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L’articolo esplora il tema della leadership adottando una prospettiva filosofica ispirata alla filosofia della mente e alla teoria della complessità. A partire dalla tradizionale distinzione tra gestione dei compiti e gestione delle relazioni all’interno di un team, il testo riflette sulla natura multidimensionale dell’ambiente organizzativo e sulla necessità di ripensare la figura del leader come regolatore di flussi informativi e relazionali, piuttosto che come semplice decisore. Il dialogo tra neuroscienze cognitive e filosofia della complessità offre l’occasione per interrogarsi su un modello di leadership che non si limiti a imporre ordine, ma sappia navigare la complessità, adottando una forma di controllo selettivo e situato, capace di riconoscere la pluralità dei conflitti e delle dinamiche in atto. Un intreccio tra filosofia, scienza cognitiva e teoria organizzativa.


Quando si parla di leadership, è consuetudine ragionare in termini di leve, strumenti di cui il leader dispone per orientare il comportamento del gruppo e perseguire obiettivi comuni. Tra queste leve, due emergono con particolare evidenza: la leva del compito e la leva della relazione. Semplificando — e ogni semplificazione, come ci insegna Bateson, è al tempo stesso utile e pericolosa — possiamo dire che la leva del compito riguarda la definizione degli obiettivi e l’allocazione delle risorse necessarie per raggiungerli, mentre la leva della relazione attiene alla capacità di leggere, gestire e in alcuni casi orientare le dinamiche interpersonali che inevitabilmente attraversano ogni gruppo umano.

La leva del compito è, per così dire, la più evidente, quella che più facilmente può essere rappresentata in organigrammi, diagrammi di Gantt e procedure operative. È la leva che si muove sul piano della geometria: definire i confini dell’azione, distribuire i ruoli, assicurare la convergenza degli sforzi verso un punto di sintesi. È la logica dell’ingegnere, che disegna ponti e calcola carichi, affinché ogni elemento contribuisca alla stabilità e alla funzionalità dell’intera struttura.

La leva della relazione, invece, appartiene a un’altra famiglia epistemologica. Qui non si tratta di distribuire masse, ma di intercettare tensioni, aspettative, desideri impliciti, paure non dichiarate. È una leva che somiglia più al lavoro del semiologo che a quello dell’ingegnere. Se il compito può essere modellizzato con un algoritmo, la relazione richiede la sensibilità dell’etnografo che osserva la danza delle interazioni, i piccoli rituali quotidiani, i segni minimi attraverso cui il gruppo costruisce la propria identità e i propri equilibri.

Un leader efficace è, da questo punto di vista, un funambolo che si muove su una corda tesa tra la rigidità della funzione e la fluidità della relazione. Sa quando è il momento di fissare regole e quando, invece, è necessario disinnescare tensioni nascenti, modulando la propria presenza e il proprio stile comunicativo. Più collaborativo nei contesti creativi, dove la diversità è risorsa, più direttivo nei momenti di crisi, quando la rapidità della decisione conta più del consenso.

Fin qui, potremmo dire, nulla di particolarmente originale. Eppure, proprio nel rapporto tra compito e relazione si apre una riflessione che ci porta al cuore di una questione filosofica ben più ampia, quella della gestione della complessità nei sistemi viventi. Il leader, esattamente come un individuo immerso in un ambiente denso di stimoli, non si confronta con un flusso lineare di informazioni, ma con un intreccio multidimensionale, in cui segnali di natura differente si sovrappongono, si contraddicono, si annullano a vicenda.

È curioso notare come la maggior parte delle teorie classiche sul controllo cognitivo — e, per estensione, anche sulla leadership — presuppongano un ambiente semplificato, quasi laboratoriale, in cui l’attenzione è chiamata a gestire un unico compito e un’unica fonte di distrazione. Nella realtà, e chiunque abbia lavorato in un’organizzazione lo sa, non c’è mai un solo compito né una sola distrazione. Ogni progetto è attraversato da richieste contraddittorie, aspettative divergenti, pressioni simultanee provenienti da fonti diverse. Il leader naviga in un mare di stimoli disordinati, dove la capacità di discriminare ciò che è rilevante da ciò che non lo è diventa un’arte più che una scienza.

Studi recenti hanno cercato di catturare questa complessità attraverso paradigmi sperimentali più sofisticati, in cui i soggetti sono chiamati a gestire distrazioni provenienti da tre dimensioni indipendenti. I risultati di queste ricerche offrono una chiave di lettura illuminante per chi si occupa di leadership. Di fronte a un ambiente multidimensionale, il controllo cognitivo non si esercita potenziando indiscriminatamente l’attenzione verso ciò che è rilevante, come spesso si è pensato, ma attivando un meccanismo più sottile e sofisticato: la soppressione selettiva delle informazioni irrilevanti. Non è un rafforzamento globale, ma una potatura chirurgica, dimensione per dimensione.

Ancora più interessante è il fatto che questa regolazione sia specifica e non generalizzata. Un conflitto che emerge in una dimensione — poniamo, visiva — modifica la sensibilità attentiva solo rispetto a quella dimensione, senza trasferirsi alle altre. È come se la mente fosse composta da moduli semi-autonomi, ciascuno capace di autoregolarsi sulla base dell’esperienza recente, senza che vi sia un centro di controllo unico che sovrintende all’intero processo.

Questa plasticità selettiva, che è il cuore dei moderni modelli di controllo cognitivo, offre una metafora potente per ripensare la leadership in contesti complessi. Il leader efficace non è colui che impone un modello relazionale e organizzativo uniforme, ma colui che sviluppa una sensibilità selettiva, capace di riconoscere quali sono le dimensioni da potenziare e quali, invece, da silenziare. Ogni relazione, ogni progetto, ogni processo è una dimensione a sé, con proprie logiche e proprie tensioni interne. Non esiste una struttura unica, valida sempre e ovunque, ma una serie di micro-strutture adattive, continuamente negoziate in funzione del contesto.

In questa prospettiva, la leadership diventa un’arte combinatoria, un esercizio di attenzione selettiva applicata all’ambiente sociale. Il leader è colui che ascolta più di quanto parli, osserva più di quanto decida, sopprime più di quanto potenzi. È un direttore d’orchestra che non suona alcuno strumento, ma decide quando e come ogni sezione deve emergere o ritirarsi sullo sfondo. È, in ultima analisi, un filosofo della complessità applicata, capace di riconoscere nel caos apparente la trama invisibile di una razionalità situata, mai definitiva.

Forse, alla fine, la lezione più importante che possiamo trarre da questa riflessione è che la leadership, proprio come la conoscenza, non è mai un possesso, ma sempre una pratica. Non si possiede un metodo, si esercita un’attenzione. Non si detiene un potere, si abita uno spazio di ascolto. Non si impone un ordine, si danza con la complessità. È, in fondo, la stessa differenza che passa tra il governare e il navigare.


Bibliografia

The Leader Ship. La vera storia di un capitano capace di distribuire l’autorità al suo equipaggio

Pubblicato il 01 marzo 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / “omnia mea mecum porto”: il vero valore risiede nell’esperienza e nella conoscenza che portiamo con noi