Accade qualcosa di insolito quando si incontra un animale selvatico in silenzio, senza barriere. Si attiva un’attenzione diversa, una vigilanza lucida, una sospensione delle abitudini interpretative. L’osservazione non è più solo un atto ottico, ma un’interazione che coinvolge l’intero sistema percettivo. Si entra in un campo di relazione dove il linguaggio è assente, ma l’informazione è densa.
Questo tipo di attenzione è sorprendentemente affine a quella che richiede la conoscenza organizzativa quando si manifesta in contesti reali. Non si tratta di estrarre nozioni da una banca dati, ma di saper cogliere segnali deboli, leggere tra le righe delle pratiche operative, riconoscere schemi ricorrenti in situazioni non formalizzate. Il sapere che conta, in molte organizzazioni, non si trova nei manuali, ma nell’operatività esperta, nei processi impliciti, nei dettagli che solo l’esperienza sa interpretare.
Proprio come accade nell’arte o nella ricerca sul campo, anche nella gestione della conoscenza il momento cruciale è quello del gesto informato: un’azione che non segue semplicemente un protocollo, ma che integra dati, memoria e contesto. Il tecnico che riconosce un’anomalia non prevista, il progettista che adatta una soluzione senza stravolgere l’impianto, il collega che anticipa un problema prima che emerga: tutti questi esempi parlano di una conoscenza situata, che si attiva in tempo reale grazie a una lunga sedimentazione cognitiva.
Il parallelismo con l’osservazione naturalistica non è estetico ma epistemologico. Nell’ambito dello studio del comportamento animale, la capacità di cogliere segnali significativi in ambienti dinamici dipende da una forma di conoscenza non riducibile a formule astratte. Allo stesso modo, nelle organizzazioni complesse, i sistemi informativi devono affiancarsi a un’intelligenza distribuita, capace di valorizzare il contesto, la sensibilità operativa, la capacità di correlazione.
Parlare di gestione della conoscenza, oggi, significa quindi ripensare anche l’ecologia dell’attenzione.
Parlare di gestione della conoscenza, oggi, significa quindi ripensare anche l’ecologia dell’attenzione. Le informazioni non mancano. Mancano ambienti che favoriscano l’emergere della competenza tacita, che riconoscano il valore delle domande, dei tentativi, delle deviazioni. Che non cerchino solo la replicabilità, ma anche la comprensione profonda dei fenomeni.
In questo senso, la conoscenza va trattata più come un sistema vivente che come un archivio. Non basta conservarla: occorre metterla in condizione di evolvere, adattarsi, rispondere. E questo è possibile solo se si coltiva un tipo di osservazione attiva, affine a quella dello zoologo sul campo o dell’ingegnere in fase di test: uno sguardo che sa quando intervenire e quando aspettare, quando consolidare e quando ripensare.