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Le teorie del complotto, il culto del leader forte, il disprezzo per la mediazione e il compromesso democratico sono diventati parte integrante del clima culturale dominante. In questo contesto, la domanda centrale è: com’è possibile che, mentre la coscienza critica si dichiara viva e attiva, il potere autoritario guadagni terreno? E come mai le forme culturali che si propongono come alternative sembrano così facilmente neutralizzate? È proprio da questo paradosso che partiva 'The Rebel Sell', il libro scritto nel 2004 da Joseph Heath e Andrew Potter. Heath e Potter toccano una questione più profonda: la confusione tra cultura e politica. Molti ritengono che scegliere un certo stile di vita equivalga a cambiare il mondo. Non mangiare carne, boicottare un marchio, indossare vestiti vintage o non avere un televisore vengono considerati atti politici. Ma questi gesti individuali non mettono in discussione le strutture di potere. 'The Rebel Sell' ci invita a riconoscere le illusioni che ci rassicurano e a fare i conti con la complessità del reale. In un’epoca in cui le democrazie si svuotano e le autarchie si rafforzano, la ribellione estetica non basta. Serve un ritorno alla critica istituzionale, alla pratica democratica, al pensiero articolato. Serve una nuova consapevolezza che unisce l’analisi culturale con l’azione politica, la denuncia simbolica con la riforma concreta.


La mancanza di memoria storica, anche tenendo conto di una prospettiva temporale ridotta, appiattisce i dibattiti sui temi del giorno. Un antidoto a tutto questo lo possiamo forse trovare in quell’operazione, apparentemente banale, che consiste nel provare a mettere in prospettiva le cose. Un buon libro spesso è proprio questo: un punto di vista che ci aiuta a mettere in discussione i nostri presupposti. La lezione di un pensatore decisamente fuori moda può essere qui preziosa: “quello che è ovvio troviamolo strano”, diceva Bertolt Brecht.

Un buon libro esprime punti di vista che aiutano a mettere in discussione i nostri presupposti

Ecco allora che le indicazioni contenute in un libro di una ventina d’anni fa suonano preveggenti, nella loro capacità di leggere un presente che sembra essersi ormai cristallizzato. Viviamo un’epoca in cui le democrazie appaiano affaticate, in ritirata, e gli autoritarismi si consolidano senza più timidezza. In molti paesi, la fiducia nella rappresentanza politica è ai minimi storici, la partecipazione civica è in crisi, e al suo posto avanzano forme di identificazione simbolica, rituali, spesso basate su emozioni forti e visioni semplicistiche della realtà. Le teorie del complotto, il culto del leader forte, il disprezzo per la mediazione e il compromesso democratico non sono solo fenomeni marginali: sono diventati parte integrante del clima culturale dominante. In questo contesto, la domanda centrale è: com’è possibile che, mentre la coscienza critica si dichiara viva e attiva, il potere autoritario guadagni terreno? E come mai le forme culturali che si propongono come alternative sembrano così facilmente neutralizzate?

Ribellione e consumo

È proprio da questo paradosso che partiva The Rebel Sell, il libro scritto nel 2004 da Joseph Heath e Andrew Potter, nel suo tentativo di mettere in discussione uno dei pilastri della narrazione contemporanea: l’idea che la cultura alternativa, l’anticonformismo, lo stile di vita “diverso” costituiscano una vera forma di resistenza. Secondo gli autori, in realtà, queste forme di “ribellione” sono già previste e assorbite dal sistema capitalistico. Il mercato, lungi dall’essere un meccanismo che premia il conformismo, si nutre della ricerca incessante di distinzione. Più il consumatore cerca autenticità, unicità, originalità, più si rende parte di un ciclo commerciale che trasforma ogni segnale di differenza in un nuovo segmento di mercato. Il punk, il grunge, il biologico, il minimalismo o lo stile di vita basato sulla “decrescita” non scardinano il sistema: lo rinnovano.

La cultura alternativa, l’anticonformismo, lo stile di vita “diverso” non costituiscono una vera resistenza, sono già previste e assorbite dal sistema capitalistico

Ma il punto non è solo economico. Heath e Potter toccano una questione più profonda: la confusione tra cultura e politica. Molti ritengono che scegliere un certo stile di vita equivalga a cambiare il mondo. Non mangiare carne, boicottare un marchio, indossare vestiti vintage o non avere un televisore vengono considerati atti politici. Ma in realtà, spiegano gli autori, sono gesti individuali che non mettono in discussione le strutture di potere. Questo tipo di azione, seppure animata da buone intenzioni, non produce riforme né modifica le condizioni materiali di vita. È una forma di “riformismo simbolico” che consola, ma non trasforma.

Crisi del reale: hipster e spettacolo

Un buon esempio potrebbe essere quello della cultura “Hipster”, citazionista e ironica, che ha assorbito gli elementi identificativi delle sottoculture del passato in un costante remix stilistico completamente depotenziato di qualsiasi valore di tipo critico o politico. Non a caso l’hipsterismo è stato descritto come lo stile terminale del postmodernismo: in assenza di una traiettoria di trasformazione sociale, l’identificazione controculturale si riduce ad abito da indossare o a segno vuoto che si presta a infinite ricombinazioni (la camicia a quadri grunge, il panciotto del dandy, la barba hippie, i tatuaggi e i piercing abitualmente associati a culture “alternative”). Il postmoderno, che lo si intenda alla Jameson come logica culturale del tardo capitalismo o alla Lyotard come fine delle grandi narrazioni, si presenta come traiettoria temporale senza direzione.

L'assenza di prospettiva storica, che comporta la fine dell’archivio come messa in ordine dei discorsi del passato, genera due rapporti apparentemente opposti, ma in realtà tra loro complementari, rispetto al tempo: l’enfatizzazione del presente come unico momento che conta (“the time is now”) e il culto del cambiamento in quanto valore positivo in sé. Le vere domande, rispetto a queste retoriche, sono “Presente rispetto a cosa?” e “Cambiamento rispetto a cosa?”. La mancanza di una comparazione rispetto al passato da cui si proviene e rispetto al futuro verso cui si tende rende le due ingiunzioni opposte, “Sii presente” e “Cambia”, le due facce di una moneta consumata.

A ricaricare il valore della moneta simbolica, in un gioco di prestigio psicopolitico, è l’idea di una positività fine a se stessa, una sorta di dinamo che ricarica il sistema escludendo i tempi morti: l’unica mossa non accettata all’interno del gioco è quella che consiste nel sottrarsi alla circolazione della positività assoluta. Non importa cosa fai, l’importante è che tu faccia qualcosa, che tu la faccia ora, che quello che fai sia diverso da prima e che sia scambiabile come moneta simbolica e informativa.

Non sembra così improbabile dire che siamo di fronte a un’estremizzazione di quel fenomeno di espropriazione di senso che Guy Debord, nel 1967, chiamava “spettacolo”. “Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra individui, mediato dalle immagini”, scriveva nel classico La società dello spettacolo. O, ancora, “Il linguaggio dello spettacolo è costituito da dei segni della produzione imperante, che sono allo stesso tempo la finalità ultima di questa produzione”. E infine “Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso”. Il rovesciamento delle dinamiche sociali in immagini e segni che rappresentano la forma di mediazione dei rapporti tra persone è la formula che spiega perché tante energie vengano investite nel “riformismo simbolico” che lascia tutto immutato.

In parallelo, emerge un’altra dinamica: la crisi del reale. Il proliferare delle teorie del complotto, analizzato con lucidità da Wu Ming 1 nel suo La Q di complotto. In questo libro si mostra come il bisogno di credere in una verità nascosta sia diventato una vera e propria ossessione collettiva. Il successo del fenomeno QAnon, la diffusione di narrazioni cospirazioniste su vaccini, scie chimiche, élite globali e “grandi risvegli” spirituali, non sono semplici devianze: sono risposte a una perdita di fiducia nella razionalità democratica. Le persone, disorientate, cercano ordine e senso. E lo trovano in racconti che restituiscono l’illusione di una realtà semplificata, dove il bene e il male sono nettamente separati e dove c’è sempre un nemico da combattere. È un pensiero magico, rituale, non tanto diverso – nella sua logica profonda – da quello delle culture arcaiche.

il bisogno di credere in una verità nascosta è diventato una vera e propria ossessione collettiva

Mitologie: Il ramo d’oro e Apocalypse Now

A questo proposito, diventa utile richiamare il contributo di Claude Lévi-Strauss e della sua antropologia strutturale. Lévi-Strauss ci mostra come ogni cultura sia strutturata secondo modelli simbolici ricorrenti che, basandosi su coppie oppositive o su dualismi sociali, determinano il posizionamento degli esseri umani all’interno della società. Anche ciò che appare trasgressivo o deviante è in realtà previsto e integrato in una grammatica culturale. La ribellione, allora, non è una rottura, ma una variazione: un modo diverso di dire la stessa cosa. Anche l’oppositore rientra nell’ordine del discorso, così come la condizione festiva assume il suo significato sullo sfondo del tempo normalizzato. Come ha mostrato molto bene Michail Bachtin nel suo studio dedicato a Rabelais e la cultura popolare, le interruzioni carnevalesche generano coesione sociale, ma rischiano di essere solo un momento di conferma dell’ordine esistente.

Sono discorsi che percorrono i grandi testi che hanno cercato di leggere le strategie di posizionamento degli esseri umani nel mondo. Pensiamo ad esempio a Il ramo d’oro di James Frazer, libro forse superato dal punto di vista scientifico ma indicatore di una tendenza, alla fine del XIX secolo, a interrogarsi in chiave comparativa sulla spinta mitologizzante delle diverse culture. Attraverso la sua mastodontica indagine, Frazer mette in luce il bisogno universale dell’uomo di costruire miti, riti e narrazioni per orientarsi nel mondo. Le culture umane – ieri come oggi – inventano simboli e rituali per contenere l’angoscia e dare un senso all’esperienza. I moderni complottisti, i consumatori alternativi, i ribelli estetici, non sono così lontani dallo sciamano o dal sacerdote del passato. Hanno solo cambiato linguaggio.

Un’interessante riapparizione della dimensione terrorizzante nel rapporto con il sacro, che corre sottotraccia nel discorso di Frazer, si vede in uno dei grandi classici della nuova Hollywood, Apocalypse Now, di Francis Ford Coppola. Il Colonnello Kurtz, interpretato magistralmente da Marlon Brando, tiene sul comodino proprio Il ramo d’oro (e questo è un elemento assente nel romanzo di Conrad a cui il film si ispira). Tutto il film è una meditazione sul ritorno del potere carismatico che Brando/Kurtz crea dando vita a un esercito personale nel cuore del Vietnam. E il carisma, secondo Coppola e Frazer, passa attraverso la capacità di terrorizzare. I segni del passaggio dalla situazione ancora “razionalizzata” delle logiche militari all’incontrollato cuore di tenebra che custodisce il mistero del potere avviene per avvitamenti successivi: l’incontro con la tigre, il machismo wagneriano che unisce surf e napalm, i balli sexy di fronte ai militari, il fotografo allucinato. Fino ad arrivare alla lugubre apparizione dell’esercito privato dello sciamano nero: i tagliatori di teste incontrano la macchina bellica yankee in un mix che contamina, a partire da una sacralità di ritorno, passato e presente. E Willard, per portare a termine la sua missione, eliminare l’avversario, non può che diventare l’avversario, emergere dalle acque diventando identico ai guerrieri di Kurtz, e andando a ucciderlo mentre, sullo sfondo, si compie il sacrificio del toro. Non a caso il film si iscrive fin dall’inizio nella logica sacrificale di “The End” dei Doors. Controcultura che si confonde con la propaganda, ritorno ancestrale del sacro, sospetto generalizzato, geopolitica, fuoco. Coppola ha descritto il nostro tempo.

Ancora una volta è l’assenza di un quadro di riferimento comune a portare al proliferare di questi discorsi. Lo mostrano molto bene le dinamiche che hanno portato all’elezione di Trump. Al di là delle diverse prese di posizione rispetto alle tematiche specifiche, abbiamo visto fronteggiarsi due discorsi che si muovono nello stesso “vuoto linguistico”. Il conformismo alternativo contro l’anarchia dell’accelerazione capitalistica. L’identità come “stile di vita” e il sogno di decollare verso Marte: in entrambi i casi il soggetto sembra essere condannato a plasmare se stesso in modo compulsivo. Sono due prospettive autoplastiche, in cui il vero valore del segno consiste nella sua circolazione e la moneta di scambio è la mediazione pura dello spettacolo. Intendiamo dire: quand’è successo che l’unico discorso alternativo al bullismo tecnologico di Trump sia diventato l’ossessione hollywoodiana per la produzione di oggetti filmici perfettamente conformi al discorso woke? Il fatto di aver trasformato dei discorsi di liberazione in griglie culturali normative ha creato un ritorno del rimosso: i redneck che popolano un film come Un tranquillo weekend di paura di John Boorman hanno iniziato a produrre i loro discorsi. Lo sciamano bianco che, nell’assalto al Campidoglio, è entrato, con il suo copricapo da medicine man nativo, nel luogo sacro della retorica democratica, ha compiuto un doppio rovesciamento: si è appropriato della cultura nativa e della cultura che, coprendosi con un discorso postcoloniale di maniera, ha cancellato l’altro rimosso americano, la spazzatura bianca. In assenza di un discorso di classe, impossibile in quanto marxista, i non rappresentati hanno trovato il modo di farsi rappresentanti di se stessi. Cosa c’è di più punk e di alternativo dei meme alt-right che proliferavano qualche anno fa? Pepe The Frog, la rana umanoide utilizzata dalla destra americana, è l’animale talismano del trumpismo.

La necessità del pensiero critico

Il filosofo francese Michel Foucault, con il suo approccio genealogico e archeologico al sapere, ci aiuta a fare un ulteriore passo avanti. Per Foucault, il potere non è solo una struttura visibile, un’autorità che impone dall’alto: è una rete sottile di saperi, norme, dispositivi che costruiscono e disciplinano i soggetti. Non ci si oppone al potere solo con lo scontro diretto, perché il potere produce anche i modi in cui pensiamo noi stessi, le nostre identità, perfino i nostri desideri. In questa chiave, il ribelle moderno non è un soggetto fuori dal sistema, ma un prodotto interno al suo funzionamento. Il potere è più efficiente quando ci convince che stiamo scegliendo liberamente, anche quando stiamo semplicemente seguendo nuove regole di distinzione e conformismo alternativo.

L'alternativo è stato assorbito perciò nei meccanismi di potere. Qui Foucault è stato preveggente, con la sua idea di potere come forza produttiva e non solo repressiva. I due testi chiave per capire questo passaggio sono Sorvegliare e punire e La volontà di sapere, usciti attorno alla metà degli anni ‘70. La struttura di potere, da espressione di tipo "impositivo" e repressivo, del tipo ti dico cosa NON devi fare, diventa produttiva e positiva: ti permetto di fare tutto ma nel farlo anticipo e incasello la tua libertà. All'inizio della Volontà di sapere Foucault lo dice benissimo: crediamo che i discorsi attorno alla sessualità siano di tipo repressivo, in realtà non si è mai parlato tanto di sesso come in questo periodo. La sessualità non viene repressa ma definita, incasellata e imbrigliata con la proliferazione discorsiva. In modo analogo, ogni produzione di potere comporta una produzione di sapere che, in parallelo, genera effetti di soggettivazione. La triade potere, verità, soggettivazione è la chiave per la lettura a più dimensioni del rapporto tra soggetto e dimensione sociale e discorsiva. L’affermazione della propria unicità o del gesto creativo come elemento di autoaffermazione, in questo senso, non comporta alcun effetto liberatorio nel momento in cui si inserisce pienamente nella forma di produzione di soggettività del neoliberismo contemporaneo.

Non a caso, lo dice bene il filosofo coreano-tedesco Byung Chul-Han, il rapporto con il presente e con il capitalismo sembra essere un elenco di patologie che riguardano l’apparente libertà e l’ingiunzione alla performance. Depressi, infartuati, iperattivi, stanchi. Modi diversi di star male ma tutti caratterizzati da un importante elemento comune: non sono meccanismi immunologici (la malattia viene dall’esterno) ma autoimmuni (è l’eccesso di positività che ci pone in rapporto conflittuale con noi stessi). E questo si sposa all’effetto di perdita di realtà che ci fa entrare in un mondo sempre più liscio e privo di asperità, quindi sempre più incapace di fornire dei punti di riferimento solidi.

L'altro lato di tutto questo, ma è un lato a cui si arriva attraversando con lucidità i discorsi che abbiamo provato a far entrare in risonanza, consiste nel capire in che modo si possono costruire pratiche capaci di creare, a fronte di queste dinamiche pervasive, momenti di resistenza che non possono essere che momenti di “contro-soggettivazione”. Si tratterebbe però di costruire innanzitutto le forme linguistiche per articolare il discorso alternativo. Facendo i conti con il passato, sapendo che l’archivio è esploso ma investendo sulla relazione critica con i discorsi che ci hanno preceduto: il segno non dovrebbe essere assunto ma criticato e, attraverso la critica, riportato su un altro piano. Ad esempio, e qui è interessante riprendere alcune considerazioni che Pier Aldo Rovatti svolge proprio a partire dal confronto con Foucault: una strada per il soggetto contemporaneo potrebbe essere quella di proporsi non come portatore di uno stile di vita identificabile, ma come forma di “simulazione” che si oppone, falsificandoli, ai meccanismi di assoggettamento. Tra l’identificazione e la scomparsa del soggetto una terza strada potrebbe essere quella che consiste nel creare sempre discorsi differenti su di sé.

Alla luce di queste riflessioni, il messaggio di The Rebel Sell diventa ancora più potente. È un invito a riconoscere le illusioni che ci rassicurano – l’illusione di essere diversi, consapevoli, liberi – e a fare i conti con la complessità del reale. In un’epoca in cui le democrazie si svuotano e le autarchie si rafforzano, la ribellione estetica non basta. Serve una forma nuova di razionalismo politico, un ritorno alla critica istituzionale, alla pratica democratica, al pensiero articolato.

Serve, in altre parole, una nuova consapevolezza che unisce l’analisi culturale con l’azione politica, la denuncia simbolica con la riforma concreta.

Bibliografia essenziale

  • J. Heath, A. Potter, The Rebel Sell: Why the Culture Can’t Be Jammed, HarperCollins Canada, Toronto 2004. [Inedito in italiano]

  • Wu Ming 1, La Q di complotto, Edizioni Alegre, Roma 2021.

  • N. Klein, Naomi. No Logo: Taking Aim at the Brand Bullies, Knopf Canada, 1999.

  • Lévi-Strauss, Claude. Antropologia strutturale (1958). Il saggiatore, Milano 2015.

  • J.G. Frazer, Il ramo d’oro (1890), Adelphi, Milano 1990.

  • M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1975), Einaudi, Torino 2014.

  • M. Foucault, La volontà di sapere (1976), Feltrinelli, Milano 2013.

  • P. A. Rovatti, Foucault, Feltrinelli, Milano 2024.

  • H. Marcuse, L’uomo a una dimensione (1969). Einaudi, Torino 1999.

  • G. Debord, La società dello spettacolo (1967), Baldini e Castoldi, Milano 2008.

  • M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare (1965), Einaudi, Torino 2001.

1Joseph Heath; Andrew Potter, The Rebel Sell. Why the Culture Can't be Jammed, HarperCollins, Canada, 2004.

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Pubblicato il 05 maggio 2025

Nicola Gaiarin

Nicola Gaiarin / HR & Strategic Development Consultant | nel board di DOF Consulting

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