Proprio così: meglio organismi cibernetici che persone senza bastone (in-baculum), ci ricorda Claudio Paolucci nel suo agile ma tagliente libro Nati Cyborg. Cosa l’intelligenza artificiale generativa ci dice dell’essere umano (Luca Sossella Editore, 2025). L’idea va presa alla lettera: “imbecille” significa letteralmente “debole” e homo sapiens nasce debole se non ha protesi esterne a cui appoggiarsi ed è capace di affrancarsi da queste sua condizione costitutiva di debolezza soltanto delegando all’ambiente tutta una serie di funzioni cognitive che svolge meno efficacemente all’interno del proprio cervello o del proprio corpo biologico. La condizione di Homo sapiens sta tutta qua, ovvero nella sua naturale condizione di animale che deve affidarsi costitutivamente agli strumenti per evitare di essere debole e inadeguato; insomma, imbecille. Ovviamente ciò non è garanzia di immunità all’imbecillità, ma solo un modo per ribadire un’idea che circola, nella sua accezione più contemporanea, almeno dalla fine del XIX secolo, quando il geografo e filosofo della tecnica Ernst Kapp descrisse gli strumenti come proiezioni organiche, anticipando una tendenza che sarebbe divenuta pop con le idee di Marshall McLuhan.
Ma l’idea che noi siamo ibridati con le tecnologie e con il mondo intorno a noi è un’ipotesi che, travalicando confini disciplinari e periodi storici, è sempre più presente nel dibattito, anche quello cognitivista. Il libro di Paolucci è in tal senso un omaggio all’omonimo libro di Andy Clark, il filosofo che ha introdotto nelle scienze cognitive l’idea che la nostra cognizione non si esaurisca nel sistema cervello-corpo, ma si estenda anche al di fuori di esso. Siamo cyborgs, dunque, assemblaggi di corpi e cose. I confini che delimitano ciò che sta dentro e ciò che sta fuori sono plastici e investiti da continue trasformazioni indotte dalle tecnologie che ci circondano. A esse ci affidiamo come se fossero bastoni da cui farci supportare nel relazionarci al mondo.
Il libro di Paolucci parte dalla questione generale della natura protesica dell’umano, però, per sondare come essa si configuri al cospetto dell’Intelligenza Artificiale Generativa. L’IA è allora sia l’ennesima tecnologia che compare sulla scena e che attua trasformazioni radicali per la nostra cognizione, sia una tecnologia che ha non precedenti nella nostra storia bioculturale. Questa discontinuità nella continuità è ciò che fa chiudere così il libro a Paolucci: “non è mai alle origini che qualcosa di nuovo può rivelare la propria essenza, ma esso può rivelare ciò che già era fin dalle origini soltanto a una svolta della propria evoluzione.” (p. 129).
In questo passaggio da mediologo puro, Paolucci ribadisce un principio che ricorre sistematicamente in mediologia. Le tecnologie rivelano. Ma perché ci sia rivelazione, deve esserci prima assuefazione, ottundimento, narcosi. Del resto, più una tecnologia è impattante per la nostra esperienza, meno la si esperisce consapevolmente. Pensiamo alle scarpe: nessuno di noi ci pensa, se non nel momento di sceglierle al mattino, poi esse devono sparire perché il camminare acquisisca la consueta forma non riflessiva, necessaria affinché sia efficace. Quando una mediazione funziona alla grande, essa non è percepita come tale, ma come immediatezza. Per Homo sapiens questo aspetto è di importanza capitale e comprenderlo significa cogliere l’essenza della relazione eco-mediale che solo noi, in quanto imbecilli costitutivi, mettiamo in atto.
Le tecnologie non sono sempre le stesse, però. Ogni nuova tecnologia, creando un’inedita relazione sensomotoria e cognitiva con l’ambiente, ci sveglia dal torpore mentre al contempo ci prepara per il successivo stadio di assuefazione. Per capire questo aspetto è utile pensare all’invenzione della fotografia. Quando apparve sulla scena, nel 1839, le reazioni furono molto accese: c’era chi abbracciava entusiasticamente il nuovo mezzo e chi considerava ripugnante e persino pericoloso farsi fotografare. La fotografia aveva rivelato – nel senso di rendere manifestamente visibile e socialmente rilevante – la natura protesica del sé, che era sempre esistita, ma non era mai stata visibile. In quanto specchio dotato di memoria, l’immagine fotografica ha rivelato, rendendola manifesta, la dislocabilità del concetto di presenza. L’esperienza intima e privata di essere fuori da sé, provata per millenni mediante le superfici riflettenti, diviene esperienza pubblica, occasione di scambio e di mercificazione, opportunità per apparire in un altrove che non richiede il corpo. Oggi, dopo quasi duecento anni, nessuno bada troppo ai tantissimi modi in cui la nostra presenza digitale circola sulla Rete.
E allora cosa rivela l’IA, oltre alla nostra natura cyborg? Da quanto emerge leggendo il libro, rivela il nostro atavico antropocentrismo e l’idea che per esserci intelligenza debba esserci significato e che, per esserci significato, ci debba essere un linguaggio verbale grazie al quale un agente intenzionale ragiona, nell’intimità della sua scatola cranica. Dalla stanza cinese di John Searle fino alle ipotesi contemporanee di Luciano Floridi, ci accorgiamo, attraversando il libro di Paolucci, che l’argomento usato per mantenere una distanza incolmabile tra il nostro comportamento e quello delle macchine è più o meno lo stesso: l’IA non è intelligente, semmai sa scegliere bene parole da mettere una dietro l’altra. Insomma, enuncia bene, ma non capisce nulla; anche se sembra che sia intelligente, perché il suo comportamento ci convince, non c’è nulla di intelligente dietro. L’azione può essere a intelligenza zero. Quello che l’IA produrrebbe, allora, è solo un “effetto di soggettività” (p. 80), qualcosa che sembra, ma non è.
Collocandosi in continuità con una tradizione semiologica che ha origine nei lavori di C.S. Peirce, e coniugando questo sapere con le recenti teorie enattiviste, Paolucci fornisce argomenti convincenti che smontano questa postura epistemica, offrendoci spunti di estremo interesse per comprendere cosa aspettarci dall’IA. Solo se osservata dalla prospettiva soggettiva, individuata, linguistica e, dunque, antropocentrica, l’IA può essere giudicata a intelligenza zero, per le ragioni che abbiamo detto e che ci fanno sentire ancora ben saldi in postazione di comando in questo mondo. Ma l’intelligenza è precisamente “agire efficacemente nel mondo” (p. 48) e l’azione non è un surrogato, un mero output, di un pensiero che viene prima – sia cronologicamente, sia gerarchicamente – di essa.
Tuttavia è dura scalfire il “mito del significato” (p. 104), cioè l’idea che senza una comprensione linguisticamente mediata del mondo non vi sia intelligenza, ma solo comportamento. Paolucci propone un ribaltamento radicale, che è il più fecondo possibile: “Il significato è il nostro modo propriamente umano di dare senso all’esperienza e di accoppiarci con l’ambiente, ma è un limite dell’essere umano, non una forza” (p. 104). Non solo, dunque, non serve somigliare a noi per essere intelligenti, ma è meglio scatenare la macchina, togliere l’umano out of the loop per ottenere risultati davvero straordinari.
L’esempio del gioco GO è chiaro, ma ora lo stesso si può dire degli scacchi. Invece di riempire i motori con i dati di secoli di partite svolte da umani, ai software è stato concesso di dare senso al gioco in completa autonomia. Ciò ha permesso di non farcire di bias umani le conclusioni a cui il software sarebbe giunto. Il risultato, lo sappiamo, è definitivo: il gioco degli scacchi, dopo secoli, non è più roba per l’umano.
Torniamo alla fotografia. Per decenni ingabbiata nella retorica del fare pittorico, essa non aveva proprio niente da offrire con la sua ottusa, meccanica riproduzione del reale. Ma ciò era vero perché la si giudicava, come ha scritto Walter Benjamin, da quel seggio di giudice che la fotografia stessa stava rovesciando. La fotografia non era artistica nel senso in cui lo era la pittura, ma aveva enormi potenzialità che si sono espresse proprio quando il progresso tecnico e la consapevolezza epistemica consentirono di usarla non come una pittura automatica, ma come strumento di iper-percezione: i cavalli di Eadweard Muybridge, le registrazioni del dottor étienne-Jules Marey, solo per citare i casi più noti, rivelarono i limiti della percezione e mediante ciò la potenziarono.
Se l’ipotesi di Paolucci è corretta, e credo proprio che lo sia, i risultati più straordinari dell’IA arriveranno proprio quando l’apporto umano, il suo significato sulle cose, sarà del tutto assente. Le macchine non sono soggetti individuati aventi un corpo, bisogni o desideri; non danno senso alle cose come facciamo noi, ma ciò non implica che non possano farlo. Anzi, ci offriranno soluzioni che per noi sono impossibili, ma sulle quali poter contare. Quando la realtà che le macchine possono conoscere non è filtrata, ridotta e resa tendenziosa dalle nostre significazioni, i risultati di cui disponiamo hanno un grande valore proprio perché non provengono da noi.
Il movimento dei cavalli lo abbiamo potuto vedere proprio perché ci siamo fatti da parte. Il dottor Marey voleva registrare i fenomeni fisiologici evitando accuratamente che la conoscenza umana condizionasse l’interpretazione. Un esempio contemporaneo è quello dei tempi di percorrenza stradale stimati da Google: è grazie a un rilevamento autonomo delle condizioni di traffico che la rete neurale produce stime, senza bisogno di avere imbeccate umane su come dare senso a ciò che accade. Ma è proprio così che noi traiamo vantaggio dall’applicazione; è in questo modo che essa è utile per noi.
Insomma, contrariamente a quanto sostiene tanta retorica antropocentrica che ci vorrebbe sempre “al comando”, essere cyborgs ci aiuta a capire il mondo più di quanto potremmo fare senza i nostri bastoni protesici.