C’è un momento, nella vita di ogni individuo sensibile al linguaggio, in cui l’urgenza del dire si scontra con la paralisi del poterlo fare. Un momento in cui il desiderio di espressione – autentico, profondo, quasi sacro – si infrange contro pareti invisibili, costruite non dalla mancanza di talento, ma dalla sedimentazione di esperienze interrotte, ferite non elaborate, giudizi maldestri. Non è l’assenza di vocazione a silenziare la voce creativa: è, piuttosto, l’interiorizzazione di un diniego. Una censura incorporata. Un trauma che si fa cornice epistemica.
Da sempre, il riconoscimento è la miccia della fioritura. Ogni artista, ogni scrittore in potenza, ha bisogno – in giovane età – non solo di strumenti, ma di autorizzazioni. Di un’eco che restituisca dignità alle prime, timide esplorazioni. Quando queste mancano, o peggio, vengono rimpiazzate da risate sprezzanti, critiche corrosive, giudizi umilianti, l’atto creativo non scompare: si sotterra. Si rifugia nel non detto. Si trasforma in vergogna.
I “mostri creativi” non sono creature mitiche, ma presenze concrete. Indossano spesso i volti di figure familiari: un compagno, un superiore, un insegnante. Non agiscono necessariamente con intenzionalità distruttiva. Ma le loro parole – o i loro silenzi – agiscono come sigilli. Una risata nel momento sbagliato. Una correzione fatta con crudeltà. Un’osservazione tagliente detta senza premura. Piccoli gesti, grandi danni. Come scie chimiche nell’atmosfera emotiva di chi crea.
E poi ci sono i mostri più sottili, quelli che non si presentano nel momento formativo della vita, ma che appaiono lungo il percorso, quando pensi – forse ingenuamente – di aver finalmente trovato la tua voce. Arrivano sotto forma di accuse velenose, parole dette per ferire e delegittimare. Ti dicono che stai copiando, che stai “cavalcando” il successo altrui per ottenere visibilità, magari – dicono – per “prendere qualche like su LinkedIn”.
Ora, lasciatemi dire una cosa con calma e senza tremore: uso Linkedin ma posso anche farne a meno. È uno strumento, un banale CV dinamico che ti consente di spiegare in dieci righe chi sei a chi non ha il tempo per dedicarti l'attenzione che meriti per spiegarti davvero. Stò su Linkedin perché oggi, se cerchi lavoro, sei obbligato a esserci. Non perché mi interessi sguazzare in quella palude di retorica autocelebrativa dove si confonde l’ego con il valore e dove ogni minima esperienza viene gonfiata fino a sembrare una medaglia al valore. Ma c’è chi ci sguazza volentieri, anzi, costruisce lì la propria identità. E quando qualcuno prova a fare un passo fuori da quel fango, lo accusano di essersi sporcato approfittando del loro riflesso.
La verità è che chi accusa non difende una verità, ma il proprio narcisismo ferito. Non parlano a te, ma allo specchio incrinato della loro autostima. Non sopportano che tu possa esistere senza il loro consenso, che tu possa avere una voce senza averla prima sottoposta al loro visto di approvazione.
Ma è proprio qui che si torna al punto: il trauma epistemico. Quando lasci che siano gli altri a definire se hai diritto di esprimerti, hai già perso qualcosa. Quando permetti che un ex, un capo, o un personaggio tossico travestito da collega, abbiano la chiave del tuo silenzio, stai affidando loro l’atto più intimo della tua identità: il pensiero che si fa forma.
La riabilitazione del gesto creativo passa, allora, attraverso un processo che potremmo chiamare “archeologia dell’immaginazione ferita”. È un’indagine sul passato, ma non in senso terapeutico. È una ricognizione concettuale dei nessi che hanno prodotto la rimozione del desiderio. Solo nominando i mostri si può togliere loro il potere. Solo attraverso la loro denudazione discorsiva si apre lo spazio per una nuova autolegittimazione.
Il mostro non è, dunque, l’altro. È la nostra soglia: ciò che ci vieta di oltrepassare il confine tra il pensiero e la sua formalizzazione. Smontarlo significa smettere di domandarsi “sono in grado?” e iniziare a chiedersi “chi mi ha convinto del contrario?”
La creatività non è un dono distribuito secondo criteri meritocratici o genetici. È una forma del vivere consapevole. È il coraggio di affidarsi alla propria voce nonostante il rischio di non essere ascoltati, o peggio, fraintesi. È una forma di resistenza alla riduzione dell’identità a ciò che gli altri si aspettano da noi. È l’arte di sottrarsi all’omologazione, e di ritrovare, nel linguaggio, la possibilità di abitare la complessità.
Scrivere – creare – non è semplicemente un atto tecnico. È un atto ontologico. Riguarda l’essere e l’esserci nel mondo. Quando l’essere viene ferito, anche il sapere si contrae. E con esso, la capacità di produrre significati nuovi.
Non si tratta, quindi, di “diventare artisti”, ma di permettere all’artista che siamo già stati – e che siamo ancora – di tornare a casa. E di restarci. Nonostante tutto.
Note bibliografiche
1. A. Severino, Il paradosso del silenzio creativo, Milano, Episteme Edizioni, 2014.
2. L. Salomé, Psicologia dell’artista non riconosciuto, trad. it. di R. Caruso, Roma, Minimum Fax, 2009.
3. M. Dubois, Les blessures de la parole. Trauma et langage, Paris, Gallimard, 2016.
4. F. Mercuri, Contro il narcisismo creativo: come sopravvivere agli ambienti tossici, Torino, Codice Edizioni, 2021.
5. T. Baratta, LinkedIn e altri incubi professionali, Napoli, Laterziana, 2020.
6. C. De Martino, Autorità, autenticità e autorialità: tre condizioni per scrivere davvero, in “Quaderni di Epistemologia Applicata”, n. 17, 2022, pp. 45-67.