulla società accetti il proprio ruolo ancillare rispetto a certe assunzioni preconcettuali delle quali vorrebbe essere critica. In termini scientifici non regge: non esiste la possibilità, sul piano oggettivo, di di decretare la decadenza dall’interno, men che meno dal suo interno, né di riconoscerne una oggettiva propensione al brutto.

Benché questo limite sia contrario a ogni legge del buon senso (e del buon gusto), su un piano strettamente oggettivo rimane illegittimo stabilire che la cultura contemporanea, o che ogni cultura, nella propria contemporaneità, sia priva della capacità di discernere finemente. Né pare sufficiente, per chiudere il discorso, rifarsi a una nebulosa mediocrità, condannata per natura a non percepire le sfumature delle passioni elevate, i voli pindarici del pensiero, le connessioni astratte, le scritture che, ardenti, si fondono in ogni virgola di Joyce. Se si aspira a una formulazione che non tenga conto di osservazioni in fieri o di approssimazioni sommarie, è chiaro che un semplice giudizio personale segni i propri limiti. D’altra parte, di fronte a un diverso ordine di verità, alla «scienza come tale», il discorso muta di prospettiva.

«Quando sento cose del genere alla radio / resto sempre avvilito. / C'è forse una scienza non come tale? / Io non vedo molta natura, di rado vado sui laghi, / giardini sporadicamente, dietro cancelli, / orti e baracche, tutto qua, / dipendo dai surrogati». Scriveva così Gottfried Benn («Radio» [1953] da Giorni Primari, trad. it. Anna Maria Carpi, Milano, Il Saggiatore, 1981).

Dipendiamo dai surrogati! La genesi degli inqualificabili (e non solo) sta nei surrogati. Ancora, però, la definizione di “inqualificabile” sfugge, si sottrae al giudizio, rimane intrinsecamente aleatoria, frutto comunque di valutazioni individuali.

C’è, in questo, un aspetto allarmante: quanto più l’idea di una società imbarbarita risulti essere somigliante alla realtà, tanto più dovremmo temere il giudizio sociale rispetto ai testi ritenuti «cestinabili»; oppure no? L’atto di cestinare richiede una libertà interiore che il bacchettone non si concede e che sembra rappresentare un importante baluardo di difesa della buona Letteratura, anche se con un importante distinguo: alcune opere vengono cestinate alla fonte, ritenute improponibili, mai ripubblicate: scompaiono ancor prima di nascere, di ri-nascere, per fare posto a una schiera di nuovi no-sferatu, sempre più ingombranti (per la cultura, per il pianeta…) dentro e fuori dal macero entro cui sono generati e al quale faranno ritorno.

La censura, il rogo dei libri, d’altra parte, sono azioni radicalmente opposte al libero atto di cestinare un libro: sfogo istituzionale, compensa la libertà che il bacchettone nega a se stesso per non vedersi obbligato a sciogliere altri dalle medesime catene che un sistema di potere gli consente e lo invita ad imporre. Dal punto di vista di un censore, de-sacralizzare l’oggetto libro equivale a profanarne il contenuto: sottrarlo, letteralmente, al dominio del sacro (al quale, de jure, appartiene) e, dunque, liberare i lettori a una pluralità di interpretazioni non dogmatiche, al diritto di leggere, di valutare, di schifare, di censurare in proprio quella singola copia, cestinandola, senza che per questo venga interessata l’intera edizione. Non a caso, cestinare libri rimane un gesto eversivo.

La linea d’ombra, la soglia intoppata (poco mobile, poco nobile), che nell’incontro tra diritto e castigo definisce la distanza assoluta tra la libertà di cestinare libri e il veto a toccare l’oggetto sacro, il feticcio della società dei non lettori, consente anche di limitare il relativismo assoluto che investirebbe in termini generali le definizioni di «inqualificabile» o di «cestinabile», autorizzando un ricorso più disinvolto e spregiudicato a interpretazioni non aleatorie, purché queste vengano considerate entro i limiti indefiniti della libertà di scelta e del proprio orizzonte d’attesa (Jauss).

In tale ambito, non tutti i libri cestinati risultano in effetti cestinabili: gli orrori esistono!

Esiste, ad esempio, l’orrore delle case svuotate da certi familiari: quello di biblioteche intere, anteriormente possedute da lettori raffinati e poi consegnate all’oblio del nulla, al riciclo. Libri messi sullo stesso piano degli scaffali di scarso valore sui quali erano stipati, equiparati ai lumi dalle luci calde che, per decenni, hanno illuminato coi propri raggi il pensiero più fino dell’umanità, le grandi e piccole storie della Letteratura. Luci che hanno amato e scartato; mani così accurate nello scegliere e poi, disseccate dalla morte, così vane per trattenere.

En la mano crispada de un muerto, en la memoria de un loco, / en la tristeza de un niño, / en la mano que busca el vaso, en el vaso inalcanzable, / en la sed de siempre». A. Pizarnik, Moradas, «Los trabajos y las noches», 1965.)

Sì, gli orrori esistono. Anche conservare tutto è però uno scempio: e cestinare libri è un atto d’amore. Scegliere i propri inqualificabili, buttarli; disfarsene al più presto, anche strappando pagine, trasformandoli; cancellare parole, salvarne alcune, riscrivere testi che non sono mai stati tali: è un esercizietto semplice, non certo un lavoro artistico: lo si ritrova consigliato in molti testi di scrittura creativa (la maggior parte dei quali, per inciso, rientra di diritto nella schiera degli inqualificabili).

Molto più facile, comunque, prendere il libro prescelto, uscire di casa e disfarsene in un cestino: senza pretese creative, senza speranze o pretese di rivendere i testi rinunciati: perché rimettere in circolazione l’orrido, non ve n’è già abbastanza nel mondo?

Lista parziale di azioni da non compiere: non cercare di rifilare gli inqualificabili (magari in quantità stock) a una libreria indipendente. Per quanto riguarda gli spazi di catena (librerie, supermercati, quant’altro) inutile perfino provare: gli addetti declinerebbero con aria scocciata o sussiegosa l’eventualità di riprendere i testi acquistati presso di loro. Un’altra buona norma è lasciare in pace anche le biblioteche. La scelta più importante rimane tuttavia quella di salvaguardare gli indifesi: proteggere gli spazi dedicati al book-crossing dai cestinatori seriali, dagli incapaci di cestinare un libro per via di pregiudizi ben mascherati da pretestuose ragioni etiche: emendano la propria ipocrisia a scapito di tutti, riversando scaffali di brutture in spazi inermi destinati alla vera condivisione: una società evoluta condivide gratuitamente letture di valore.

proteggiamo gli spazi dedicati al book-crossing dai cestinatori seriali

Per cestinare libri non serve uscire nottetempo, protetti dalle tenebre: basta prendere un testo e gettarlo in un bidone. È un gesto liberatorio. È molto di più di questo: ratifica, nell’evocazione del rapporto profondamente letterario fra Eros e Thanatos, l’analoga e raffinata natura di ciò che si è deciso di preservare per scelta. Non è così importante che si tratti sempre di scelte oculate. Non è importante sapere quale sia la soglia della perfezione: non si salverà mai il meglio assoluto ma soltanto, si placet, l’unico, il singolare riflesso – Oui, Madame Bovary c’est moi! – di alcuni testi, di altri no. Si salveranno forse dal rogo alcuni dei romanzi che si sarebbero sempre voluti leggere e non si leggeranno mai. Si continueranno a ignorare le verità di libri conservati solo perché frutto di regali graditi, né più né meno di quanto si ignoreranno quelle dei libri buttati proprio perché frutto di regali non graditi: oggetti sacri (cfr. A. Weiner, «Inalienable Possesions: The Paradox of Keeping-While-Giving», Berkeley, University of Califomia Press, 1992) che prendono la via, spesso non per colpe proprie, di espiatorie profanazioni; dei testi acquistati per errore, scoperti, magari con velato dispiacere, in una collezione di famiglia.

Clandestini! Si potrebbe pensare a raccoglierli su uno scaffale destinato ai clandestini di carta? Sì, forse, ma a che scopo? Sarebbe comunque un’area confusa, inerte, cinerea, di una biblioteca altrimenti curata. Presi singolarmente, molti di quei libri rimarrebbero muti. E che dire dei testi acquistati in stato di evidente torpore mentale, sotto a quale voce elencarli? “Personali stupidità”? “Divagazioni autonome della mente”? 

Il mio primo invito, reiterato più volte, non lo ripeterò qui.

Il secondo, fuori tema, a mo’ di conclusione, è di provare a riversare questo potere mitico del cestino in una cernita di libri digitali. Se proverete il medesimo piacere nel cestinare un file che un libro cartaceo, quel piacere non lo invidierò di certo. Devo ammettere, peraltro, che pur condividendo l’utilità di possedere degli ebook (la mia biblioteca digitale è almeno cinque volte più vasta di quella cartacea) non provo alcun piacere nel conservare quei file. Non mi comunicano sensazioni di alcun tipo, solo un vago senso di apatia: so che vi posso accedere, che sono lì. So che, in effetti, non sono neanche .


StultiferaBiblio

Pubblicato il 25 gennaio 2025