“Sono fatti così non puoi farci nulla!”. Così dicevano i nostri vecchi, con un tono di bonario ammonimento. Forse un giorno scopriranno il “gene deviante” della metafora e allora sarà tutto più chiaro. Un piccolo prelievo di sangue e capirai, finalmente, perché non hai mai guardato il mondo in maniera lineare ma sempre da fuori e un po’ di traverso.
Esiste una pratica più finalistica dell’alpinismo? Tutti gli sforzi si concentrano in un punto, dove terminano tutte le linee: la vetta. Un punto. Prima scientifico, poi geografico, nazionalistico, sportivo, interiore, ma sempre un punto. Fino a che, dopo 150 anni di conquiste, qualcosa cambia. Musica nuova. Sulle ali della beat generation, prima negli States, poi in Francia, dilaga un nuovo modo di guardare l’alpinismo. Stanchi di retorica, eroismo e sofferenza, si cerca di trasformare tutto in un grande gioco mettendo al centro l’esperienza dell’arrampicata. In Italia sarà “nuovo mattino”, il sassismo, la Val di Mello. Metà anni Settanta: i nostri vent’anni.
L’alpinismo “liberato” dal suo fine ultimo, la vetta, può diventare un mezzo fine a sé stesso, uno strumento, un veicolo di comunicazione. Eterogenesi dei fini. È sempre accaduto, noi lo abbiamo sempre fatto. Eretici per natura, trasgressivi per vocazione, non abbiamo mai usato lo strumento in modo appropriato, le pareti le abbiamo salite anche noi, certo, ma quasi mai in silenzio, e ogni nuova esperienza si trasformava in un forum di discussione.
È possibile trasportare tutto questo al di fuori del nostro piccolo mondo? È possibile trasformare quest’attività in qualche cosa di socialmente utile? Perché non proviamo a inventarci un lavoro vero, altrimenti saremo costretti ad organizzare corsi roccia a vita. Di lì a poco – Bologna primi anni Ottanta – abbiamo lanciato l’idea dell’arrampicata come “terapia” nel recupero della devianza minorile. Gli ingredienti di successo furono la suggestione dell’ambiente, le forti emozioni, e la singolare relazione educativa con adulti che proponevano attività generalmente evitate perché pericolose.
Il passo verso le aziende non è stato poi così lungo. L’alpinismo come metafora entra nel mondo dell’organizzazione con i suoi potenti e “verticali” riferimenti simbolici di sempre, e con nuove storie alla ricerca di “cenge” e “altopiani”: spazi “orizzontali” capaci di generare momenti di forte integrazione e un rinnovato spirito di gruppo.
Molti anni fa ormai, durante un progetto sul recupero della devianza minorile nel quartiere San Donato a Bologna, venne girato un film. Non scorderò mai il titolo che i ragazzi decisero di dare a quella simpatica pellicola artigianale: “L’esperienza eccessiva”.
Ah, se mai lo sapesse il top manager che sto seguendo da vicino, mentre fatica in jumar su per la corda, che tutto è cominciato lavorando insieme a un gruppo di “piccoli delinquenti”.