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Questo testo nasce come riflessione a margine, ma finisce per diventare confine. Tra il tempo vissuto e quello misurato. Tra la parola che abita e quella che transita. Tra l’uomo che lavora e quello che si ripete. Un "saggio aperto", una traccia densa in un mondo di logiche diluite. Per chi lavora nel silenzio delle domande, più che nel rumore delle soluzioni.


(Ispirato a “Oltrepassare – Intrecci di parole tra etica e tecnologia” di Carlo Mazzucchelli e Nausica Manzi)

C’è stato un tempo in cui il falegname, prima di scolpire, posava le mani sul legno e taceva. Restava lì, immobile, lasciando che la forma emergesse da sé. Era un tempo lungo, denso, pieno. Nessuno lo misurava. Non serviva. Era il tempo necessario perché il gesto fosse giusto, e non solo esatto.

Quel tempo non è scomparso. È stato smarrito. Travolto da una corrente che ci vuole sempre pronti, sempre visibili, sempre misurabili. È un tempo che oggi ci lavora, ci elabora, ci organizza. Ma non ci appartiene più. Siamo diventati artigiani dell’automazione, esecutori di ritmi scritti altrove, in un altrove che non ci conosce.

Il tempo si è fatto linea, sequenza, metrica. Si allunga nell’attesa, si accorcia nell’urgenza, evapora nel multitasking. Nessuna delle sue forme corrisponde a quella che sentiamo. Non c’è più sincronia tra il battito e il calendario, tra la voce interiore e la pianificazione condivisa. Ogni ora registrata è un’assenza da sé.

Eppure, esiste un tempo che resiste. Un tempo carsico, che si ritrae quando lo si forza e affiora quando lo si lascia essere. È il tempo che si abita, non quello che si usa. Il tempo che fermenta, che sedimenta, che parla in silenzio. Il tempo del gesto che non obbedisce al protocollo, ma alla necessità interna.

In un mondo dove tutto chiede parola, dove ogni secondo sembra reclamare opinione, scegliere il silenzio è diventato atto sovversivo. Ma non si tratta del silenzio della fuga, né di quello che segue la rinuncia. È un silenzio fecondo, come quello tra le note, come quello dell’oceano sotto la nave. È l’unico spazio dove il senso può ancora depositarsi.

Nel lavoro, il silenzio è stato espulso. Le call lo temono, i documenti lo evitano, i processi lo cancellano. Ma senza silenzio, nessuna parola ha peso. Ogni decisione nasce da una soglia muta, ogni progetto vero prende forma in un vuoto iniziale dove non si comanda, si ascolta. Chi non sa stare in quel vuoto non può generare nulla che valga il tempo degli altri.

Chi lavora come un artigiano sa che ogni materia è anche messaggio. Il codice parla. I dati parlano. Anche i bug, a modo loro, parlano. Ma non dicono nulla a chi li tratta come oggetti da correggere. Parlano solo a chi si ferma, tace, e lascia che il contesto parli per primo. Come il falegname, che non impone la forma, ma la riceve.

La parola, oggi, è in ritirata. Non nel senso che manchi, ma perché non trova più dimora. Troppo leggera per restare, troppo rapida per trasformare. Le parole vengono consumate come fossero contenitori vuoti, utili solo al transito. Ma una parola vera non serve a passare oltre: serve a restare. A risuonare. A ritornare.

Nel linguaggio si gioca tutto: il pensiero, il lavoro, la politica, la relazione. Quando il linguaggio si fa efficienza, anche l’essere umano diventa funzione. Quando le parole si riducono a etichette, anche le identità si impoveriscono. Quando il dialogo si contrae in storytelling, anche il dissenso diventa algoritmo.

Per questo è urgente oltrepassare non solo i limiti della tecnica, ma anche quelli della lingua impoverita. Oltrepassare la parola usurata, il concetto prefabbricato, il tono standard. Oltrepassare significa reimparare a dire ciò che non ha ancora nome. Significa abitare parole che ancora non esistono, ma che già ci cercano.

Il lavoro, inteso come gesto che modifica il mondo, non può prescindere da questa etica della parola. Non esiste lavoro vivo che non sia anche linguaggio incarnato. Ogni progetto, ogni riga di codice, ogni documento, ogni riunione è un atto linguistico prima che produttivo. Dove il linguaggio è morto, il lavoro è solo ripetizione.

Scrivere, lavorare, progettare: sono tutti modi di porre domande al reale. Sono forme di artigianato ontologico, non procedimenti standardizzabili. Il vero sapere non separa mai la mente dalla mano, la teoria dalla prassi, la riflessione dall’azione. E ogni sapere che non si lascia attraversare dal dubbio, diventa sterile.

Non siamo automi. Non ancora. Ma se non ci fermiamo ora, lo diventeremo non per imposizione, ma per abitudine. L’automa non è chi obbedisce: è chi non si chiede più nulla.

E allora, prima di parlare, prima di rispondere, prima di fare — fermati. Ascolta il legno. Guarda il tempo. Lascia che il gesto emerga. Forse non sarà il più efficiente. Ma sarà il tuo.

E in quel gesto, forse, ci sarà ancora qualcosa di umano.

Guarda il tempo. Lascia che il gesto emerga.


Pubblicato il 25 aprile 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / omnia mea mecum porto