Nelle aziende piccole, nei capannoni che ancora fumano all’alba, negli open space di provincia dove il tempo si misura in preventivi, ho visto con i miei occhi l’intelligenza sprecarsi. Non per colpa dell’ignoranza, ma per eccesso di controllo. Non per mancanza di idee, ma per mancanza di coraggio. Tutti sanno cosa servirebbe fare. Pochi sanno — o vogliono — decidere. E così si convoca una riunione. Poi un’altra. E poi un’altra ancora.
Ci si incontra, si apre un file, si cerca un documento, si commenta una decisione mai presa. Si torna su ciò che era già stato detto. Si aggiungono punti all’ordine del giorno, ma non si tolgono mai quelli risolti — perché nessuno li ha risolti davvero. Si sfiora un tema, si cambia schermata, si parla senza ascoltare. Qualcuno prende appunti, qualcuno annuisce, qualcuno si assenta anche se resta lì. Si chiude con un “ci aggiorniamo”. E ci si aggiorna davvero: sulla quantità di tempo sprecato.
Chi guida queste riunioni spesso non guida. Coordina, forse. Ma più spesso dirige la scena come un cerimoniere stanco. Non prende posizione. Non assume rischi. Non chiude una questione, ma la parcheggia. In attesa di ulteriori allineamenti, nuove validazioni, altri confronti. È il paradosso dell’organizzazione che finge di agire mentre si auto-contempla.
Poi c’è il micromanagement, che è il volto ossessivo dello stesso problema. Quando non si decide, si controlla. Si corregge una virgola, si rivede una formattazione, si suggerisce una nuova versione di una slide che nessuno leggerà. Si crede che gestire significhi osservare ogni dettaglio, sorvegliare ogni gesto, interrogare ogni atto. Ma chi gestisce così non guida un’organizzazione: la ingombra.
Ho visto persone brillanti abituarsi a non pensare più. A chiedere permessi anche per avere un’idea. Ho visto professionisti spendere settimane per ottenere approvazioni su progetti minuscoli, bloccati da chi aveva più potere ma meno visione. E ho visto titoli, sigle, certificazioni diventare scudi dietro cui celare la propria incapacità di fidarsi.
Il manager moderno, nella sua versione più diffusa, non è più un leader, ma un notaio: registra, archivia, misura. E ogni misura diventa strumento di sospetto. La fiducia si quantifica, la competenza si certifica, la collaborazione si negozia. Tutto è regolato, ma nulla funziona. Il progetto si fa processione. L’intuizione, protocollo. L’errore, infrazione.
Ma non si tratta solo di stile manageriale. È l’epoca a essere cambiata. Le nuove tecnologie — indossabili, predittive, immersive — stanno ridisegnando i contorni dell’umano. Il lavoro non si svolge più in uno spazio, ma in un flusso. La presenza non è più fisica, ma distribuita. La decisione non è più frutto di dialogo, ma di notifiche asincrone. Il pensiero si fa algoritmo, e il gesto si fa dato.
Viviamo in un tempo in cui la tecnologia non si limita ad accompagnare l’esperienza: la sostituisce. Si impara con visori, si agisce con interfacce, si comunica con avatar. E l’apprendimento non è più ricostruzione del senso, ma ottimizzazione del comportamento. L’intelligenza, sempre più, è ridotta a reattività. E il corpo, trasformato in terminale sensoriale, non è più soggetto di esperienza, ma veicolo di misurazione.
È qui che il micromanagement diventa sistema. Il controllo, tecnica. L’assenza di decisione, cultura. Le aziende che potrebbero cooperare preferiscono frammentarsi. Quelle che potrebbero innovare si perdono in una burocrazia interna che somiglia più alla paura che alla strategia. Si esternalizza ciò che si teme di comprendere. Si crea una rete per non restare soli, ma la si gestisce come se fosse un prolungamento dell’io.
Il distretto, che un tempo era tessuto sociale vivo, oggi è sovente un puzzle di monadi connesse solo dalla necessità. La collaborazione, quando esiste, nasce per difetto: per risparmiare, per sopravvivere. Non per costruire insieme un’idea di futuro. La fiducia resta entro i muri dell’azienda, come se al di là ci fosse solo il rischio.
Eppure, ho visto anche altro. In alcune imprese, poche, la strategia non è più appannaggio di chi fonda, ma di chi sa leggere i segnali. L’imprenditore delega, non abdica. Il manager interpreta, non amministra. L’organizzazione diventa organismo: permeabile, vitale, pensante. Si costruiscono reti di senso, non solo di fornitura. Si lavora per obiettivi condivisi, non per check-list individuali. E le riunioni, quando avvengono, servono a scegliere.
Ma è raro. Troppo raro. Perché richiede una cosa che nessuna tecnologia può sostituire: il coraggio. Il coraggio di decidere. Il coraggio di lasciare andare il controllo. Il coraggio di fidarsi dell’intelligenza altrui. L’intelligenza vera, quella che non si misura in KPI né in badge, ma si riconosce nel silenzio con cui una persona sa ascoltare, e nella precisione con cui sa agire.
Oggi più che mai, l’intelligenza è sprecata. Non perché manchi. Ma perché viene sospettata. E in un mondo dove tutto è tracciabile, è proprio ciò che non si traccia — il dubbio, il gesto gratuito, l’intuizione inattesa — a fare ancora la differenza.
Nota finale
A margine — ma non troppo — occorre spendere due parole, forse tre, su una fauna sempre più presente nel panorama professionale: quella dei guru da LinkedIn, dei sedicenti esperti di leadership, dei sacerdoti del successo ripetibile. Quelli che trasformano ogni riunione in un TED Talk, ogni conflitto in un’opportunità, ogni banalità in un insight da incorniciare. Parlano di empatia con la grammatica del marketing. Vendono vulnerabilità impacchettata come vantaggio competitivo. E ogni loro post è una preghiera laica al dio dell’algoritmo.
Sono loro i veri micromanager del pensiero. Perché ti dicono come devi sentirti, come devi reagire, come devi scrivere, come devi vivere. Ti spingono a fare personal branding anche quando stai vivendo un lutto, a trarre ispirazione da un licenziamento, a trasformare l’insonnia in resilienza. Il lavoro, secondo loro, è sempre una chiamata. Mai una fatica. Mai un’ambivalenza. Mai un nodo vero.
Li si riconosce subito: sorridono sempre nelle foto profilo, mettono i titoli in maiuscolo, parlano in frasi brevi ma usano il punto e virgola per darsi un tono. Condividono esperienze sempre riuscite, sempre edificanti, sempre in bilico tra la favola e il fotomontaggio. Ma se li ascolti davvero, ti accorgi che non hanno mai costruito niente, mai gestito un fallimento reale, mai affrontato un team difficile, mai saputo stare in silenzio.
Ecco, questo testo è anche una risposta a loro. Una disobbedienza. Una dichiarazione di stanchezza. Perché la leadership, quella vera, non si insegna con i caroselli. Si esercita nell’ombra. Si misura nelle decisioni scomode. E si riconosce nel modo in cui si sa restare umani quando tutto intorno si disumanizza.
Il resto è vetrina. Il resto è show. Il resto è, semplicemente, fuffa.
Bibliografia
“Bullshit Jobs: A Theory” – David Graeber
Un classico moderno. Antropologo e attivista, Graeber smonta con ironia e rigore il senso di inutilità che permea molte professioni contemporanee. Una denuncia della finzione organizzativa. Un invito a prendere coscienza della “farsa” produttiva moderna.