E io ch’avea d’error la testa cinta,
dissi: "Maestro, che è quel ch’i’ odo?
E che gent’è che par nel duol sì vinta?".
Ed elli a me: "Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ’nfamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.
Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, Canto Terzo, 31-39
Ogni volta che si indice uno sciopero assistiamo al dibattito che si scatena su più fronti. Da una parte abbiamo esponenti di governo che ironizzano sulla scelta di proclamare un’agitazione di venerdì, per 'allungare il week end', dall’altra e specialmente sui social network ci sono post e commenti di utenti che soffrono un disagio di riflesso perché vengono danneggiati dalla mancanza di servizi, o dalle manifestazioni
di piazza, ed in molti casi si assiste anche ad un braccio di ferro preventivo tra chi minaccia, ed in alcuni casi attua la precettazione, e chi invece non rinuncia a scioperare.
Ma a chi appartengono, e che valore hanno, l’azione in sé, la proclamazione di uno sciopero, l’adesione allo stesso e le eventuali manifestazioni collegate, e la valutazione dell’efficacia a posteriori, specialmente oggi quando viviamo di economia immateriale, nell’era delle macchine intelligenti e dei nuovi lavori, che spesso nemmeno più ‘lavori’ si possono chiamare?
Inquadramento
Qualche dato, facendo riferimento ai numeri riportati nei rapporti ISTAT 2025:
Numero di occupati in Italia (gennaio 2025)
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Totale occupati: 24.222.000 persone
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Dipendenti permanenti: 16.447.000
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Dipendenti a termine: 2.663.000
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Autonomi: 5.111.000
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Se analizziamo la distribuzione di questi 24 milioni di lavoratori scopriamo che la distribuzione di essi per dimensione di impresa è illuminante, e cioè che la proclamazione di uno sciopero potrebbe avere presa e raggiungere forse meno della metà della platea, dato che storicamente nelle aziende piccole e medio piccole non c’è una sufficiente presenza sindacale, e nemmeno forse la disposizione mentale del lavoratore a farsi carico di sollecitazioni che arrivano da un mondo sindacale che con loro direttamente non riesce a parlare, non ci sono delegati, non esistono organi di informazione diretta a questa platea che possano veicolare le istanze che l’agitazione proposta vorrebbe sostenere.
Addirittura potrebbe accadere quello che accadde in passato quando si fecero tentativi di estendere l’Articolo 18 dello statuto dei lavoratori allargandone la copertura. Allora l’intento fu addirittura osteggiato dai lavoratori stessi di quel tessuto di micro imprese, e lo stesso tentativo per via referendaria venne boicottato e fallì grazie ad interventi attivi di soggetti politici che dovevano essere ‘amici’, ma amici non furono.
Occupati per dimensione d’impresa (stime ISTAT – Censimento Imprese)
Dimensione impresa Quota occupati
Microimprese (<10 addetti) ~45%
Molto diffuse, soprattutto nei servizi e nel commercio
Piccole imprese (10–49 addetti) ~20%
Settori manifatturieri tradizionali e costruzioni
Medie imprese (50–249 addetti) ~15%
Distretti industriali (meccanica, moda, agroalimentare)
Grandi imprese (≥250 addetti) ~20%
Poche ma strategiche: energia, automotive, telecomunicazioni, finanza
Se questa è la platea, ha ancora senso pensare ad un’azione sindacale che cerca ancora di contrastare il sistema con strumenti che nel secolo scorso avevano un peso, ed un senso, ma che in questo periodo storico ed economico forse sono armi spuntate ed obsolete?
Quello che fa la differenza
Eppure il paradigma di fondo non è diverso. Abbiamo dimenticato uno dei fondamentali, che è quello che faceva, ed ancora fa la differenza: tra lavoratore e impresa esiste una questione di sostanza, che sta nel fatto che un’impresa, per definizione massimizza gli utili e non fa beneficienza, mentre il lavoratore vive del suo salario, erogato dal soggetto imprenditoriale in cambio della una prestazione d’opera.
Che si tratti di lavoro fisico, di produzione industriale, o di lavoro intellettuale è e rimane comunque uno scambio di tempo di vita in cambio di salario.
Se vivo di salario non posso dimenticare che l’interesse dell’impresa non potrà mai coincidere con il mio, e che un miglioramento della mia condizione occupazionale, in termini di diritti o di salario o di condizioni di lavoro dovrà necessariamente essere una sottrazione dal margine di utile che l’impresa ha a sua disposizione.
Quindi si tratta di conciliare due mondi diversi, ed i tentativi di intraprendere la via della concertazione sono stati, a mio modesto avviso, un semplice modo per sedersi ai tavoli ma senza una partecipazione reale nel disegnare le strategie, perché la partecipazione reale ad un’impresa, onori ed oneri, si avrebbe forse in caso di public company, o in un modello di economia socialista reale, non certo in un modello capitalista e liberista.
La mediazione, e la conciliazione di interessi e di mondi diversi, sarebbe possibile soltanto trovando un accordo di sostanza su un modello di sviluppo condiviso, che prendesse atto che non può esistere la crescita illimitata, e che non può reggere un sistema che non tenga conto delle ricadute a medio e lungo periodo sul suolo, sul clima, sulle foreste e nell’aria e sulle persone.
Fino a quando non si troverà questa reale comunione di intenti lavoratori e imprese rimarranno due mondi diversi, in pace o in guerra, ma mai nello stesso mondo.
Brevi tracce di storia
Storicamente ci sono state categorie di lavoratori che hanno goduto di pesi contrattuali molto maggiori rispetto ad altre, e che hanno anche potuto sfruttare questo vantaggio a loro favore per ottenere miglioramenti netti delle condizioni di vita e lavoro.
La forza stessa di far valere il peso reale quando la grande industria era maggioritaria, e le ricadute degli scioperi che pesavano direttamente sul fatturato hanno permesso a queste categorie di fare anche da traino e di guadagnare benefici anche per categorie minori, e per settori più svantaggiati.
È grazie all’aristocrazia operaia delle tute blu che nel Novecento si sono avute molte conquiste sindacali importanti. Ma ormai la battaglia si è di molto ridotta, è quasi un giocare di rimessa, ed in molti settori si stanno erodendo e perdendo anche diritti che erano già acquisiti.
Due gravi débâcle vanno soprattutto ricordate: la cancellazione della scala mobile, e la legge 30 del 14 Febbraio 2003, la famigerata “Legge Biagi” che ha introdotto nel sistema il precariato istituzionale, da cui le nuove generazioni ormai non si possono più sottrarre.
Due esempi di regressione entrambi vissuti dal mondo del lavoro sotto l’ala di governi ‘amici’, che forse poi tanto amici, anche lì, non furono.
Perché lo sciopero vale ancora
Forse la proclamazione di uno sciopero ha però conservato ancora la sua valenza più importante: chiedere ai lavoratori di scioperare significa chiedergli di decidere, di schierarsi e di compiere quindi un atto politico, specialmente quando le istanze in gioco sono di tipo critico verso chi governa il sistema, verso l’imprenditore che non accetta di ridurre il suo margine in favore di chi produce per lui, verso il governo che non accoglie la richiesta di migliorare salari, condizioni di lavoro, riduzione del precariato e del dumping sociale.
Aderire ad uno sciopero, e rinunciare al salario della giornata, è quindi una scelta consapevole, che credo nel pensiero di chi la attua celi anche la speranza di portare un contributo reale, attivo alla vertenza: si dà la possibilità di agire, con la speranza che la nostra azione possa incidere sui fatti.
Ed è questo il vero valore, l’unico forse rimasto: la possibilità di essere protagonisti della propria vita e di fare concretamente qualcosa per cambiare il corso delle cose.
Impariamo di nuovo a non fare sconti
Ecco perché in questo momento storico, dove siamo inseriti in un modello lontanissimo dall’essere governabile a titolo individuale, in un sistema in cui siamo soltanto una variabile in un disegno algoritmico, il nostro atto politico è un andare contro: un tentativo di buttare grani di sabbia nell’ingranaggio del sistema.
L’azione sindacale non può non tenere conto di quanto ormai la gente si senta sempre meno libera, e sempre più schiacciata da questi meccanismi: dare loro la possibilità di agire, di ‘contare’ e di essere parte attiva in un disegno che li comprende potrebbe essere una cosa dai risultati dirompenti.
Siamo reduci da un esperimento sociale chiamato pandemia, in cui hanno isolato ciascuno di noi dentro alla propria stanza, lo hanno inoculato per legge, e ripristinato il divieto di assembramento, che suona molto vicino all’‘adunata sediziosa’ delle leggi marziali.
Alla Generazione Z hanno fatto festeggiare il loro diciottesimo compleanno rinchiusi in una stanza, attaccati ad uno schermo, seguendo la didattica a distanza: ora quei giovani vivono con la paura di baciarsi, con il disagio di non riuscire a confrontarsi, con la disillusione di poter essere attori protagonisti del loro futuro.
A queste figure, ed a questi bisogni, si deve rivolgere un’azione sindacale che abbia un senso: è necessario ricominciare a parlare con quella che una volta si chiamava la base, e che ora possiamo chiamare ‘gente’.
Parliamo con loro, disegniamo i nostri comunicati tarandoli sulla percezione diffusa e sul bisogno che esiste in tutti di poter essere parte attiva, e soprattutto ricominciamo ad agire localmente pensando globalmente.
Facciamo di tutto perché le istanze che porteremo avanti non siano soltanto semplici ripieghi di retroguardia, ma proposte attive, dirette, con un respiro ampio e mirato, che dia la possibilità a chi sceglierà consapevolmente di aderire, di essere parte attiva, protagonista del suo tempo, e non semplice numero algoritmico, banale consumatore usa e getta.
Non trascuriamo mai di ripeterci che ogni mattina, il semplice gesto di alzarsi dal letto è un atto politico, di pura resistenza: facciamolo diventare un atto concreto di speranza e di cambiamento.
I moti spontanei a cui abbiamo assistito sorgono apparentemente in modo carsico, ma in realtà accadono perché esiste un sottostrato di voglia di crederci. È su questo sottostrato che si deve lavorare, e si deve basare l’azione sindacale anche nel Tempo delle Macchine Intelligenti e dei nuovi lavori.
Alimentiamo questi fiumi con le parole e con i gesti. Facciamo in modo che chiunque scelga di muoversi, possieda la consapevolezza che non lo farà inutilmente.
E soprattutto, impariamo di nuovo a non fare sconti.
L’azione sindacale non torni ad essere cinghia di trasmissione per nessuno. E sia invece sana portatrice di istanze del mondo diverso che vorrebbe rappresentare, che deve rimanere il mondo di chi sta da questa parte del cedolino paga, e non dall’altra.