Uno dei sintomi più eloquenti di questa degenerazione è la proliferazione incessante di riunioni. Invece di un contesto “lean” e orientato all’azione, ci si trova di fronte a un sistema intrinsecamente dispersivo, nel quale l’orario lavorativo viene frammentato da incontri ritualizzati che, lungi dall’aumentare l’efficacia comunicativa, sottraggono tempo ed energia all’esecuzione concreta delle attività.
Emblematico è il caso del Daily Standup, incontro concepito con una durata massima di quindici minuti, ma che nella prassi si trasforma in una liturgia estesa, replicata più volte al giorno. La giornata si apre con un primo aggiornamento mattutino, prosegue con una verifica pomeridiana, e si conclude con una retrospettiva informale, dando vita a un ciclo ripetitivo che possiamo definire “Standup infinito”.
In questa configurazione, la giornata lavorativa assume i tratti di una nuova forma di vita monastica: scandita da rituali collettivi che, più che favorire il progresso del lavoro, appaiono finalizzati alla conservazione del sistema stesso. Il parallelismo con l’organizzazione temporale dei monasteri medievali — strutturata attorno a momenti di preghiera e silenziosa disciplina — non è puramente metaforico.
Michel Foucault, nel suo celebre Sorvegliare e punire, avrebbe probabilmente colto in questo fenomeno una nuova forma di potere disciplinare. Così come i monasteri e le prigioni modellavano la soggettività attraverso la ripetizione e l’osservanza del rito, il modello Agile — se assunto acriticamente — rischia di instaurare una sorveglianza permanente, travestita da trasparenza collaborativa.
Quello che si produce, in definitiva, è una forma di iper-collaborazione coercitiva, nella quale il valore comunicativo si estingue nella ripetizione, e il team è costretto a una continua rinegoziazione del contesto cognitivo. Ogni interruzione genera un “cost switching” mentale che mina la continuità operativa, disperde l’attenzione, indebolisce la motivazione.
Paradossalmente, l’ideologia della collaborazione finisce per produrre l’effetto opposto: una congestione cognitiva che ostacola la concentrazione e induce frustrazione. È il fenomeno che potremmo definire come overload collaborativo, dove il processo si autosostiene in funzione del proprio perpetuarsi.
Tale dinamica si manifesta con maggiore evidenza nei contesti aziendali di grandi dimensioni, dove l’adozione del linguaggio Agile è spesso puramente formale. Il vocabolario dei framework viene incorporato come lessico aziendale, senza che ne venga interiorizzato lo spirito critico originario. Il risultato è una nuova forma di burocratizzazione, mascherata da agilità.
Il fallimento non risiede nella metodologia in sé, ma nel suo fraintendimento strutturale. Agile, nato per dissolvere la rigidità, viene trasformato in un dispositivo di regolazione procedurale. Un framework concepito per l’adattamento si trasforma così in un apparato liturgico, nel quale la ripetizione rituale sostituisce l’intenzionalità progettuale.
Nel romanzo Il Processo, Franz Kafka afferma: “È colpa del sistema. Il sistema vuole intrappolare tutti.” Questa osservazione trova un’eco inquietante nell’uso inconsapevole di Agile, che diventa un apparato chiuso, autoreferenziale, incapace di farsi realmente strumento di emancipazione lavorativa. Agile, in altre parole, rischia di essere il nuovo sistema che intrappola.
È colpa del sistema. Il sistema vuole intrappolare tutti. - Kafka
Alla base di questa contraddizione vi è l’adozione dogmatica del metodo, elevato a feticcio organizzativo. La moltiplicazione dei rituali, l’inflazione dei ruoli, la standardizzazione delle retrospettive: tutto concorre a generare una sovrastruttura operativa che finisce per riprodurre i vizi del management tradizionale, contro cui Agile si era originariamente posto in opposizione.
È forse giunto il momento di recuperare lo spirito originario dell’Agile Manifesto: una visione fondata sull’adattamento intelligente, sul valore generato per il cliente, sulla valorizzazione delle persone e sull’interazione reale, non simulata. Un ritorno alla parresia, alla parola vera, come direbbe Foucault. Un abbandono del formalismo, come suggerirebbe Nietzsche, per evitare il rischio di trasformare l’agilità in conformismo.
Bibliografia ragionata
- Ken Schwaber e Jeff Sutherland, The Scrum Guide (2020): testo fondativo e canonico, spesso assunto come dogma, ma raramente analizzato in funzione critica. Va letto come grammatica normativa, non come vangelo.
- Jim Highsmith, Agile Project Management (2004): utile per distinguere l’intenzione originaria dalla degenerazione operativa. Evidenzia lo scarto tra manifesto e prassi.
- Nassim Nicholas Taleb, Antifragile (2012): critica le finzioni della resilienza. Agile, se male implementato, esemplifica perfettamente la fragilità travestita da flessibilità.
- Michel Foucault, Sorvegliare e punire (1975): chiave interpretativa per comprendere l’Agile come dispositivo disciplinare. I Daily Standup si trasformano in strumenti di controllo simbolico.
- Marc Bloch, Apologia della storia (1949): insegna il valore del contesto e della critica delle fonti, elementi assenti nell’adozione meccanica dei framework aziendali.
- Paul Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze (1987): un’analogia storica sul fallimento dell’adattamento eccessivo, che destabilizza più che rafforzare.
- Karl Marx, Il Capitale (1867): illuminante per cogliere la mercificazione del sapere: le certificazioni Agile diventano un prodotto da vendere, più che una cultura da assimilare.
- Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male (1886): critica del conformismo intellettuale, utile a comprendere la deriva gregaria di molte implementazioni Agile.
- Guglielmo di Ockham, Scritti filosofici (XIV sec.): il principio di parsimonia come antidoto alla complessità inutile introdotta da ruoli e cerimonie superflue.