Go down

La mente, per sua natura, tende al vagabondaggio. Oscilla tra l’ansia per ciò che potrebbe accadere e il rimpianto per ciò che è stato. Questo flusso continuo, se non riconosciuto, alimenta uno stato latente di stress, talvolta persino di alienazione. Praticare la mindfulness significa spezzare questo incantesimo: riportare dolcemente l’attenzione al momento presente, al respiro, a un suono, a una sensazione corporea. Una forma di vigilanza affettuosa, che non corregge, ma accoglie.

Pagina di diario — 18 maggio
Fulcenzio Odussomai


Oggi ho riletto un passo di Kabat-Zinn che avevo sottolineato anni fa: “The present is the only time that any of us have to be alive — to know anything — to perceive — to learn — to act — to change — to heal.” L’ho sentito vero. Non come una massima da citare, ma come un fatto nudo, una legge biologica. L’attenzione, quando c’è, è vita. Quando manca, la vita si consuma in un altrove mentale che non esiste.

Stamattina, mentre aspettavo la metropolitana, ho notato una donna accanto a me. Aveva il respiro corto, gli occhi fissi sul binario, le mani strette alla borsa. Ho distolto lo sguardo, poi ci sono tornato. Non era paura. Era tensione. In quel momento ho sentito il mio stesso respiro farsi più lungo, come se il corpo cercasse di ricordare a entrambi che si poteva semplicemente essere lì. Non è successo nulla di speciale. Ma la giornata, da quel punto in poi, è cambiata.

Mi accorgo che, senza attenzione, anche i sentimenti si deformano. Diventano echi. Invece, quando osservo quello che sento — senza volerlo correggere, senza volerlo subito etichettare — qualcosa cambia. Non fuori, ma nel modo in cui abito ciò che c’è. Oggi, per esempio, ho provato rabbia. In un’altra stagione l’avrei ignorata, oppure analizzata fino a sfinirla. Invece l’ho lasciata essere. Mi sono seduto, ho respirato, ho guardato quel fuoco interno senza dargli un nome. Non si è spento. Ma non ha nemmeno bruciato.

La mente, per sua natura, tende al vagabondaggio. Oscilla tra l’ansia per ciò che potrebbe accadere e il rimpianto per ciò che è stato. Questo flusso continuo, se non riconosciuto, alimenta uno stato latente di stress, talvolta persino di alienazione. Praticare la mindfulness significa spezzare questo incantesimo: riportare dolcemente l’attenzione al momento presente, al respiro, a un suono, a una sensazione corporea. Una forma di vigilanza affettuosa, che non corregge, ma accoglie.

Un neuroscienziato — Hölzel, se non sbaglio — ha osservato come, dopo solo otto settimane di pratica, si modifichi la densità della materia grigia in certe aree cerebrali [1]. Me lo sono appuntato in un vecchio taccuino. Lo trovo confortante, ma non necessario. La verità della mindfulness non la colgo nei grafici, ma nella lucidità che mi attraversa quando riesco a respirare e basta.

Poi c’è quella strana idea, ancora in circolo, secondo cui questa pratica sarebbe una specie di esilio spirituale. Ma io non mi sento mistico. Né in esilio. Mi sento nel traffico, nei colloqui, nella fatica. E proprio lì, a tratti, qualcosa si apre. Non per fuggire. Ma per stare. Una forma di presenza che non ha bisogno di eremi.

Oggi ho pensato anche alla leadership. A quanto sia sottile l’equilibrio tra l’agire e l’ascoltare. A volte credo di gestire i progetti come se stessi su una nave, una di quelle che vanno dritte anche quando il vento cambia. Eppure so che non basta tenere il timone. Bisogna anche sentire il legno sotto i piedi, ascoltare i rumori della stiva, sapere se l’equipaggio si fida.

Una volta ho letto che ci sono due leve: quella del compito e quella della relazione. Mi è rimasta impressa. La prima è più facile da maneggiare: obiettivi, risorse, efficienza. La seconda è più ambigua, più fluida. Chiede sensibilità, ascolto, e una certa disponibilità a essere vulnerabili. Non tutti i giorni ci riesco.

Ci sono momenti in cui sento che devo dare istruzioni rapide, precise, senza esitazioni. Altri, invece, in cui devo starmene in silenzio, lasciare spazio, ascoltare un malessere non espresso. Non è una questione di metodo. È una forma di arte. Un mestiere umano, che non si impara nei manuali.

Alla fine di tutto, penso che mindfulness e leadership abbiano in comune una cosa: la qualità della presenza. Essere lì. Non altrove. Non in una strategia perfetta, non in una versione ideale di sé, ma nel punto esatto in cui si è. Lì dove accadono i conflitti, ma anche le possibilità.

Scrivo tutto questo per ricordarmelo. Perché domani, forse, lo dimenticherò di nuovo.

Ma se anche nel dimenticare restasse una traccia, forse non sarà stato inutile.


Nota commentata

1. Hölzel, B. K., et al. (2011). Mindfulness practice leads to increases in regional brain gray matter density. Psychiatry Research: Neuroimaging, 191(1), 36–43. — Studio di risonanza magnetica che documenta i cambiamenti neurostrutturali associati alla pratica regolare di mindfulness, in particolare nella corteccia prefrontale. Offre una base empirica a ciò che molti praticanti riferiscono in termini soggettivi: maggiore chiarezza, equilibrio emotivo, e capacità di attenzione sostenuta. 

Pubblicato il 18 maggio 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / omnia mea mecum porto