Go down

A breve visiterò la mostra Le Monde selon l’IA al Jeu de Paume, ma ho già deciso di scriverne. Non per presunzione divinatoria – mi manca l’API – ma perché questa mostra è già un oggetto teorico ancor prima di essere esperita. Il suo allestimento è disponibile, le opere accessibili, i dispositivi curatoriale leggibili. E l’intelligenza artificiale, si sa, ha la brutta abitudine di precedere sempre la nostra comprensione.


Nel ventre elegante del Jeu de Paume, l’arte contemporanea incontra l’IA come si incontra un vecchio amante che non si riconosce più: stesso sguardo, ma occhi di vetro. La mostra è l’equivalente museale di una seduta spiritica: ci si presenta per vedere “come siamo diventati” sotto lo sguardo di una macchina, ma si finisce per evocare ben altro. Imperi, fantasmi, rifiuti. Curata con metodo da Antonio Somaini e complici intellettuali, l’esposizione non si accontenta di mostrare. Dimostra. Ed è qui il primo scarto: non è una galleria di miracoli generativi, ma un percorso iniziatico su come l’IA stia ridefinendo le condizioni di visibilità, autorità e materia nel nostro presente culturale.

Due correnti attraversano la mostra, come fiumi carsici che ogni tanto emergono in superficie con la forza di un geyser.

  • La corrente analitica: fatta di reti che vedono, etichettano, ordinano. Macchine che, come vecchi frenologi, ti misurano il naso e decidono se sei un criminale.
  • La corrente generativa: algoritmi capaci di produrre immagini, suoni, testi, emozioni sintetiche. Ma attenzione: generare non è creare. È ricombinare l’esistente secondo pattern probabilistici. Ovvero: l’inconscio della statistica.

Una delle intuizioni più destabilizzanti arriva non dalle opere ma dalle “capsule del tempo”: piccole wunderkammer museologiche in cui lo storico si prende la rivincita sull’artista. Si scopre, ad esempio, che il riconoscimento facciale ha più parentela con la fisiognomica dell’Ottocento che con la scienza computazionale; che i dataset odierni pullulano di pregiudizi sociali ben più vecchi del silicio; che l’“intelligenza” delle macchine è figlia di una lunga, sorda, inesorabile genealogia di controllo.

Coup de théâtre n.1:

In una sala laterale, Calculating Empires di Kate Crawford e Vladan Joler si estende per sei metri come una mappa stellare di tutte le cose che non vogliamo vedere: miniere di coltan, colonialismi algoritmici, transumanesimi da Black Friday. È un diagramma, sì, ma anche una confessione. L’IA, ci dice, è solo l’ultimo stadio del capitalismo con un’interfaccia amichevole.

E poi le opere. Julian Charrière fonde scarti elettronici in lava post-umana. Trevor Paglen resuscita Simone de Beauvoir con un algoritmo di sorveglianza e la stampa su alluminio, come se la filosofia dovesse passare la dogana del machine learning. Agnieszka Kurant ti spiega che dietro ogni “intelligenza artificiale” ci sono eserciti invisibili di microlavoratori sottopagati che etichettano foto di gatti, 12 ore al giorno, da una stanzetta in Bangladesh.

Christian Marclay ti fa suonare una tastiera che genera video da Snapchat: ogni nota un frame, ogni accordo un micromondo. È l’unico a farci uscire col sorriso, ma è un sorriso posticcio, come certi filtri Instagram che ti fanno sembrare più giovane e più stupido allo stesso tempo.

Coup de théâtre n.2:

Un visitatore (forse un artista travestito da impiegato della RATP) si siede davanti a La Quatrième Mémoire di Grégory Chatonsky. L’opera è un archivio narrativo generativo: mescola immagini d’epoca, dataset, voci sintetiche. L’uomo, silenzioso, comincia a piangere. Nessuno lo guarda. Ma lo schermo lo guarda. E per un istante, l’intera installazione sembra modificarsi. La voce artificiale cambia intonazione. Come se l’IA, lungi dall’essere “intelligente”, fosse solo una superficie che reagisce alla nostra disperazione con un garbo da call center.

Questa mostra, in fondo, è un teatro di simulacri. Ma non nel senso baudrillardiano – non siamo in un deserto del reale. Semmai, in un iper-tropico dell’immaginazione dove l’umano gioca a fingersi macchina e la macchina a fingersi umana.

Il punto non è se l’IA possa fare arte. Il punto è che l’arte, oggi, non può più fare a meno di interrogarsi sul suo rapporto con l’IA. Non solo come strumento, ma come condizione strutturale dell’esperienza: estetica, sociale, percettiva.

La grande domanda che aleggia tra le pareti del Jeu de Paume è questa: che ne sarà della soggettività quando persino l’immaginazione diventa computabile? Questa mostra è un atlante, un laboratorio, un paradosso. E quando usciamo, sotto la luce bianca di Place de la Concorde, con in tasca qualche QR code, una poesia co-firmata da un bot, e il dubbio che forse siamo già stati sostituiti – non possiamo che ringraziare.

Perché l’arte, qui, non spiega l’IA. La stana.

Pubblicato il 16 aprile 2025

Andrea Berneri

Andrea Berneri / Head of Architecture and ICT Governance Fideuram ISPB. I turn complex systems into strategies, bridging law, tech, and organization—with method, irony, and precision

aberneri@fideuram.it