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In un’epoca attraversata da mutamenti profondi e spesso disorientanti, la questione della formazione degli adulti non può più essere pensata solo in termini di riqualificazione o adeguamento al mercato del lavoro. Ciò che oggi è in gioco riguarda il senso stesso del vivere associato, il rapporto tra soggettività e sapere, il diritto a una cultura che accompagni le trasformazioni senza rinunciare alla complessità.


Gianfranco Refosco, sociologo di formazione, con una lunga esperienza nel sindacato e oggi attivo nel campo della formazione professionale con l’Enaip-Veneto, incarna una figura capace di coniugare visione umanistica e responsabilità sociale. Le domande che seguono nascono dal desiderio di entrare in dialogo con questa prospettiva.

In un tempo segnato da mutamenti rapidi e spesso disorientanti, quale senso ha oggi investire energie nella formazione degli adulti? È ancora possibile, o forse proprio ora necessario, pensare la formazione come un dispositivo culturale, capace di agire non solo sulle competenze ma sulla struttura stessa del vivere comune?

Pochi mesi fa l’OCSE ha pubblicato un report (Do Adults Have the Skills They Need to Thrive in a Changing World? | OECD) sul livello di alfabetizzazione degli adulti nei paesi membri, dal punto di vista delle competenze di lettura, scrittura, calcolo matematico e problem solving. Il preoccupante esito della ricerca è un generale calo del livello di alfabetizzazione degli adulti, e l’Italia figura nella parte bassa della classifica.

Il paradosso è che in questo mondo che cambia sempre più velocemente e in maniera imprevedibile, gli strumenti intellettuali e cognitivi delle persone appaiono sempre più deboli e spuntati per affrontare con consapevolezza e spirito critico le scelte della vita quotidiana, quelle individuali e quelle collettive.

In questo sconfortante contesto, di cui vediamo preoccupanti sintomi con frequenza quasi quotidiana in tanti ambiti della vita, la formazione continua è l’unica risposta che restituisce dignità e “libero arbitrio” alle persone. La libertà degli individui passa, mai come oggi, per le conoscenze e le competenze per comprendere e interpretare il mondo.

Chi si occupa di formazione professionale, quindi, non ha in mente solo conoscenze, abilità e competenze tecnico-operative, ma è ben consapevole che occuparsi della formazione delle persone ha una posta in gioco ben più alta e di un grande valore civico, ancora prima che economico-professionale.

Dal punto di vista delle competenze professionali in senso stretto, poi, è importante sottolineare che sempre più il mercato del lavoro ricerca e valorizza, a fianco di quelle tecniche e prettamente professionali, le cosiddette soft skills; chi sa leggere il contesto, chi ha imparato ad imparare, chi sa lavorare in relazione positiva con gli altri, chi sa assumersi responsabilità ed è in grado di fare scelte e risolvere problemi, ha più chance di vivere una vita lavorativa soddisfacente e di essere riconosciuto e considerato. Anche queste competenze trasversali possono essere apprese ed allenate, e messe a valore nel lavoro e anche nella vita personale. Questa è una delle sfide più importanti, in questo tempo, per la formazione professionale.

 

Da questa prospettiva si delinea la necessità di stare dentro le contraddizioni del presente, senza rinunciare all’idea che le persone possano cambiare la propria traiettoria. Ed è qui che entra in gioco un altro nodo centrale: quello della soggettività. La tua formazione sociologica e la lunga esperienza sindacale sembrano restituire una capacità particolare di tenere insieme giustizia sociale, ascolto dei territori e visione pedagogica. In che modo questa traiettoria personale e politica incide oggi sulla tua azione nel campo della formazione? Cosa hai portato con te dal sindacato, e cosa hai dovuto invece trasformare?

Ho sempre cercato di mettere in pratica nella mia vita professionale i miei valori di impegno per il cambiamento, per contribuire a costruire una società più giusta.

Fare sindacato è un’esperienza che ti mette in discussione tutti i giorni, ti pone davanti a sfide sempre nuove, e ti permette di vivere un processo di apprendimento continuo. Penso che le competenze principali per un buon sindacalista siano l’umiltà e la capacità di ascolto. Ogni problema che affronti ha a che fare con l’unicità delle persone che lo vivono e con l’irriducibilità dei loro vissuti esistenziali, e il tuo compito è di accompagnare queste persone a trovare la soluzione adeguata e concretamente perseguibile qui e ora.

Ho sempre creduto che il sindacalista sia un agente di empowerment delle persone, sia nelle azioni sindacali individuali che collettive. Non credo in un sindacato che considera i lavoratori come soggetti solamente passivi che hanno bisogno di qualcuno che li tuteli dall’alto o dal di fuori, ma ritengo che le loro soggettività vadano accompagnate, sostenute e promosse per essere in grado di prendere in mano il loro destino. In questo senso, considero le politiche assistenzialiste una trappola: non perché manchi il bisogno di sostegno, ma perché, se concepite senza il coinvolgimento attivo delle persone, finiscono per ridurne l’autonomia. Sostenere chi lavora, chi ha perso il lavoro o vive situazioni di fragilità significa creare le condizioni perché siano loro stessi a ritrovare voce, strumenti, direzione. Il riscatto non si delega. Si costruisce insieme, passo dopo passo, partendo dall’ascolto e dalla fiducia nelle possibilità di ciascuno.

Per questo motivo il mio impegno di oggi nella formazione lo considero coerente con l’impegno sindacale, da contrattualista, che ho svolto per molti anni.

La formazione è il processo migliore per consentire alle persone di costruirsi una cassetta di attrezzi che permetta loro di fare scelte e di essere protagonisti: nel mercato del lavoro, nel luogo di lavoro, nella loro vita personale.

Passare dal sindacato alla formazione non è stata un’esperienza di discontinuità. Anzi sto molto apprezzando gli aspetti concreti e operativi con cui la formazione sa stare di fianco alle persone.

La formazione è il processo migliore per consentire alle persone di costruirsi una cassetta di attrezzi che permetta loro di fare scelte e di essere protagonisti

Il lavoro, inteso come spazio di dignità e competenza, è per te centrale in ogni trasformazione. Ma la formazione può anche fare qualcosa di più: può ricucire il tessuto sociale, ricreare fiducia, restituire parola dove domina il silenzio. Nelle tue prese di parola emerge spesso una forte sensibilità per le persone e per le loro traiettorie di vita, un’idea della formazione che sembra non ridursi a prestazione, ma a responsabilità condivisa. Quanto conta oggi un approccio umanistico, capace di pensare la formazione anche come cura della soggettività adulta, in un tempo che spesso riduce tutto a efficienza e produttività?

Innanzitutto, occuparsi della vita delle persone vuol dire anche rimettere al centro il valore del lavoro. D’altra parte, il lavoro è centrale nella vita di ognuno. Avere un lavoro dignitoso, svolgerlo con competenza professionale e anche con passione, avere cura per un lavoro ben fatto, stare al lavoro in una relazione sana con gli altri e nel rispetto dell’ambiente, permettersi con i frutti del proprio lavoro una vita prospera, sono tutti elementi di valore per il singolo e per la collettività.

Oggi il lavoro viene vissuto (o meglio viene raccontato) solo come sfruttamento, come precarietà, come male necessario per campare, come “fattore della produzione” non ancora pienamente sostituibile dalle macchine.

Come promuovere e sostenere invece un lavoro che metta al centro le persone e il loro valore? Ricordiamo quello che diceva Primo Levi in quello che è, a mio parere, uno dei libri più importanti mai scritti sul lavoro (“La chiave a stella”) “L’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono.”

Per ricollegarmi al mondo della formazione professionale ricordo che Levi, nello stesso libro, afferma anche che la forma più accessibile di libertà delle persone coincida con l’essere competenti nel proprio lavoro. E quindi da dove ripartire per dare valore al lavoro, se non nel rafforzamento delle competenze professionali e trasversali delle persone con una formazione che duri tutta la vita?

In un tempo in cui le disuguaglianze si approfondiscono e la solitudine sembra divenuta una condizione strutturale dell’esistenza, quale ruolo può giocare oggi la formazione come spazio di ricomposizione del legame sociale? È ancora possibile pensare che sapere e cultura, se messi in circolo, possano restituire dignità, orientamento e apertura al futuro?

Diseguaglianze economiche, rapporti di potere e conoscenza hanno un rapporto inestricabilmente connesso. Lo diceva già negli anni ’60 Don Lorenzo Milani, esiliato a Barbiana dalle gerarchie ecclesiastiche e inventore di una scuola per giovani poveri e analfabeti che è diventata un modello di politica educativa: i poveri conoscono mille parole, i ricchi ne conoscono cinquemila. Per questo i primi sono poveri e i secondi sono ricchi.

La conoscenza è potere. Tanto più in un mondo come il nostro. Il sociologo Jamais Cascio, in un saggio illuminante di pochi anni fa, ha definito il nostro mondo come BANI (brittle, anxious, non-linear, incomprehensible) per indicare le sfide principali per le competenze umane di cui dovremmo dotarci, per affrontare la fragilità delle strutture sociali, l’ansia che pervade ogni livello di azione sociale, la non linearità degli eventi economici, politici e sociali, e l’incomprensibilità di molti fatti del mondo.

In un mondo come questo rischia di affermarsi il pensiero magico, quello che porta a scegliere l’uomo forte, il populismo che propone soluzioni semplici (e disastrose) a problemi complessi, o il pensiero complottista, che porta all’odio del diverso, alla completa sfiducia per l’altro e alla guerra civile delle idee, all’incomunicabilità sociale.

Per scongiurare questo orribile scenario serve fornire le persone di strumenti nuovi per vivere la complessità, l’incertezza e il caos del mondo di oggi e di domani, sviluppando nuove capacità diffuse di anticipazione dei futuri possibili, per prepararsi a sfide inedite, che si possono vincere solo con una società fatta di persone forti, autonome, con buona stima di sé e degli altri, che abbiano il coraggio di assumersi responsabilità. In questo senso la formazione non è solo un compito degli enti di formazione, ma dovrebbe essere un’azione strategica in cui tutti gli attori sociali investono.

 

Mi concedo una riflessione finale.

In un tempo che sembra aver dismesso il lessico dell’emancipazione, parlare di formazione come atto di cura, di responsabilizzazione e di restituzione del potere di scegliere significa riaprire uno spazio critico nella società. Le parole di Gianfranco Refosco permettono di comprendere che formare (ed educare) gli adulti non è un gesto tecnico, ma un progetto politico, fra i più nobili: un modo per contrastare la delega, ridare valore al lavoro e ricostruire legami. In un tempo che oscilla tra solitudine e delega, tornare a pensare la formazione come esercizio di libertà condivisa significa rimettere al centro la cultura come bene necessario, sebbene fragile, fondamento possibile di una vita comune ancora da costruire.

parlare di formazione come atto di cura, di responsabilizzazione e di restituzione del potere di scegliere significa riaprire uno spazio critico nella società

 

Pubblicato il 05 maggio 2025