“Le nostre tecnologie si sono sviluppate più velocemente della nostra capacità, come società, di capirle. Adesso dobbiamo rimetterci in pari” - – Ioi Ito
“Gli oggetti nello specchio retrovisore sono più vicini di quanto non appaiano”
“Un bambino corre per la strada mentre passa un camion. Guardi sgomento e ti rendi conto che il camion non può rallentare per tempo. Pensi di dover salvare il bambino, ma non ne sei sicuro. Eppure, la situazione ti obbliga ad agire: ti precipiti, afferri il bambino e lo strappi dalla strada appena in tempo. Proprio quando il camion sta quasi per investirvi, prima inciampi, poi riesci a saltare al sicuro. Il bambino è salvo. Non hai idea del perché hai appena fatto quello che hai fatto: l’hai fatto e basta.” - -Iperprogetti, Timothy Morton
Il tempo tecnologico è viscoso e agitato
Il tempo senza tempo tecnologico non facilita scelte ottimali perché è compresso, trascina tutti nei suoi vortici elicoidali, imprigionandoli in sabbie mobili, virtuali ma pur sempre tissotropiche e capaci di trattenere chiunque vi sia finito dentro. Impedisce il confronto con le esperienze passate, con le regole che le hanno dettate e i contenuti della memoria che richiamano il passato.
Il tempo continuo tecnologico si basa sulla disponibilità immediata di dati, si spazientisce per la lentezza di contenitori di memoria come quelli umani (non ancora scaricati nel Cloud Computing e diversi dai Big Data). Un tipo di memoria percepita ormai come troppo lenta e inadeguata a soddisfare i bisogni impellenti che guidano le azioni individuali dell’era tecnologica. Questo tempo mediale, digitale e online si è trasformato “in un tempo che si agita disorientato” e che impedisce “alcuna esperienza di durata” (Byung-Chul Han, Il profumo del tempo). L’esperienza da far durare non è quella della connessione ma della relazione, contestualizzata e legata a un ambiente fisico, familiare e sociale.
Nel tempo agitato il disorientamento è anche nostro. Nasce dall’essere sempre in movimento, vigili a ogni segnale percepito come potenzialmente aggressivo, spinti a correre come se fossimo animali braccati in fuga. Percepiamo di essere diventati trasparenti, effimeri e transitori come lo sono i profili digitali, che Facebook può sempre decidere di mandare nelle catacombe o cancellare. La cancellazione di un account, l’indisponibilità temporanea di WhatsApp o della connessione Wi-Fi, l’assenza di energia elettrica possono però diventare l’occasione per prendersi una pausa e una boccata d’aria, fuori dalla bolla tecnologica ossigenata artificialmente. La scoperta del fluire lento del tempo reale presente, può portare alla decisione di farlo durare per riscoprire la fisicità del corpo, le sensazioni e le emozioni che riempiono di significati la vita relazionale del mondo reale. Può aiutare a non appiattirlo, a dilatarlo per riscoprire e far riemergere il passato con cui è interallacciato, mantenendo le porte aperte a scenari futuri, mai prevedibili ma sempre possibili.
La scoperta del fluire lento del tempo reale presente, può portare alla decisione di farlo durare per riscoprire la fisicità del corpo, le sensazioni e le emozioni che riempiono di significati la vita relazionale del mondo reale
L’illusione del tempo presente
I media digitali “in apparenza promettono ai loro utenti di poter beneficiare della simultaneità e dell’immediatezza ma, in realtà, poiché mutano costantemente, essi li proiettano inevitabilmente in una dimensione che è quella del già avvenuto” (Vanni Codeluppi in Il tramonto della realtà). La sequenza è tanto rapida che ogni gesto si atrofizza trasformando il suo presente in immediato passato.
Dotati di potenti strumenti tecnologici molti[1] credono di controllare il tempo ma in realtà ne sono dominati. Il tempo continua a sfuggire determinando la sequenza accelerata di eventi che regalano l’impressione di essere in ogni attimo sempre presenti, anche se in realtà si è assenti. Per rompere questa sequenza di presentismo ingannevole sarebbe necessario decidere di (sof)fermarsi, di vivere in modo diverso ogni attimo mettendoci cuore e mente, emozioni e riflessioni, svegliandosi dal sonno ipnotico tecnologico, in modo da poter scoprire e incontrare le cose che stanno intorno nella loro vitalità, imprevedibilità, e capacità di costruire narrazioni che durano nel tempo (questi argomenti sono trattati anche nel mio e-book E guardo il mondo da un display).
La realtà digitale si scompone in tanti eventi, attimi, scatti e messaggi che si susseguono a ritmi così elevati da non essere neppure percepiti nella loro intensità e capacità di fare da filtro verso la realtà attuale. Una realtà che spesso non ha alcun bisogno di essere aumentata ma chiede solo di essere interpretata, sentita e vissuta per quello che è. Il filtro agisce nella forma di una fotocamera di smartphone che registra tutto prima ancora che possa essere colto dagli occhi o riuscire a sorprendere e a catturare la vista, facendo dimenticare lo scatto e l’autoscatto.
Lo scatto serve per proteggersi, consolidare l’autoinganno tecnologico, accondiscendere pigramente alla comodità tecnologica e a non lasciarsi prendere alla sprovvista dalle emozioni che possono nascere spontanee da esperienze umane, non filtrate dalla tecnologia. È un comportamento che impedisce di cogliere lo sguardo di un bambino tibetano o le bellezze conturbanti della Fontana di Trevi e di Piazza San Marco, di abbracciare i panorami desolati della Mongolia e quelli lunari della maestosa Islanda o della selvaggia e inospitale Patagonia. “Scattare, prendere una foto è come afferrare un appiglio, una maniglia, per non lasciarsi scuotere” scrive François Jullien nel suo libro Essere o vivere. Lo scatto, il cinguettio, il MiPiace repentino, il commento a un post di Facebook sono vissuti nella loro immediatezza e in velocità ma il gesto tradisce l’inganno che li caratterizza.
L’immediatezza si traduce in registrazione, si scatta per poter riguardare le foto nei giorni che verranno, si cinguetta per vedere l’effetto che fa, si regala un MiPiace nella speranza di ottenerne altrettanti. Infine, si continuano a caricare immagini su Instagram e Pinterest per farsi ricordare e durare come a volte dura un album fotografico personale o familiare.
Immediatezza come registrazione
Il paradosso e l’illusorietà dell’immediatezza non cambia in ogni caso la percezione del tempo e i comportamenti dei frequentatori dei social network, impegnati ossessivamente a tenere il passo con i cambiamenti di stato dei loro contatti, a comunicare i propri e a rimanere aggiornati su tutti i messaggi che viaggiano in Rete. Non cambia neppure quando ne derivano disturbi temporali, perdita dell’autocontrollo, ansie, sofferenze e frustrazioni che dovrebbero suggerire comportamenti diversi, per ritrovare ad esempio la lentezza tipica del cervello umano, fatta anche di capacità selettiva e voglia/necessità di dimenticare.
Indaffarati nell’inseguire la concatenazione infinita di eventi digitali, come se la vita fosse solo una sequenza di eventi, ci si dimentica facilmente che l’abbondanza, anche quella dell’informazione, non determina necessariamente una vita realizzata e felice. La felicità potrebbe al contrario nascere dalla decisione di spezzare la sequenza costante degli eventi digitali, di rigettare l’impazienza tecnologica del click, operando una scelta che riesca a arginare il flusso del tempo digitale. Dando forma, consistenza e realtà a un presente reale, attuale, di qualità, con un semplice atto di volontà e una scelta.
l’abbondanza, anche quella dell’informazione, non determina necessariamente una vita realizzata e felice
Abitando da tempo mondi paralleli il confronto con la vita si svolge su piani diversi. Liberandosi dall’ingerenza di entità esterne come algoritmi, protesi tecnologiche e piattaforme software ci si può misurare con ciò che è inatteso e inaspettato, è possibile dare corpo alle proprie visioni del mondo, seguire le proprie percezioni in modo creativo, e sviluppare la propria immaginazione. Lo si può fare “recuperando la capacità di sentire al di là dei media […] per comprendere ciò che stiamo facendo […] e imparare a vedere le conseguenze del nostro fare, per potercene assumere più pienamente la responsabilità” (Francesco Morace in Società Felici – La morte del post-moderno e il ritorno dei grandi valori).
Secondo alcuni filosofi contemporanei, il tempo tecnologico non è compresso o annichilente ma generativo, capace di cogliere elementi di realtà, altrimenti non percepibili dagli esseri umani. Una capacità determinata dall’uso di sensori e codice software che riescono a catturare in anticipo dati inaccessibili alla percezione umana per poi usarli “per costruire futuro”, in termini di nuove esperienze possibili di cui noi possiamo avere consapevolezza e coscienza. In questo senso, scrive Cosimo Accoto “il tempo diventa una dimensione rilevante nel processo di estrazione di valore che viene operato grazie a un sistema che sfrutta lo scostamento tra microtemporalità, sensibilità macchinica e coscienza umana”.
Questo approccio che sembra confermare, sostituendo sensori tecnologici ai neuroni, gli esperimenti di Libet e di altri neurologi sulla dinamica anticipatoria dell’apparato neuronale sulla coscienza di un evento, si basa sull’idea che tutto possa essere programmato, codificato e modulato. In qualche modo anticipato da sensori e algoritmi che intervengono nel determinare il tempo reale percepito dalla coscienza e i dati che la attivano. La riflessione filosofica sul tema è interessante e inquietante come lo erano i Precog, immersi nelle loro vasche di deprivazione sensoriale, del film di Spielberg, Minority Report.
Le precognizioni dei tre Precog (antenati dei moderni algoritmi, sensori?) erano certamente utili per l’ispettore John Anderton (Tom Cruise) meno per loro stessi e per la loro dolorosa semi-inconscia esistenza. Le anticipazioni dei sensori possono sicuramente tornare utili per chi analizza i dati della videosorveglianza diffusa ai tempi della trasparenza assoluta e della sparizione della privacy, ma continueranno a essere percepite come frammentarie, insufficienti, incomplete e semplici interpretazioni da chi le vorrebbe usare per la propria ricostruzione della verità e i processi decisionali che servono per compierla. I flash che arrivano dal futuro, in forma di anticipazione, possono dilatare, aumentare, moltiplicare il tempo ma non riusciranno a mutarne la percezione del suo fluire nella vita mentale dell’individuo.
Il tempo non è necessariamente quantitativo, programmabile e calcolabile, può essere dilatato anche in modi diversi, rallentandone lo scorrere e prolungandone la durata. Ciò che conta, come diceva Bergson, è la singola coscienza per la quale il tempo non ha estensione, non è divisibile o misurabile, ma è qualitativo e filtrato dell’emotività. Una esperienza di libertà, in un flusso costante di coscienza, una sfilata di sfumature (“Un’ora, non è solo un’ora, è un vaso colmo di profumi, di suoni, di progetti, di climi”), resa possibile dalla memoria umana che accumula in un continuum stratificato i ricordi. Il tempo tecnologico è un susseguirsi di istanti, un orologio dalla progressione regolare, il tempo qualitativo di Bergson è un gomitolo o una valanga che continuano a crescere su sé stessi.
Il recupero della lentezza
Rinunciare al tempo programmato digitale, sempre più determinato dal presentismo e dagli automatismi di sensori vari che si sostituiscono ai sensi, recuperare la lentezza, è un modo per investire sul tempo qualitativo, lasciarsi guidare dalle emozioni e agire il processo decisionale, recuperare le conoscenze che servono per demistificare i messaggi (il ciò che è vero o ciò che è falso delle fake news, del deepfaking[2], ecc.) le credenze, i pregiudizi e le convenzioni della Rete che governano il nostro pensiero determinando le nostre decisioni. Nel ritmo lento la conoscenza può nascere anche dalla frequentazione di spazi acculturati diversi da quelli di Wikipedia, ad esempio quelli della letteratura scientifica, dei libri e delle pubblicazioni editoriali.
La lentezza temporale denota pazienza e parsimonia nell’uso del tempo. Aiuta a maturare punti di vista personali, utili a valutare e confrontare le varie opzioni di scelta possibili, prima di prendere una decisione. Impedisce di saltare sempre alle conclusioni, affidandosi a quello che si vede (sul display) come se fosse l’unica verità possibile, e permette di elaborare una propria riflessione critica della realtà o dell’evento presi in esame.
Una riflessione che deve portare a una qualche forma di azione, dopo avere elaborato una scelta, meglio se creativa, anticonformista e disobbediente. Un modo per contribuire positivamente allo sviluppo di realtà tecnologiche come quelle attuali, organizzate come sistemi complessi e nelle quali ogni individuo può dare un suo contributo personale in base alle informazioni esclusive di cui dispone o alle sue scelte.
Deleghe in bianco e scelte fuori dal coro
Delegare alla macchina (Big Data, Cloud Computing, APP, IA, IoT, sensori e piattaforme) la propria memoria e il suo utilizzo per fare delle scelte, significa affidarsi alle verità dei media tecnologici, rinunciando alla propria immaginazione e intuizione, alla capacità di sbagliare (learning by doing, il valore dell’errore nel processo di apprendimento di Popper), anticamera della creatività. Ritirando la delega tecnologica si può trarre vantaggio dal passato conservato nella memoria aprendosi a infinite possibilità: ritornare a interpretare la realtà in modo soggettivo, decidere di trasformarla, tornando a essere umani, senza ricorrere ad algoritmi che facciano da bussola di orientamento statistico o mappe per raggiungere mete e destinazioni che non sempre coincidono con il territorio.
Scegliere al di fuori del coro può sembrare irragionevole, percepibile come frutto di una riflessione critica e della decisione di abbandonare le tante maggioranze e reti di contatti frequentate online. Può essere confuso con la disobbedienza, la volontà di ribellarsi al conformismo dei tanti ‘ragionevoli’ che si adattano al mondo, oggi tecnologico e governato dalle connessioni Internet e social. Ma il progresso, lo sviluppo, il cambiamento e l’innovazione, come ha scritto Bernard Show in Massime per rivoluzionari, sono opera di uomini irragionevoli.
All’apparenza irragionevole, anzi un poco matta, è anche Alice che, nel Paese delle meraviglie, chiede al Gatto informazioni sul percorso da intraprendere ricevendo semplicemente la conferma che per andare in posti sconosciuti non serve conoscere la strada ma semplicemente mettersi in cammino. Eventualmente rinunciando al GPS e alla ubiquità dello smartphone, alle Realtà Aumentate delle APP e alle mappe di Google Maps. Scegliendo al contrario bussole di qualità, capaci di navigare il caos e portare sempre dove si vuole andare, aprendo nuove prospettive attraverso itinerari alternativi, aperti alla sperimentazione, che potrebbero riservare sorprese, nuovi incontri e la scoperta di tesori inaspettati, anche in forma di legami.
***
“Vorresti dirmi per dove debbo andare?”
“Dipende molto dal luogo dove vuoi andare”, rispose il Ghignagatto
“Poco m’importa dove...”, disse Alice
“Allora poco importa sapere per dove devi andare”, soggiunse il Ghignagatto
“… purché giunga in qualche parte”, riprese Alice come per spiegarsi meglio
“Oh certo vi giungerai!”, disse il Gatto, “non hai che da camminare”.
Alice sentì che quegli aveva ragione e tentò un’altra domanda.
“Che razza di gente c’è in questi dintorni?”
“Da questa parte,” rispose il Gatto, facendo un cenno con la zampa destra, “abita un Cappellaio; e da questa parte”, indicando con l’altra zampa”, abita una Lepre di marzo. Visita l’uno o l’altra, sono tutt’e due matti.”
“Ma io non voglio andare fra i matti”, osservò Alice.
“Oh, non ne puoi fare a meno”, disse il Gatto”, qui siamo tutti matti. Io sono matto, tu sei matta.
“Come sai che io sia matta?”, domandò Alice.
“Tu sei matta”, disse il Gatto, “altrimenti non saresti venuta qui”.
Non parve una ragione sufficiente ad Alice, ma pure continuò:
“E come sai che tu sei matto?”
“Intanto”, disse il Gatto, “un cane non è matto. Lo ammetti?”
“Ammettiamolo”, rispose Alice.
“Bene”, continuò il Gatto, “un cane brontola quando è in collera, e agita la coda quando è contento. Ora io brontolo quando sono contento ed agito la coda quando sono triste”.
Dunque, sono matto.
***
Scegliendo la lentezza, per trovare il tempo di riflettere (imparare a pensare, ripensare, ritornare sul proprio conoscere) e porsi delle domande, si fa una scelta giusta per sé stessi ma anche per gli altri. La lentezza è conviviale, sobria e umana. Con essa si contribuisce all’evoluzione del sistema mondo tecnologico attuale, rafforzandolo come fa ogni virus con il sistema immunitario. La critica che nasce dal mettere in discussione la realtà degli algoritmi e delle piattaforme social ne favorisce l’evoluzione e l’adattamento, l’innovazione e la flessibilità, la creatività e la salute.
Come ha scritto Alexander Langer “[…] la nostra civiltà ha bisogno di disarmare e digiunare, altrimenti rompe ogni equilibrio […] Il pretenzioso motto del <citius altius fortius> (più veloce, più alto, più forte) che contiene la quintessenza della nostra cultura della competizione, dovrà urgentemente convertirsi al più modesto, ma più vitale <lentius profundius suavius> (più lento, più profondo, più dolce.”[3]
Scegliendo la lentezza, per trovare il tempo di riflettere (imparare a pensare, ripensare, ritornare sul proprio conoscere) e porsi delle domande, si fa una scelta giusta per sé stessi ma anche per gli altri.
Potenza, vitalità e velocità delle immagini
Il presente segnato dalla velocità lo è anche dal potere incommensurabile assunto da tutto ciò che si riferisce all’immagine, alla visibilità e alla visione. Ogni minuto sulla Rete vengono caricati centinaia di nuovi video, milioni vengono condivisi, inviati e visualizzati, insieme a fumetti e animazioni, fotografie (mille miliardi quelle digitali nel lontano 2014) e immagini. Il consumo di questi oggetti/soggetti avviene in velocità, dettato anch’esso dalla bulimia monotona che genera urgenza, ricerca di visibilità e dipendenza. Determinato anche dalla potenza seduttiva delle immagini, dotate di forza propria, bisogni e desideri che fanno da traino alla loro viralità e rapida diffusione.
La disponibilità di mezzi tecnologici come gli smartphone ci facilitano la riproduzione del mondo, che conosciamo e trasformiamo in immagini e racconti video-filmati, il nostro modo corrente per interpretare e capire le molteplici realtà che frequentiamo. Messi in circolazione e distribuiti sulle piattaforme digitali, i vari manufatti visuali reclamano velocità ed esposizione più che una decodifica o interpretazione, tanto meno una critica o distruzione. Il risultato è una cecità crescente, nei confronti delle miriadi di immagini che determinano un surplus visuale, capace di uccidere in fasce la loro vitalità e forza, spesso con la semplice gestualità di un click o di uno swipe sul display di uno schermo.
Le tecnologie visive hanno cambiato il nostro modo di vedere, entrando in simbiosi con l’apprendimento che facciamo nell’utilizzo dei nostri occhi. La nostra percezione visiva è migliorata grazie al tempo che passiamo su schermi illuminati a navigare, socializzare e videogiocare. Il cambiamento in meglio si traduce in capacità multitasking, anche visive quando si frequentano contemporaneamente più canali digitali su uno stesso schermo o su più schermi, e nel miglioramento nell’utilizzo dei numerosi oggetti e ambienti visuali oggi disponibili. Il tutto ha effetti importanti sul nostro cervello che è poi il vero organo della vista. Quello che ci permette di capire gli oggetti e le immagini che scorrono davanti agli occhi, collegandole a ciò che esso già conosce, ha visto e sperimentato nel passato.
Le ricerche scientifiche e le tecnologie di neuro-imaging correnti hanno permesso di comprendere meglio la complessità della visione e le aree del cervello in essa coinvolte. Permettono di capire quanto le molteplici esperienze tecnologiche e digitali che caratterizzano la vita di questi tempi abbiano modificato il funzionamento del cervello, nella produzione dell’immagine, nella sua elaborazione in parallelo e nella gestione di tutti i circuiti di feedback che danno forma alla visione finale (“[…] per vedere non guardiamo neppure […] ora sappiamo che ciò che definivamo abitualmente un’immagine è il risultato di un calcolo simile a quello di un computer, operato però all’interno del nostro cervello” – Come vedere il mondo di Nicholas Mirzoeff).
L’evoluzione della visione nel tempo è un’altra grande conquista dell’umanità fatta di trasformazioni, innovazioni (pittura, fotografia, cinema, microscopia, telescopia, ecc.) e costanti cambiamenti.
L’avvento delle nuove tecnologie ha determinato una rivoluzione senza precedenti della visione e delle immagini, che ci obbliga a una riflessione su ciò che l’immagine attuale è diventata e sul suo ruolo nel determinare la realtà del visibile e dell’invisibile, del reale e dell’irreale. Sempre più il semplice prodotto di una macchina (il sensore digitale di una macchina fotografica), l’immagine è il risultato del calcolo di un algoritmo, un oggetto che ci permette di guardare il mondo in modi che non potremmo mai sperimentare attraverso gli occhi. Le immagini digitali possono essere modificate (i filtri di applicazioni come Instagram), alterate e manipolate facilmente, diventano filtri potenti di interpretazione della realtà. Anche quando nascono nella forma di un autoscatto, usato da molti per rappresentare sé stessi in momenti emotivi o esistenziali particolari della loro vita quotidiana.
Analizzare e interrogarsi sui selfie non deve servire a negarne o esaltarne la validità ma a valutare un fenomeno nuovo, pervasivo, praticato in maggioranza da individui di genere femminile e che evidenzia l’ibridazione in corso tra corpo umano e macchina digitale. I corpi dell’autoscatto diventano parte della Rete muovendosi in essa con vita autonoma. Da un lato il mezzo tecnologico fa da filtro alla realtà, dall’altra il prodotto del filtro diventa protagonista di molte conversazioni e attività sociali online. Con conseguenze non facilmente prevedibili, anche per la capacità mnemonica della Rete e la sua viralità. Una immagine che ci riprende in pose sconvenienti (vedi il fenomeno del Revenge Porn, oggetto anche in Italia di cronaca e discussione politica) o una fotografia stupida possono rimanere online per sempre rovinando reputazione e credibilità e, in alcuni casi, essere anche causa di licenziamenti aziendali o della rovina di personaggi politici e pubblici. Ciò non impedisce comunque il ricorso all’immagine come al mezzo preferenziale che molti utilizzano per comunicare, socializzare e conversare.
La componente visuale di interazione con il mondo, con la sua percezione globale delle cose che le abbraccia contemporaneamente, prevale sempre più su quella lineare e sequenziale tipica dei fenomeni umani che coinvolgono anche il tatto, l’udito e gli altri sensi (i suoni ci arrivano uno dopo l’altro, così come gli stimoli tattili). Ne deriva una visione frammentata, in costante rielaborazione, sperimentata attraverso applicazioni come Instagram che trasformano tutto in immagine, compresi coloro che le creano (ad esempio con i selfie) e le condividono. La comunicazione dei social network sembra far scomparire tempo e distanza. Non riesce però a eliminare gli ostacoli che la loro assenza provocano nel rendere più difficoltoso e oscuro il linguaggio, più complicata la comprensione delle parole e dei loro significati.
Lo scambio relazionale in assenza di tempo e di spazio rende più difficile il capirsi così come il raccontarsi. L’identità si costruisce nella relazione con gli altri. Se questa relazione è benefica, i risultati possono essere positivi, se non lo è si possono creare deficit importanti che impediscono uno sviluppo psicobiologico sano. Rapporti che non funzionano mettono in discussione l’identità dell’individuo, tolgono il terreno sotto i piedi e obbligano a fare i conti con i propri limiti.
Il tempo dimenticato
Secondo l’antropologo ed etnologo Marc Augè “Viviamo in un’epoca che afferma l’ideologia del presente, dove il passato diventa spettacolo, mentre nessuno parla più del futuro e tanto meno lo può prevedere.” Una vita vissuta nell’attimo presente e dentro le cornici di immagini è una vita immobile (pensate ai quadri appesi alle pareti della scuola di Hogwarts nei quali i personaggi si agitano senza riuscire ad abbandonare la cornice), scandita dal flusso di messaggini, immagini e cinguettii, il cui consumo costante e continuativo nel tempo ci da la sensazione di essere praticamente fermi. Fermi come potrebbero essere i momenti di tempo che, precipitando dentro un buco nero nel quale tutte le dimensioni si incurvano e precipitano su sé stesse fino ad annullarsi, acquisiscono una densità tale da diventare indistinguibili, poco raggiungibili e invivibili.
Buchi neri dai quali si è attratti sempre di più, che ricordano i non-luoghi di Marc Augè, spazi che sembrano privi di riferimenti identitari (identità che nasce dal riconoscersi in essi), relazionali (possibilità di riconoscere le relazioni interpersonali esistenti) e storici (i riferimenti a tracce del passato). La definizione usata dallo studioso francese può essere usata come metafora e strumento, utili entrambi per analizzare le molteplici realtà ed esperienze di vita che caratterizzano la vita quotidiana di persone sempre connesse e costantemente davanti a uno schermo. Persone impegnate in attività che impediscono le sole relazioni che potrebbero permettere di mettersi in discussione, di riflettere sulla propria condizione esistenziale, spesso oggi caratterizzata da tanta solitudine e nuove forme di schiavitù.
Velocità, tempo reale e componente visiva. Tre concetti che ben descrivono il potere dell’immagine esercitato grazie alla velocità degli strumenti tecnologici che la veicolano e alla sua capacità virale di proliferare moltiplicandosi. È un’immagine che sostituisce la persona in carne e ossa, sia da una parte sia dall’altra parte dello schermo. È trasparente ma semplice apparenza. Dietro di sé, non cela altro che il vuoto. La sua forza sta tutta nella sua carica potenziale nel determinare la realtà di molte persone che, incapaci di affrontare la realtà delle cose, preferiscono accomodarsi e proteggersi dietro il display che riflette e trasmette la loro immagine.
Ripiegate su sé stesse finiscono per accettare che la loro identità sia semplicemente un riflesso, un’immagine, espressa da un profilo digitale online, dalle tante immagini che lo caratterizzano, gli danno una forma visibile e una personalità (esisto in quanto e da quante volte sono visto). Nel rapporto che si instaura tra persona reale al di qua dello schermo e immagine digitale, a dominare la scena è la seconda. L’unica entità che in rete viene percepita come detentrice e generatrice di valore. In questo modo entra però in crisi la prima forma di relazione che ci caratterizza come esseri umani, quella con sé stessi, fondamentale per lo sviluppo psicobiologico sano e per il benessere personale.
Il mondo è prigioniero della velocità, anche visuale, soggiogato dal senso di urgenza che genera un malessere diffuso
Il mondo è prigioniero della velocità, anche visuale, soggiogato dal senso di urgenza che genera un malessere diffuso determinato dall’ansia e dalla paura di prestazione mancata. La velocità è solo percepita, dettata dal surplus informativo a cui siamo sottoposti, così come dal flusso continuo dei canali informativi che generano novità, eventi e avvenimenti, con la stessa forza senza sforzo e la stessa immensa portata (quasi 200 metri cubi al secondo) della cascata islandese di Dettifoss[4]. Una cascata che, come sa ha chi avuto modo di osservarla da vicino, rapisce lo sguardo e domina l’attenzione, attivando un flusso di emozioni che impediscono ogni riflessione razionale o ragionamento.
L’acqua scende veloce e in grande quantità, scorre via velocissima in una fantasmagoria di effetti che sembrano funzionali allo spettacolo naturale messo in scena, così come lo sono tanti spettacoli televisivi o video amatoriali YouTube. Pensare di interrompere il flusso e il tempo scandito dal precipitare violento delle acque è impossibile, come lo è cercare di arginare le innumerevoli informazioni che precipitano gocciolando e percolando dentro e fuori il display di un dispositivo mobile. Le dimensioni sono diverse da Dettifoss ma la portata e il flusso sono altrettanto imponenti, rumorosi e capaci di distrarre da qualsiasi altra cosa. Esattamente quello che succede ad alcuni turisti frettolosi che si perdono gli arcobaleni che fuoriescono dagli spruzzi e dalle colonne di basalto della più bella cascata islandese.
Di fronte al flusso di immagini e di contenuti digitali siamo soli, quasi ciechi, spesso spettatori passivi, semplici consumatori a cui è data la possibilità di scegliere, ma le cui decisioni dipendono in realtà più da elementi esterni che interiori. Più da scelte rapide, contingentate e istantanee che da ragionamento, tempi dilatati e riflessione alla ricerca delle giuste motivazioni e intenzioni.
Nella difficoltà o impossibilità di agire diversamente, non rimane che riflettere sulla propria condizione umana, prendere consapevolezza dello stato di malessere del proprio Sé, dei contesti ambientali e relazionali nei quali si è immersi, soprattutto cercare gli strumenti che possano servire a ritrovare Sé stessi, comprendere e dialogare con gli altri, tentando di dare nuovo senso alle proprie esperienze e alle cose. Evitando di praticare la velocità e senza ricercare la visibilità a tuti i costi.
Chiudendo gli occhi anche solo per una frazione di tempo, in modo da fermarsi, costruirsi visioni che non implicano la vista, che possano far bene allo spirito e alla salute mentale. Rivolgendo lo sguardo alla propria interiorità senza interferenze e distrazioni dalla realtà esterna. Sfruttando la momentanea perdita della vista sul mondo, per pensare, dare forma e linguaggio interiore a ogni pensiero che emerge nella testa, usarlo per riflettere ed elaborare altro pensiero, per rompere gli schemi consolidati e misurarsi con quelli nuovi.
Riaprendo gli occhi per scoprire di essersi rigenerati, di avere molto di più da dire, da esporre, da comunicare e condividere, di essere diventati aperti e disponibili a recepire e sperimentare nuove opinioni, relazioni con altre persone ed esperienze personali, non necessariamente digitali e lontano dalle moltitudini vanitose, credulone e pigre che popolano il mondo online.
Indice del libro
- Osare pensare
- Una riflessione sulla tecnologia è necessaria
- In viaggio
- Qualcosa non funziona più
- Andare oltre la tecnologia
- Un appello per scelte non binarie
- Intelligenze artificiali e umane
- Libertà di scelta come possibilità
- Homo Sapiens: una evoluzione a rischio
- Ruolo e criticità della tecnologia
- Costruire narrazioni diverse
- Menti hackerate e azioni da intraprendere
- Tempi irreali e mondi paralleli
- Mondi virtuali, memi virali e contagiosi
- Il ruolo che dobbiamo esercitare
- In culo alle moltitudini
- πάντα ῥεῖ, tutto scorre
- Il dominio delle macchine
- Media digitali e dimensione umana
- Leggerezza virtuale e pesantezza del reale
- La realtà come gioco
- Il grande inganno
- Mettersi in cammino
- Il tempo tecnologico è viscoso e agitato
- L’illusione del tempo presente
- Immediatezza come registrazione
- Il recupero della lentezza
- Deleghe in bianco e scelte fuori dal coro
- Potenza, vitalità e velocità delle immagini
- Il tempo dimenticato
- Reale e virtuale convivono
- Finzioni digitali e realtà
- Multiverso lento
- Via dalla pazza folla
- Il ruolo delle emozioni
- Emozioni chimiche digitali
- Emozioni algoritmiche
- Macchine intelligenti e assistenti personali
- Emozioni e sofferenza
- Tecnologia strumento di libertà
- Trasformazioni cognitive
- Interazioni uomo-macchina
- Esseri umani o burattini
- Scimmie allevate per consumare
- Internet da spazio libero a mondo chiuso
- Libertà perdute, libertà simulate
- Libertà illusorie
- Scelte binarie e libertà illimitata
- La libertà non fa regali
- Sapere di non sapere
- Strade accidentate e coraggio
- Coltivare gli orti del pensiero
- Pratica del silenzio e tempi lenti
- Metterci la faccia
- Dubitare ora dubitare sempre
- Per dubitare serve una pausa
Gatti, asini e canarini, voliere, acquari e gabbie di vetro
- Comportiamoci da gatti
- Pesci in acquario
- Le voliere di Twitter
- La gabbia è di vetro ma riscaldata
- Cambiare aria
- Mura ciclopiche, barriere e porti chiusi
- La metafora dell’asino
Attraversare la cornice del display
- Oltre la cornice dello schermo
- Contestualizzare la tecnologia
- La potenza delle immagini che ci guardano
- Perdere la vista
- Attenzione distratta
- Algoritmo maggiordomo ruffiano
- Algoritmo invisibile ma non trasparente
- Un algoritmo fintamente autonomo
- L’algoritmo calcolatore
- Ribellarsi all’algoritmo
- Poteri totalitari ma sorridenti
- Fedeltà vado cercando
- Tecnocrazie nichiliste alla ricerca di delega
- Libertà, lavoro e diritti
- Preoccuparsi è meglio che non farlo
- L’esercizio politico della critica
- Le chiese della Silicon Valley
- La politica cinguettante
- Fake news e analisi dei fatti
- Domande, domande, domande
- Dipendenze e rinunce alle dosi quotidiane
- Esercitare l’arte delle domande
- Un elenco di domande possibili
- Le opzioni della scelta
- Difficoltà esistenziale della scelta
- Scelte lenti e consapevoli
- La libertà di scelta online
- Scegliere la gentilezza
- C’è bisogno di amicizia e solidarietà
- Reti di contatti e reti amicali
Note
[1] Moltitudini sono anche quelle dei milioni di server che fanno funzionare le piattaforme tecnologiche. Jaron Lanier le ha chiamate moltitudini di server sirena. Moltitudini come Facebook capaci di avere una influenza diretta sulla vita di miliardi di persone. Moltitudini sconosciute al pubblico con altrettanto potere e pervasività.
[2] Il termine deepfake fa riferimento al deep learning e al fake. È una tecnica per la creazione di immagini false (falsificate) create attraverso sistemi di intelligenza artificiale. Si traduce nella sovraimpressione di immagini e video esistenti in rete ad altre immagini e video con l’obiettivo di creare false immagini. Il risultato è in genere un’immagine con volti e corpi di persone mai coinvolte originariamente nell’immagine o video originali o di persone coinvolte in azioni ed eventi ai quelli non hanno mai partecipato. La pratica di questa tecnica è usata ad esempio per mostrare persone impegnate in atti pornografici con sembianze che non sono le loro ma quelle rubate a personaggi famosi come attrici, politici, ecc. Nel mondo dell’informazione il deepfaking rappresenta una evoluzione della fake news, con risvolti e conseguenze negative facilmente percepibili.
[3] La citazione di Alexander Langer (un portatore di speranza morto suicida ma mai dimenticato) è stata tratta dal libro di Enrico Camanni “Alpi ribelli. Storie di montagna, resistenza e utopia” (Pag. 69).
[4] La Dettifoss è una delle cascate più belle e famose di tutta l'Islanda: è alta solo 44 metri, larga 100, ma ha una portata d'acqua, solitamente dal colore grigio scuro, imponente. Si può ammirare da entrambi i lati del canyon che ha scavato nel corso degli anni della sua esistenza.