L'architettura epistemica del dibattito tradizionale
Per comprendere la portata di questa trasformazione, dobbiamo prima ricostruire l'architettura epistemica che caratterizzava il dibattito pubblico tradizionale. La pratica argomentativa, così come si è sviluppata nella tradizione occidentale da Aristotele in poi, presupponeva alcuni elementi strutturali fondamentali. Innanzitutto, l'esistenza di uno spazio condiviso - non necessariamente fisico, ma epistemico - in cui diverse posizioni potessero confrontarsi. Questo spazio era costituito da istituzioni mediatiche relativamente centralizzate: i grandi quotidiani, la televisione generalista, le università, le accademie scientifiche. Queste istituzioni, pur con tutti i loro limiti e le loro forme di esclusione, svolgevano una funzione di ‘controllo in entrata’ che stabiliva parametri condivisi di credibilità e rilevanza.
In secondo luogo, il dibattito pubblico presupponeva l'esistenza di ciò che potremmo chiamare "evidenza pubblica": fatti che, pur soggetti a interpretazione e valutazione divergenti, erano riconosciuti come tali da tutti i partecipanti alla discussione. Si poteva discutere sulle cause dell'inflazione, ma esisteva un accordo di base sui dati statistici relativi all'inflazione stessa. Si poteva dibattere sulle politiche ambientali, ma esisteva un riconoscimento condiviso dei fenomeni da spiegare. Questa base fattuale comune non eliminava il disaccordo - al contrario, lo rendeva possibile nella sua forma razionale: potevamo dissentire proprio perché condividevamo un terreno minimo di riferimento.
Terzo elemento cruciale: il dibattito pubblico tradizionale incorporava meccanismi di correzione degli errori. La presenza di voci critiche, la possibilità di confutazione pubblica, l'esistenza di standard professionali nel giornalismo e nella ricerca accademica costituivano filtri che, per quanto imperfetti, tendevano a espellere gradualmente le falsità più evidenti e a favorire la circolazione di informazioni verificabili. Il sistema non era infallibile, ma era autocorrettivo: possedeva anticorpi contro la persistenza indefinita dell'errore manifesto.
La rivoluzione digitale e la frammentazione dello spazio pubblico
L'avvento delle piattaforme digitali ha scardinato questa architettura in modi che solo ora cominciamo a comprendere pienamente. La trasformazione non è stata immediata né lineare, ma ha seguito la logica dell'innovazione dirompente: inizialmente le nuove tecnologie sono apparse come semplici strumenti aggiuntivi, canali supplementari attraverso cui veicolare informazioni. Solo gradualmente è emersa la loro natura radicalmente trasformativa.
Il primo effetto dirompente è stato l'eliminazione dell'intermediazione. Le piattaforme digitali hanno bypassato i tradizionali gatekeepers dell'informazione, democratizzando l'accesso alla produzione e distribuzione di contenuti. Questo ha avuto effetti ambivalenti: da un lato ha ampliato le voci partecipanti al dibattito pubblico, includendo prospettive precedentemente marginalizzate; dall'altro ha rimosso i filtri professionali che, per quanto imperfetti, svolgevano una funzione di verifica e contestualizzazione.
Ma l'effetto più profondo è stato la personalizzazione algoritmica dell'esperienza informativa. I motori di raccomandazione che alimentano social media, motori di ricerca e piattaforme video operano secondo una logica di massimizzazione dell'engagement: mostrano agli utenti contenuti che, sulla base dei loro comportamenti passati, hanno maggiore probabilità di catturare attenzione e generare interazione. Questa logica, apparentemente neutra e orientata alla soddisfazione dell'utente, ha prodotto una conseguenza non intenzionale ma devastante: la segmentazione dello spazio pubblico in innumerevoli bolle informative separate, ciascuna caratterizzata da un proprio ecosistema di fonti, narrative e parametri di credibilità.
La camera d'eco come struttura epistemica
La metafora della "camera d'eco" descrive efficacemente il fenomeno dell'amplificazione: le nostre idee ci vengono continuamente riflesse, rinforzate, amplificate da un ambiente informativo che ci circonda. Ma questa metafora acustica non cattura completamente la natura del problema epistemico in gioco. Non si tratta solo di amplificazione del volume, ma di una trasformazione nel processo stesso attraverso cui le credenze vengono formate e validate.
Nella pratica argomentativa tradizionale, una credenza acquista legittimità attraverso un processo di confronto critico: avanzo una tesi, questa viene sottoposta a obiezioni, devo rispondere alle obiezioni o riconoscere debolezze nella mia posizione, e solo attraverso questo processo di resistenza alla critica la credenza si rafforza e si giustifica. È un modello che possiamo chiamare "validazione attraverso resistenza": la credenza guadagna robustezza proprio perché ha resistito a tentativi di confutazione.
Nella camera d'eco digitale, questo processo si inverte radicalmente. La credenza non viene più testata attraverso l'esposizione sistematica a obiezioni, ma viene rafforzata attraverso la rimozione preventiva delle obiezioni. L'algoritmo, imparando dalle mie preferenze, costruisce attorno a me un ambiente informativo che conferma continuamente le mie credenze preesistenti. Il risultato è una forma di validazione apparente che potremmo chiamare "validazione attraverso eco": la credenza mi appare robusta non perché ha resistito alla critica, ma perché non ho mai incontrato critiche sostanziali.
Questo crea un'illusione epistemica particolarmente insidiosa. La persona intrappolata in una camera d'eco non si percepisce come dogmatica o chiusa. Al contrario, ha la sensazione soggettiva di essere ben informata: legge molto, consulta diverse fonti, segue discussioni articolate. Non ha consapevolezza del fatto che tutte queste fonti, pur formalmente distinte, appartengono a uno stesso ecosistema informativo omogeneo, che condividono presupposti comuni e si rinforzano reciprocamente senza mai sottoporre a verifica critica le assunzioni fondamentali.
Il fanatismo può essere definito come un sistema cognitivo-affettivo-relazionale caratterizzato da adesione totalizzante a credenze assunte come assolutamente vere e immune da revisione
Lo spettro del fanatismo
Quando cerchiamo di comprendere cosa sia il fanatismo, ci troviamo di fronte a un fenomeno complesso che non si lascia ridurre facilmente a una singola dimensione. Non è solo questione di credenze sbagliate, né solo di emozioni intense, né solo di comportamenti ostili verso gli altri. È piuttosto l'intreccio di questi elementi in una configurazione particolare che costituisce ciò che riconosciamo come fanatismo. Provo quindi a costruire una definizione che catturi questa complessità senza sacrificare la chiarezza.
Il fanatismo può essere definito come un sistema cognitivo-affettivo-relazionale caratterizzato da adesione totalizzante a credenze assunte come assolutamente vere e immune da revisione, che produce chiusura verso prospettive alternative, semplificazione categoriale del reale, e forme variabili di delegittimazione o ostilità verso chi non condivide quelle credenze.
Questa definizione cattura:
- La dimensione cognitiva (chiusura, impermeabilità, rigidità)
- La dimensione affettiva (investimento identitario, certezza viscerale)
- La dimensione relazionale (modalità di rapporto con l'alterità)
- La gradualità del fenomeno (forme variabili di ostilità)
- La neutralità rispetto ai contenuti (può riguardare qualsiasi sistema di credenze)
Il fanatismo, tuttavia, non è una condizione binaria – presente o assente – ma si manifesta lungo uno spettro di intensità e modalità. Questa distinzione è importante perché ci permette di riconoscere forme di fanatismo che, pur non raggiungendo gli estremi della violenza o dell'odio esplicito, condividono con essi una struttura fondamentale.
Possiamo immaginare una scala graduale dove, a un estremo, troviamo il fanatismo violento e distruttivo – quello che si manifesta in atti terroristici, persecuzioni sistematiche, genocidi – e, all'altro, forme attenuate ma riconoscibili di chiusura fanatica.
Queste gradazioni non riguardano solo l'intensità dell'odio o della violenza potenziale, ma anche l'estensione della sfera in cui opera la cecità empatica, la pervasività dell'ideologia che la sostiene, la capacità residua di autocritica.
Ciò che voglio dire è che esistono forme di fanatismo che attraversano la vita ordinaria senza produrre conseguenze drammatiche immediate, ma che condividono con le versioni estreme alcuni tratti caratteristici: la rigidità categoriale; l'impermeabilità all'evidenza contraria; la semplificazione morale.
Anche nelle gradazioni più lievi, il fanatismo comporta, comunque, una riduzione della complessità etica. Il mondo si divide in alleati e avversari, giusti e sbagliati, illuminati e ciechi. Chi non condivide le mie idee su una questione specifica non è semplicemente in errore su quella questione – è moralmente inferiore, intellettualmente ottuso, probabilmente in malafede.
Il soft-fanatismo come configurazione cognitiva
Propongo il termine "soft-fanatismo" per descrivere la configurazione cognitiva che emerge da questa dinamica. Il fanatismo è caratterizzato da elementi riconoscibili: l'adesione a un corpo dottrinale esplicito, la sottomissione a un'autorità riconosciuta, la consapevolezza di appartenere a un gruppo ideologico definito, spesso la disponibilità al sacrificio estremo per la causa. È un fanatismo "duro", con confini netti e identità dichiarate.
Il soft-fanatismo contemporaneo presenta caratteristiche diverse. Non richiede adesione a dottrine formali o sottomissione a autorità esplicite. Si manifesta piuttosto come una configurazione caratterizzata da alcuni elementi distintivi: certezza soggettiva elevata su questioni complesse e controverse; resistenza sistematica a evidenze contrarie non attraverso confutazione argomentata ma attraverso rimozione dell'esposizione; percezione di consenso maggioritario costruita algoritmicamente; e soprattutto, assenza di consapevolezza dei meccanismi che producono questa configurazione.
Il prefisso "soft" non indica minore pericolosità, ma natura diversa. Questo fanatismo è più diffuso proprio perché non richiede scelte radicali o rotture esistenziali. Si manifesta come esercizio apparentemente spontaneo della libertà individuale: scelgo liberamente le fonti che consulto, seguo le persone che mi interessano, partecipo alle discussioni che trovo stimolanti. Non percepisco costrizioni esterne. Eppure, attraverso questa serie di scelte apparentemente libere, costruisco attorno a me una prigione epistemica dalle pareti invisibili.
Il bias di conferma da euristica cognitiva individuale a infrastruttura sistemica
Il bias di conferma - la tendenza a cercare, interpretare e ricordare informazioni in modo da confermare credenze preesistenti - è un fenomeno ampiamente documentato nella psicologia cognitiva. Gli esseri umani non sono processori neutrali di informazioni: possediamo predisposizioni sistematiche che distorcono la nostra relazione con l'evidenza. Questo non è una novità della modernità digitale, ma una caratteristica strutturale della cognizione umana.
Ciò che le piattaforme digitali hanno fatto è trasformare questo bias da euristica cognitiva individuale a infrastruttura sistemica. Prima, il bias di conferma richiedeva sforzo attivo: dovevo cercare attivamente fonti congeniali, evitare deliberatamente voci discordanti, operare selezioni consapevoli nel mio ambiente informativo. Ora, l'algoritmo compie questa selezione per me, in modo invisibile e automatico, basandosi sui pattern dei miei comportamenti passati. Il bias diventa architettura: la struttura stessa dell'ambiente informativo in cui mi muovo è costruita per massimizzare la conferma e minimizzare la dissonanza cognitiva.
Questo ha conseguenze profonde. Il bias di conferma, quando è una tendenza individuale, richiede sforzo attivo e mantiene una certa fragilità, in quanto ci si può occasionalmente imbattere in informazioni discordanti, o essere esposto involontariamente a prospettive alternative. Quando diventa infrastruttura algoritmica, acquisisce una stabilità e una pervasività molto maggiori. L'esposizione a prospettive alternative non avviene più "per caso", ma richiederebbe una scelta deliberata e controcorrente rispetto alla struttura dell'ambiente.
L'erosione dell'evidenza pubblica
Una delle conseguenze più gravi di questa frammentazione è la dissoluzione di ciò che abbiamo chiamato "evidenza pubblica". Quando gruppi diversi hanno accesso a ecosistemi informativi completamente separati, persino eventi basici possono diventare oggetto di contestazione radicale. Non si tratta più solo di interpretare diversamente gli stessi fatti, ma di disaccordo sulla realtà fattuale stessa.
Questo fenomeno è diventato drammaticamente evidente durante la pandemia di COVID-19. Gruppi diversi non solo interpretavano diversamente dati epidemiologici, ma vivevano in universi fattuali paralleli: per alcuni la pandemia era una crisi sanitaria senza precedenti documentata da evidenze scientifiche schiaccianti, per altri era una costruzione mediatica o una cospirazione orchestrata. Non si trattava di disaccordo sulle politiche da adottare di fronte a una realtà condivisa, ma di disaccordo sulla natura stessa della realtà.
Quando l'evidenza pubblica collassa, diventa impossibile la forma tradizionale di dibattito razionale. Il dibattito presuppone: siamo d'accordo sui fatti, discutiamo sulle loro cause, implicazioni e conseguenze normative. Ma quando manca accordo sui fatti basici, il dibattito si sposta continuamente su un livello più profondo e diventa rapidamente impraticabile. Ogni affermazione richiede prima di essere stabilita la credibilità della fonte, ogni fonte richiede che sia stabilita la legittimità dei suoi criteri di verifica, e così via in un regresso che non trova punto di arresto.
La polarizzazione affettiva e la ‘tribalizzazione’ delle credenze
Alla dimensione epistemica si intreccia una dimensione affettiva e identitaria cruciale. Le camere d'eco non sono solo filtri informativi, ma spazi di costruzione e consolidamento di identità collettive. Le credenze cessano di essere semplici proposizioni da valutare per la loro verità o falsità e diventano marcatori di appartenenza di gruppo, segnali di lealtà tribale, elementi costitutivi dell'identità sociale.
Questa trasformazione ha conseguenze profonde sulla possibilità del disaccordo razionale. Quando una credenza è puramente epistemica - una proposizione che considero vera o falsa sulla base delle evidenze disponibili - modificarla in risposta a nuove evidenze o argomenti migliori è un esercizio di razionalità senza particolari costi. Ma quando la credenza diventa marcatore identitario, modificarla comporta costi sociali elevati: rischio di perdere status nel gruppo, di essere percepito come traditore, di subire ostracismo o esclusione.
Si crea così una situazione in cui la razionalità epistemica - formare credenze sulla base delle migliori evidenze disponibili - entra in conflitto con la razionalità sociale - mantenere credenze che favoriscono integrazione e status nel gruppo di appartenenza. E in molti casi, per l'individuo concreto situato in una rete sociale specifica, la razionalità sociale prevale: è più vantaggioso mantenere credenze false ma socialmente approvate che cercare credenze vere ma socialmente costose.
Le camere d’eco come sistemi anti-correttivi
Un sistema epistemico sano deve essere autocorrettivo: deve possedere meccanismi interni per identificare e rimuovere errori. La scienza moderna rappresenta il miglior esempio di sistema autocorrettivo: attraverso peer review, replicabilità degli esperimenti, standard metodologici condivisi e apertura alla falsificazione, tende a espellere gradualmente teorie errate e a fare convergere la comunità scientifica verso teorie progressivamente più accurate.
Le camere d'eco rappresentano l'opposto: sono sistemi anti-correttivi. Più a lungo rimango in una bolla informativa, più quella bolla si consolida e si rafforza. L'algoritmo impara sempre meglio le mie preferenze e costruisce un ambiente sempre più omogeneo. Le mie interazioni sociali si concentrano progressivamente su persone che condividono le mie credenze. L'errore, una volta sedimentato, non viene esposto a meccanismi di correzione ma viene continuamente rinforzato e amplificato.
Questo crea una traiettoria epistemica inquietante: la distanza tra diversi gruppi non rimane stabile, ma tende ad ampliarsi nel tempo. Due persone che partono da credenze leggermente diverse e vengono assorbite in camere d'eco separate non mantengono quella differenza iniziale, ma la vedono espandersi progressivamente, fino a trovarsi dopo qualche anno in universi fattuali radicalmente incompatibili, senza percorso evidente di ritorno a un terreno comune.
Abbandonare l’illusione delle facili risposte
Di fronte a questa situazione, le risposte facili sono inadeguate. Non basta invocare "educazione al pensiero critico" o "fact-checking" o "esposizione a fonti diverse". Questi rimedi presuppongono che il problema sia superficiale - mancanza di competenze o di volontà - quando invece è strutturale: la struttura stessa dell'ambiente informativo digitale tende a produrre frammentazione epistemica e soft-fanatismo.
Le soluzioni tecniche - modificare gli algoritmi, regolamentare le piattaforme, creare meccanismi di verifica - si scontrano con problemi di fattibilità economica, difficoltà di definire criteri neutrali di "qualità informativa", e soprattutto con il fatto che le persone spesso preferiscono ambienti che confermano le loro credenze a ambienti che le sfidano. La camera d'eco non è solo imposta dall'alto, ma corrisponde a un desiderio psicologico profondo di consonanza cognitiva.
Eppure, riconoscere la difficoltà del problema non equivale a dichiararne l'insolubilità. Significa piuttosto abbandonare l'illusione di soluzioni rapide e riconoscere che ci troviamo di fronte a una trasformazione antropologica profonda, che richiede risposte altrettanto profonde. Ricostruire possibilità di dibattito razionale in un'epoca di frammentazione epistemica richiede forse ripensare non solo le tecnologie che usiamo, ma le pratiche sociali, le istituzioni educative e le forme di vita pubblica che possono sostenere o meno una cultura del confronto critico.
La sfida non è semplicemente tecnica o educativa, ma in ultima analisi politica e culturale: che tipo di comunità epistemica vogliamo essere? E come possiamo costruire istituzioni e pratiche che favoriscano il confronto razionale piuttosto che l'isolamento tribale? Queste domande non hanno risposte immediate, ma identificarle con chiarezza è forse il primo passo necessario per affrontare una delle crisi più profonde della nostra epoca.