Immaginate un’accessibilità e un entusiasmo nuovi, che possano
schiodare la narcosi da video che oggi incombe sul Paese come una cappa di nebbia.
Immaginate una nuova cultura libertaria dove spiegazioni alternative permettono
a chiunque di scegliere l’approccio e il tracciato a lui più confacente;
dove le idee siano accessibili e interessanti per chiunque, così che l’esperienza umana
possa godere di una nuova libertà e di una nuova ricchezza;
immaginate una rinascita della letteratura.
Ted H. Nelson, Literary Machines, 19811
Esdra
“Il primo giorno del settimo mese, il sacerdote Esdra, portata la Legge davanti alla moltitudine degli uomini, delle donne e di tutti quelli che erano in grado di intendere, sulla piazza davanti alla Porta delle Acque, lesse nel libro dal mattino fino a mezzogiorno”.
“Esdra, lo scriba, stava ritto sopra una tribuna di legno preparata apposta per la circostanza, e accanto a lui stavano in piedi, alla sua destra, Mattatia, Sema, Anaia, Uria, Elkia, Maaseia; a sinistra Fadaia, Misael, Malchia, Asun, Asbaddana, Zaccaria e Mesullam. Esdra aperse il libro davanti a tutto il popolo, perché stando più in alto dominava la folla”.2
La fonte biblica, il libro di Neemia, incide indelebilmente nella nostra mente questa scena: Esdra, il sacerdote, il 'commissario ecclesiastico di Gerusalemme', ritornato dall'esilio a Babilionia, in alto sul palco; accanto a lui schierati i rappresentanti del potere temporale. Nell'esilio Esdra aveva riscritto a suo modo la Parola, il vecchio Libro della legge, espungendo, sottolineando, censurando. Ora la folla lo ascolta. Lui parla come se possedesse la verità. Il popolo conosceva la propria storia, la conosceva a memoria. Non solo l’aveva vissuta, ma l'aveva creata in quanto opera letteraria, storia orale. Ma ora di questa storia, espropriata, conta solo la versione ufficiale, ri-scritta e poi letta dall'alto dal sacerdote.3
E' l'inizio dell'ortodossia rabbinica. Il luogo esemplare dove vediamo una volta per tutte in azione quella figura sociale che modernamente ci siamo abituati a chiamare 'intellettuale', ‘intellettuale di professione’. Una figura che, rileggendo la storia ed osservando il presente, vediamo apparire in ogni dove, in mille sfaccettature diverse – ma sempre con un univoco atteggiamento di potere, una univoca forma di hybris. È il sacerdote, ma anche il missionario; l’autore, ma anche l’interprete ed il censore. È, ancora, il manager, l’organizzatore, il consulente. È l’‘esperto legittimato’. Colui al quale è stato attribuito, o che si è arrogato, il compito di ‘far prendere coscienza agli altri’ di ciò che gli altri vivono quotidianamente. In base all’ipotesi che questo eletto Terzo sappia, meglio di chi vive l’esperienza, ciò che l’esperienza significa. In base all’ipotesi che questo eletto Terzo sappia meglio di chi deve compiere una scelta quale è la scelta migliore.
Ora la folla lo ascolta. Lui parla come se possedesse la verità.
Power Point e Il bingo delle cazzate
Come in un film ben montato, immaginiamo un repentino cambiamento di scena.
Immaginate di partecipare alla tradizionale Convention annuale. Sono invitati tutti i dipendenti. In un teatro, o nella sala convegni di un albergo, tutti sono stati riuniti per essere per essere informati ufficialmente dell’andamento dell’anno appena chiuso, e per ricevere dal vertice aziendali messaggi in merito al futuro che ci attende.
Parlano il Presidente, l’Amministratore Delegato, il Direttore Generale, i Direttori di Divisione. Sono tutti schierati sul tavolo coperto di panno verde, in alto sulla pedana, ognuno con davanti il suo microfono e il suo cartellino con il nome. Non che ce ne sia bisogno. La folla conosce a memoria i loro nomi. Ma i simboli – metafore della distanza, della superiorità, del possesso della verità – contano. Come per Esdra e per Neemia e per gli altri esponenti del potere sulla tribuna di legno. Non c’è nessuna differenza.
Immaginate ora la schiera dei partecipanti, costretti a partecipare all’evento, e ad ascoltare. Ma inevitabilmente prevenuti, perché hanno già partecipato nel corso degli anni a troppi analoghi incontri, a troppe Convention sempre uguali l’una all’altra.
Immaginate che gli organizzatori, per animare l’evento, abbiano invitato magari qualche comico e qualche velina. Immaginate che per tener desta la platea venga proiettato un video. Ma poi il momento nel quale i detentori della verità parlano giunge inesorabile.
Le prime parole bastano a confermare i timori: Presidente, Amministratore Delegato, Direttore Generale, Direttori di Divisione dicono le solite cose trite e ritrite. Ripetono, in fondo, come se fosse roba loro, come se fosse solo roba loro, cose che i partecipanti già sanno. La parola che descrive la vera vita dell’azienda, che tutti i partecipanti hanno contribuito a creare, è raccontata come se ci si rivolgesse ad un pubblico ignaro. Gli astanti – come il popolo ebraico– riconoscono un valore di verità in quello che dicono le persone sedute a quel tavolo, di fronte alla folla schierata, ma è la verità rivista ed interpretata dal punto di vista della difesa del potere. Una parte dei discorsi che sono alla base della situazione dell’azienda, e che tutti conoscono, sono stati espunti. Altre notizie sono state edulcorate.
Questa operazione risponde a una precisa strategia comunicativa: una parte delle conoscenze vanno nascoste. Alcune parole vanno taciute. Ma il progetto è poi eseguito attraverso supporti tecnici: Power Point. Così come parlare dall’alto di fronte alla moltitudine schierata porta ad essere enfatici, Power Point, pensato per costruire ragionamenti di agevole comprensione, spinge alla banalizzazione. Essendo stato creato lo strumento per questo scopo, anche al di là della immediata consapevolezza, usandolo indeboliamo in nostro discorso. Ragionamenti fatti di pochi punti chiave, elencati gerarchicamente. Via le parole troppo ricche di senso. La complessa vita aziendale, le articolate relazioni interne, il sofferto rapporto con i clienti, l’andamento economico, tutto è ridotto a semplicissimi schemi, ipersemplificati.4
Così, ancora una volta, la speranza dei partecipanti di ascoltare qualcosa di nuovo e di veramente interessante – una parola pulsante, che esprima il sentimento collettivo, che valorizzi sinceramente il sapere di tutti – va delusa.
Come potranno i partecipanti evitare che il tedio, il fastidio, il disappunto traspaiano troppo evidentemente dai loro volti? Come potranno allo stesso tempo rendere meno noiosa la necessaria permanenza nella sala?
Ecco qui la grande idea del Bingo delle Cazzate. Pensate che ognuno dei partecipanti, in barba alla rigorosa organizzazione prevista dal responsabile della comunicazione interna, si sia dotato di una cartella da tombola, o da bingo, dove al posto dei numeri ci siano le parole, le frasi fatte, i luoghi comuni che presumibilmente verranno tirati fuori da chi sta parlando. Mission, valori, cultura, globalizzazione, minaccia della Cina, cultura del servizio, attenzione al cliente.
Ora, in cosa consiste il gioco? Ognuno dei partecipanti ha sulle ginocchia la sua cartella. Finge di ascoltare con rapimento le alate frasi di chi sta parlando, ma getta appena può lo sguardo sulla sua cartella. Ha buone probabilità, quindi, di fare ambo, terna, cinquina, tombola. Non sappiamo cosa vincerà. Nulla probabilmente – ma resterà la soddisfazione di aver smascherato la vanità del discorso. Al testo ufficiale, alla narrazione della vita organizzativa ricostruita dal punto di vista del potere si risponde così con un gesto de-costruzionista. Scherzosa, ma anche disperata difesa della parte mancante nel racconto.
Poi, il buffet. Anche di questo avevamo già letto. È proprio Neemia, il governatore, a chiudere l’assemblea. “Questo giorno è sacro al Signore Iddio nostro: non siate tristi, non piangete!”
“Andate, mangiate vivande grasse, bevete bevande dolci”. “Allora tutto il popolo se ne andò a mangiare e bere e a farne parte a chi non ne aveva, abbandonandosi alla gioia, perché aveva ben compreso le parole che gli erano state fatte conoscere”.
Direte: nel passo biblico che ho citato non si parla dell’insoddisfazione del popolo. Si legge anzi che il popolo “si abbandona alla gioia”, “perché ha ben compreso le parole che gli sono state fatte conoscere”. E quindi, dove sta il parallelo con i demotivati partecipanti alla Convention?
Ma proprio questo è il punto: la Bibbia ci racconta la scena dal punto di vista di Esdra e di Neemia. Sono loro a raccontarcela. Essi vogliono convincersi, e convincerci, che il popolo è contento così. Hanno riscritto la storia dal punto di vista del potere. Nel libro che noi oggi possiamo leggere, c’è solo la loro versione. Come nei comunicati e negli articoli che appariranno sui giornali il giorno dopo la Convention aziendale, c’è spazio solo per la versione ufficiale.
Dentro PowerPoint competenze e conoscenze sono codificate, ridotte a scatole nere riusabili da chiunque
Rendiamo merito alla professionalità di Esdra: ha fatto bene il suo lavoro. Le sue capacità sono il cuore della competenza che oggi riconosciamo a consulenti, comunicatori, manager. Quella competenza che ci si sforza di sostenere con corsi di effective speaking e di effective writing. Quella competenza che ritroviamo in Power Point, codificata, ridotta a scatola nera, riusabile da chiunque, sorta di pulpito portatile, virtuale.
Come se in un discorso non importassero il vissuto, l’emozione, l’empatia. Come se la parola di uno, ben impostata e costruita ad arte, bastasse a dar voce alla moltitudine. Come se l’efficacia della comunicazione fosse delegabile a una un software.
Conoscenze come ricchezza latente
La costruzione della storia dal punto di vista del potere – Esdra e Neemia che dall’alto del palco impongono la loro versione, e vogliono vedere debbono vedere tutti contenti – è operazione legittima. Ma la documentazione dei fatti, la narrazione, la lettura degli eventi, l’espressione del giudizio e del commento e del dolore e della gioia non si riassume in questa operazione.
Al di là di ogni operazione comunicativa costruita dal punto di vista del potere....
...resta la meravigliosa, misteriosa ricchezza della letteratura, di un certo tipo di letteratura.
Nello stesso testo biblico, in quelle stesse parole del libro di Neemia, possiamo trovare traccia dell’altra versione, sommersa: il punto di vista del popolo, la stessa storia raccontata da altre voci. E così accade anche per la nostra Convention: tra le righe dei comunicati ufficiali leggeremo, se vorremo leggerlo, anche il non detto, ciò che chi parlava ex cathedra non ha voluto o saputo dire. Quella versione della storia che comunque circolerà nei discorsi nei corridoi, alla macchinetta del caffè, in mensa, in mail scambiate tra partecipanti delusi, in scritti sulle porte dei cessi, forse anche in qualche comunicato sindacale.
Perciò non ci interessano testi ripuliti, ben confezionati, limati, frutto di accurato editing, ben costruiti in sequenza. Ci interessano i testi segnati da cesure, da discontinuità, inciampi, salti logici, pluralità di voci sovrapposte. Testi non rifiniti, non ancora sottoposti a cura redazionale: lì, anche e forse soprattutto dove le parole che abbiamo sotto gli occhi sembrano di primo acchito puro rumore, troveremo tracce di significati rimossi, di versioni censurate, di storie che lo stesso scrivente dubitava magari di potersi permettere di raccontare. Lì sta la conoscenza latente, la ricchezza nascosta della narrazione.
E sta anche la ricchezza nascosta nell’organizzazione, in ogni azienda: questo è il senso, a ben guardare del Knowledge Management. Queste voci sommerse, ridotte a giocare al Bingo delle cazzate per elaborare la delusione, costituiscono un asset che l’impresa avrebbe interesse a valorizzare.
Narrazione e autobiografia
Ci sono scene, immagini – e parole, orali o scritte, che le descrivono, parole colte magari per caso in occasioni ed in luoghi inattesi –, che ci appaiono misteriosa sintesi del tutto, chiave di volta, frattale del sistema complesso, algoritmo elegante che riassume il nocciolo della questione, messaggio in bottiglia che contiene in nuce la spiegazione, arcano che magari in un momento inatteso si svelerà con chiarezza.
La conoscenza sta nella narrazione, nell’affabulazione.
Per me che ora scrivendo su un tema che mi sta particolarmente a cuore, questa scena – Esdra che dall’alto racconta al popola la sua storia, ma in una versione edulcorata, in una versione nella quale il popolo non si riconosce – resta, credo, la scena primaria. Ho in mente il sacerdote che dall’alto, si rivolge alla folla attonita. Dall’alto di una legittimazione che la folla non gli ha dato, ma che è frutto di uno scambio reciproco con le persone che stanno anch’esse in alto, al suo fianco, mentre lui parla, ridice alla folla quello che la folla sa già, ma lo ridice come se fosse una realtà nuova, rivelata. Trasforma la parola libera e fluida in un codice sul quale il popolo non può intervenire. L’unica facoltà lasciata al popolo è leggere un testo chiuso una volta per tutte; ascoltare la parola pronunciata dal pulpito.
Richiamate da questa scena, altre analogie, altre metafore, si affollano e si organizzano nella mia mente. Così, pur sapendo che devo parlarvi di un tema preciso, di organizzazione e di management, continuerò in questo modo.
Scrivendo in prima persona, perché credo che non ci siano verità da rivelare – tutto è già stato detto, tutto potrà essere detto da altri, quasi tutto è accessibile per altri canali –, cosicché il contributo che posso dare sta nel lasciare traccia del mio percorso, lasciare spazio alla narrazione e alla soggettività, mostrare come mi muovo attorno ad un tema.
Credo che il dono che possiamo fare agli altri, l’oggetto di scambio sul quale si fonda la relazione sociale, e anche la ‘merce’ che può vendere un consulente o un formatore, non stia nell’insegnare. Credo che stia nel lasciare che altri passeggino nella mia mente, gatti silenziosi come in quei versi di Baudelaire.5
E come critico letterario sto dalla parte di un certo tipo di scrittori, Ortese, Gadda, Joyce, Lezama Lima, Onetti, Céline, Lawrence, Henry Miller, ad esempio, scrittori che lasciano consapevolmente nei loro testi momenti di oscurità ed inciampi, e se ne fregano del mercato, e non pensano a cosa piace e non piace ai lettori. Scrittori che scendono nelle proprie tenebre e sanno parlare di sé senza pudore. Scrittori che ragionano come Rousseau, grande precursore del viaggio alla ricerca di sé, che ancora nella parte iniziale della sua autobiografia abbandona con uno scarto inopinato il discorso che sta facendo, perché non può fare a meno di notare: "So bene che il lettore non ha un gran bisogno di sapere tutto questo, ma io ho bisogno di dirglielo".6
Possiamo anche metterla in questi termini: la conoscenza sta nella narrazione, nell’affabulazione. La storia che raccontiamo è il grumo di un nuovo mondo possibile. Quando racconto una storia costruisco un mondo, scopro una possibile verità. La narrazione, l’affabulazione sono il brodo di cultura dell’innovazione e della scoperta.
E badate, questo non vale solo per la poesia ed il romanzo. Mi diceva l’altra sera un amico (se non ci censuriamo capitano sempre queste coincidenze tra le esperienze quotidiane e il tema di cui stiamo scrivendo), mi diceva l’altra sera un amico citandomi il caso di Cantor: chi fa lo scienziato non fa scoperte, le scoperte le fa chi vive ai margini della scienza ufficiale, e per questo è sanzionato, fino magari a perdere l’equilibrio mentale.7 Chi fa scoperte è, in fondo, un narratore –o forse meglio: un poeta. Racconta a se stesso la storia di un mondo possibile, un mondo che emerge dal profondo del suo immaginario.
Perciò andrò avanti raccontandovi delle storie. Storie che riguardano mondi a me cari, nei quali mi identifico, mondi che appaiono ai miei occhi ricchi di senso. Fonti, almeno per me, di potenti metafore. Solo dando spazio a queste metafore posso sperare di dirvi qualcosa di sensato.
Nebrija
Apriamo un libro. Un libro uscito dai torchi di Salamanca il 18 agosto 1492, quindici giorni dopo la partenza di Colombo verso le Indie. Un volume in quarto di cinque segnature, composto in caratteri gotici. L'epigrafe stampata in rosso, poi una pagina bianca, poi la dedica: “Alla molto alta e assai illustre principessa donna Isabella la terza di questo nome Regina e signora naturale di spagna e delle isole del nostro mare. Comincia la grammatica che nuovamente fece il maestro Antonio di Nebrixa sulla lingua castigliana, e mette all'inizio il prologo. Leggilo con attenzione."8
Seguono sei pagine di introduzione dove l'autore, rivolgendosi alla regina, le spiega con chiarezza a tratti brutale perché questa sua Gramática debba essere considerato un fondamentale strumento di dominio e di governo, utile più della spada.
Chi era Nebrija? Antonio Martínez de la Cala, converso, cioè discendente di ebrei convertiti, nasce nel 1444 (o nel 1441) nella antica Nebrissa Veneria, in provincia di Siviglia.
Compie gli studi nella sua terra natale e poi a Salamanca. Già in gioventù era ossessionato dall'idea dell'assenza, nella penisola iberica, di una lengua. Da un lato i linguaggi delle Scritture –greco, latino, ebraico–, dall'altro l'idioma del popolo. La centralità delle modalità espressive, la priorità della lingua sulle conoscenze erano già i suoi chiodi fissi: così a diciannove anni si recò in Italia, per riportare in patria gli autori latini. Tornerà in effetti dopo sette anni portando con sé un prezioso bagaglio: un perfetto dominio del sistema linguistico latino.
La carriera si snoda tra aule universitarie e sedi vescovili, tra beghe accademiche e tentativi di garantirsi maggior libertà per proseguire i suoi studi.
Nebrija dedica enormi energie a codificare la grammatica latina, a definirne la pronuncia, a riportare alla luce la retorica classica, a ripristinare i testi sacri. Nel 1481pubblica la sua prima opera, le Introductiones latinae, strumento didattico, destinate a un grande successo: ebbero una prima tiratura di mille copie, sette edizioni entro il secolo XV, quaranta in quello successivo.9
Ragionando intorno alle conseguenze della diffusione della stampa balena a Nebrija la prima idea della sua Gramática de la lengua castellana. In quegli anni il libro è la nuova tecnologia. Come oggi l’accesso al Web, allora l'idea stessa di libro portava con sé una libertà prima inconcepibile. La stampa permette di diffondere al di là di ogni controllo idee e visioni del mondo. Come garantire "agli uomini opere nelle quali possano impiegare meglio il loro ozio"? Come evitare che si sprechi tempo leggendo "romanzi o storie piene di menzogne ed errori”?10
Umanista stimato, al vertice del successo professionale, allarga lo sguardo e alza il tiro. Decide di confrontarsi con una opera nuova. Più ardita della sistemazione di un latino rovinato dall'incuria. Più politica. "Mi proposi di trasformare in artefatto questo nostro linguaggio castigliano, in modo che d'ora in poi tutto ciò che con esso si scriva possa risultare di un unico tenore".11
Nessuno prima di lui ha pensato di scrivere la Grammatica di una lingua viva. Mai in precedenza la grammatica era stata esplicitamente intesa quale mezzo di modellazione, di stabilizzazione e di insegnamento della lingua d'ogni giorno.
La Gramática fu composta tra il 1486 e il 1492. Il Prólogo è successivo alla capitolazione di Granada (il 2 gennaio 1492). L'apparizione della Gramática coincide dunque con un momento particolarissimo della storia nazionale – Nebrija ne è consapevole. Gli arabi sono stati definitivamente respinti in Africa, l’‘unione personale’ dei Re Cattolici ha fatto della Spagna un unico regno. E si aprono grandi prospettive di espansione oltremare.
Il converso cosmopolita offre alla corona i propri servigi, sotto specie di creazione di una lingua atta a essere imposta ovunque la porterà la spada.
Nebrija spiega alla regina che la la lingua è la base per l'edificazione del Regno, ma non solo. Colombo in quegli stessi giorni aveva perorato di fronte alla Regina la sua causa: se vuoi un Impero finanzia la mai impresa di Conquista del Nuovo Mondo. Nebrija va oltre: fa presente che sviluppo imperiale esige una lingua stabile. La lingua posta sotto il controllo della grammatica potrà invece "estendersi in tutta la durata dei tempi avvenire, come vediamo che è stato fatto con la lingua greca e latina, le quali, essendo state assoggettate a regola, anche se sopra di esse sono passati molti secoli, ancora mantengono una uniformità."12
Ciò che conta non è la rispondenza dello strumento di comunicazione ai bisogni dei parlanti, quanto la sua efficacia dal punto di vista del controllo: non a caso Nebrija usa il verbo reducir –nel castigliano del XV secolo: 'trasformare', 'assoggettare', 'normalizzare'–.
Nel disegno di Nebrija burocrati, soldati, mercanti, contadini avranno un'unica lingua, una lingua che tutti comprenderanno e alla quale anche dovranno, in quanto lingua ufficiale, imposta per norma, obbedire (ob-audire: 'dare ascolto'). Solo così i sudditi saranno tramutati in cittadini moderni.
Il progetto di Nebrija precede di cinquant'anni la pubblicazione dell'Indice dei Libri Proibiti. Nebrija è più ambizioso, più definitivamente repressivo. Non pensa, come farà la Chiesa, a censurare, ma ad imporre il controllo attraverso il codice. Solo i conoscenze espresse tramite quel codice sono considerate dotate di valore, e degne di conservazione e di diffusione. Chi viola la regola espressiva stabilita è in errore, anzi, commette peccato
Perciò l’estremo, il più pericoloso nemico, per Nebrija, è il poeta– perché mostra un sovrano disprezzo per le norme sulle quale Nebrija costruisce la sua autorità. Il poeta mostra come sia possibile inventare sempre nuovi linguaggi, come sia possibile e liberante rinnovare di continuo in linguaggio imposto.
E allora il grammatico, per difendere il proprio progetto di lingua artificiale, gioca l'ultima carta, quella della difesa dei diritti degli ultimi. Accusa i poeti di usare una lingua astrusa e arbitrariamente complessa, e –contro di loro– si schiera dalla parte degli illetterati, affermandosi fautore di un idioma standard, facile da usare; una lingua semplice, chiara, alla portata di tutti.
Con perfetta ipocrisia l'atteggiamento autoritario e l’assoluto controllo vengono mascherati dietro l'apparenza di 'servizio'.
Proprio come Bill Gates, quando che propone il suo standard come un vantaggio per tutti, come una alternativa efficace alla Babele delle lingue informatiche. E per questa via si sforza di colpevolizzare –siete pirati, violate la legge– coloro che non rispettano la sua appropriazione deegli strumenti di comunicazione sociale.
Insomma: Esdra propone la strategia: il controllo sulla conoscenza, la riduzione del sapere prodotto dalla comunità ad una versione espunta di ciò che c’è di pericoloso per il gruppo che detiene il potere. Nebrija fornisce lo strumento: una codifica della conoscenza le cui chiavi sono detenute da chi sta al potere, da chi sta sul palco con Esdra.
Nebrija, a ben guardare, non prefigura solo l’emarginazione di ogni lingua materna, di ogni dialetto, calda forma espressiva ricca di sfumature che andranno perse con la traduzione nell’interlingua da tutti usata. Ci descrive, anche, il senso profondo dell’Information & Communication Technology. L’obiettivo di garantire la conservazione e la diffusione delle informazioni giustifica la definizione di una codifica le cui chiavi sono conosciute e detenute da una casta di sacerdoti, di esperti legittimativi. Senza passare attraverso l’uso di strumenti da loro governati, sarà impossibile comunicare.
Broadcasting
Il primo concerto trasmesso per radio fu eseguito presso la stazione Marconi di Chelmsford (Inghilterra) il 15 giugno 1920: il canto della signora Nellie Melba fu ascoltato da navi in mari lontani, ed anche in America. È l’origine del broadcasting.
Così come dalle tipografie immaginate da Nebrija uscivano solo libri corrispondenti alle regole, l’antenna centrale del Broadcasting diffonde solo segnale assoggettato ad un controllo politico. Solo chi ha accesso all’antenna –versione moderna del palco di Esdra– avrà voce. La moltutudine è ridotta ad ascoltare la parola data. Gli è impedito fornire un contributo o una diversa versione. L’unica residuo spazio di libertà sta nella decodifica aberrante, cioè nel guardare oltre le apparenze e nel cercare tra le righe il non detto –come appunto nel Bingo delle cazzate.
Parallelamente ed analogamente a ciò che accade con il Broadcasting nelle comunicazioni di massa, nello stesso clima storico e culturale, si afferma, si afferma all’interno delle organizzazioni, un analogo uso delle tecnologie. Il ‘trattamento elettronico dei dati’.
Negli anni cinquanta e sessanta, i Sistemi Informativi Aziendali crescono e si affermano nella logica del controllo. Sicurezza, protezione, accesso limitato. Gestione dei dati affidata a tecnici specialisti –sacerdoti in camice bianco– dedicati al ruolo di mediatori necessari tra macchine complesse e utenti abilitati ad eseguire solo poche limitate operazioni.
E’ il modello incarnato dal Mainframe IBM. Ogni organizzazione è una singola rete, separata dalle altre. E si tratta di reti sempre governata dal centro. Dove l’informazione fluisce unidirezionalmente, sempre dal centro alla periferia.
Guerra fredda, timore del crash o collasso del sistema, con conseguenze pantoclastiche (‘dobbiamo evitare la guerra atomica perché essa porterà non solo alla scomparsa del nemico, ma alla nostra stessa scomparsa’), giustificano politicamente il modello.
Ma c’è qualcosa dietro. La tecnologia non è mai neutrale: nasce da un pensiero strategico. Si tratta, qui, ancora, di macchine pensate da Esdra e da Nebrija. I Data base contengono conoscenza codificata in modalità comprensibili solo per i sacerdoti. Dietro la necessità tecnologica si nasconde il disegno politico, dietro la competenza tecnica si nasconde il controllo sociale.
Sancho Panza: parole come rutti
Don Quijote si premura di istruire Sancho. Per governare come si deve l'isola che gli è destinata dovrà innanzitutto imparare a governare se stesso: tagliarsi le unghie, non vestirsi in modo sbracato, non mangiare aglio e cipolla. E poi: "Fai attenzione, Sancho, a non mangiare a quattro palmenti, e a non eructar in faccia a nessuno."– Questa cosa di eructar non la capisco" (...) ."– "Eructar", Sancho, vuol dire "regoldar", e questo è uno dei più turpi vocaboli della lingua castigliana, sebbene sia molto espressivo; e così la gente seria ha fatto ricorso al latino, e invece di regoldar dice eructar, e invece di regüeldos eructaciones”.13
L'espressione è censurata in nome di una valutazione ideologica esterna alla cultura dei parlanti, e sostituita forzosamente con espressione a questi ultimi estranea. Eructar è espressione marchiata dal potere, e imposta artificialmente, come ha insegnato a fare Nebrija.
Sancho invece si esprime in vernacolo. 14 Ed è proprio la ricchezza abbagliante dello stile orale –la sua efficacia espressiva, la sua rustica poesia– a dimostraci come sia donchisciottesca, e destinata al fallimento, l'operazione di Nebrija. Proprio dove l'atteggiamento prescrittivo vede l'errore –nei barbarismi, nelle sgrammaticature di ogni sorta–, proprio lì troveremo le tracce della conoscenza sommersa.
La lingua di Sancho, cresciuta lontano dalle antenne del Broadcasting, viva nonostante l’assenza di scuola, è posseduta pienamente dai suoi parlanti. Ed è in grado esprimere ogni sfumatura psicologica culturalmente significativa, ogni aspetto del mondo quotidianamente esperito.
Sancho, perciò, è esponente di quella cultura che nelle organizzazioni resta latente, schiacciata dalla norma di Esdra e di Nebrija. Cultura che però sopravvive al di là delle repressioni, e si manifesta dove può: alla macchinetta del caffè, in mensa, nei corridoi, nelle e–mail, nelle e-mail, in certi spazi di libertà lasciati talvolta sulle Intranet, in files nascosti nel disco fisso del proprio Personal Computer, nei graffiti che segnano certi luoghi bui, nel giocare nonostante tutto al Bingo delle cazzate.
L’anonimo cantore
L’autore è colui che, passati una serie di vagli, è autorizzato a scrivere e a diffondere la sua visione del sapere. L’autore è colui che considera giustificato conformarsi alla lingua di Nebrija. È colui che, come Esdra, si appropria di narrazioni già narrate. È colui che, per parlare a sua volta, fa il possibile per essere invitato sul palco, accanto a Esdra e Neemia. È colui che, accettando senza discutere la logica del Broadcasting, usa il suo piccolo potere per essere invitato al Maurizio Costanzo Show.
Tutti, io per primo, siamo in qualche misura autori. Ma ciò che considero importante è l’evitare di contribuire a giustificare questo modello. Ciò che considero ipocrita è colpevole è il considerare questo modello privo di alternative.
Infatti esistono libri, grandi libri, senza autore. E a ben guardare, solo in base a una convenzione riduttiva possiamo veramente considerarci ‘autori’ degli stessi libri che firmiamo come tali. Non solo forse i libri che scriviamo frutto della capacità di ascolto di parole udite da altri? Non sono forse le pagine che scriviamo –a partire da quella che state leggendo– frutto dell’opera di altri autori, o meglio, frutto di un altrui pensiero, di una produzione sociale, di una inestricabile interconnessione di altri testi e di pensieri e di conoscenze diffuse?
"Avant d'écrire chaque peuple a chanté", piaceva ricordare a Gérard de Nerval. Fortemente influenzati da questo clima i primi filologi –i fratelli Schlegel, i fratelli Grimm, Friedrich August Wolf– ci parlano dell'anteriorità della poesia popolare rispetto a quella artistica, della poesia rispetto alla prosa, dell'oralità rispetto alla scrittura. L'antichissima origine dei romances è in questa luce dedotta dall''ordine naturale delle cose'. Sarebbero il frutto dell'impulso irresistibile di una nazione eroica di cantare le gesta degli antenati e le prodezze dei contemporanei, di narrare gli avvenimenti più interessanti, di celebrare i suoi rappresentanti più insigni, le assumono le caratteristiche di eroi semi-storici e semi-tradizionali.15
Un atto di fede nella poesia, quello dei romantici, sul quale Ramón Menéndez Pidal innesta il suo elaboratissimo sistema critico: “ Tradizione (...) è la trasmissione di conoscenze e pratiche di interessi sociale o collettivi (...) fatta in tutto o in gran parte oralmente, dai vecchi ai giovani, di generazione in generazione”.16
Non è questa, per noi, anche una perfetta definizione di quello che è, o potrebbe essere, il Knowledge Management?
C’è un processo di semplificazione tematica che isola un episodio o un brano di un testo, o riorganizza la materia preesistente, attraverso successive fusioni e rimaneggiamenti. Ma non per questo il singolo testo –racconto orale, poesia, romanzo, documento aziendale– è privo di una sua autonomia: è in rapporto con il precedente come qualsiasi opera nuova con la sua fonte. Ogni intervento su un testo ereditato, firmato o no che sia, ha una sua inconfondibile unicità. Eppure l'opera resta proprietà collettiva, aperta all'uso e alla partecipazione dell'intera comunità.
Il giullare, il cantastorie, lo storyteller, così come la segretaria che nei servizi igienici femminili, accanto alla collega, racconta un pettegolezzo, o l’impiegato che alla macchinetta del caffè racconta stigmatizza in una barzelletta sui capi – il giullare, il cantastorie, la segretaria, l’impiegato, non sono ‘autori’, ma sono certo poeti, creatori di una interpretazione del mondo, 'cantori'.17
Folklore: 'il sapere del popolo'. L'opzione antioligarchica salta agli occhi. Tutte le forme di controllo dell'opera prefigurate da Nebrija (e che arriveranno ad assumere anche la forma strettamente giuridica del diritto d'autore) appaiono messe in discussione. L’illusione di Esdra –la mia versione della storia è l’unica circolante– appare in tutta la sua vanità.
Come opera l’‘anonimo cantore’?
Di fronte a un testo preesistente "inventa ciò che non ricorda più bene", "rifà ciò che non gli piace", e "in questa rielaborazione rapida e quasi involontaria, ognuno può avere un momento creatore felice". L'anonimo cantore: non una figura ancillare, niente di gregario o di subordinato. Non un recitatore svagato, non un mestierante. Invece, un poeta disinteressato, ricco di una sua vena personale che di fronte alla collettività si fa carico di perpetuare l'opera. Partendo dal principio che la poesia è sempre e comunque interpretazione di una tradizione, ne offre una possibile versione.18
In assenza della gratificazione narcisistica della firma, il ruolo può fondarsi solo su un senso di identificazione nella collettività – e ci pare non possa prescindere da una connotazione giocosa: il piacere dell'anonimato si fonde al piacere della creazione.
Il testo appunto, anche il testo scritto, va di mano in mano, come palla nelle mani di ragazze che giocano; bravo chi saprà afferrarlo, aggiungendoci magari qualcosa di suo: "Chiunque sia che lo ascolti/ può aggiungere dell'altro/ vada di mano in mano/ come palle alle ragazze/ se ben cantare sapesse,/ e emendare quello che volesse;/ a chiunque lo chiedesse,/ lo prenda chi ci riesca."19
Possiamo dunque parlare di un vero e proprio 'stile tradizionale': essenzialità, naturalezza, intuizione, impersonalità. Caratteristiche che si imprimono a un canto quando esso è assimilato dalla collettività.
C'è più genialità nell'arrendersi a questo stile, che nella pretesa di innovare a tutti i costi. E' più facile inventare che cogliere la vitalità allo stato latente dei materiali folclorici, è più semplice illudersi di avere un proprio stile piuttosto che conformarsi a moduli che portano in sé una memoria millenaria.
Si distingueva tra mester de juglaría e mester de clerecía: due tipi di 'mestiere', tra loro contrapposti. Da un lato il cantore per lo più anonimo, o comunque disinteressato ad affermare l'univocità della propria voce, legato a radici popolari, a suo agio nel ruolo di erede del giullare, trovatore, cantastorie. E dall'altro il chierico della poesia, che afferma in partenza la propria diversità dal mondo degli altri, i fruitori, gli ascoltatori o lettori, e considera elemento fondante della letteratura il proprio intervento dotto ed elaborato.
Autori forti e autori deboli
Visto che in qualche misura siamo tutti autori, mi piace usare questa distinzione.
Facilissimo, a questo punto, citare esempi di ‘autori forti’: tutti color che scrivono con arroganza, dimenticando che non stanno facendo altro che dar voce a parole già dette. Che sta scrivendo storie che sono già state raccontate, o che potranno efficacemente essere raccontate in altri modi.
L’‘autore forte’ è Esdra: lavora per ‘far prendere coscienza agli altri’, pretendendo di spiegare come funziona un mondo ai suoi stessi abitatori. Mentre l’‘autore debole’ si sforza di abbassare il grado della sua mediazione, partendo dalla convinzione che la sua capacità di comprendere è comunque limitata, e che la sua interpretazione, lungi dall’aggiungere, forse addirittura toglie qualcosa al racconto.
Ecco così che Lutero si sforza di apprendere la lingua viva – perché solo così potrà portare la Parola all'interno della vita quotidiana dei parlanti. Come scrive nel Sendbrief vom Dolmetschen: "non si deve comandare come la lettera latina debba essere detta in tedesco (...) ma si deve interrogare la madre in casa, i bambini per strada, l'uomo del popolo sul mercato, e si deve guardare in bocca come parlano".20
Così Lutero traduce la Bibbia in tedesco perché ognuno, attraverso la lingua che usa quotidianamente, possa intendere la Parola. Mentre il Cardinal Cisneros progetta una Biblia Poliglota –della quale Nebrija sarà uno dei principali artefici– per fornire attraverso nuove traduzioni in greco e in latino più validi strumenti di lavoro al clero. (L'umanesimo di Nebrija finisce qui, in un progetto che va di pari passo con l'Inquisizione).
Ed ecco Nietszche: a venticinque anni titolare della cattedra di filologia classica a Basilea, l'ateneo dove insegnavano anche Bachofen e i Bernouilli. Rinuncerà presto alla filologia per la filosofia, alla cattedra per un proprio cammino di conoscenza.21 Nebrija continuerà invece fino alla vecchiaia a lottare per nuovi incarichi accademici.
Per Nietszche tutto deve essere messo in gioco in nome della conoscenza, una conoscenza che è creazione di nuovi modi di pensare. Per Nebrija l'etica, la responsabilità dell'intellettuale, coprono e giustificano la difesa del privilegio.
Nietzsche ci parla di tutti i Nebrija in Al di là del bene e del male: "Il dotto è ricco di piccole invidie e ha un occhio acutissimo per quanto vi è di basso in quella natura alla cui altezza egli non può giungere. E' fiducioso, tuttavia soltanto come uno che si lascia andare e non fluire, e proprio di fronte all'uomo dal grande flusso egli se ne sta lì, tanto più freddo e chiuso, – il suo occhio è allora come un piatto lago ripugnante che nessun entusiasmo, nessuna partecipazione increspa più."22
Nebrija oggi
Non c’è bisogno di fare nomi. Ogni lettore troverà nella sua esperienza quotidiana esempi a iosa. Giornalisti, professori universitari. Dirigenti e quadri, capi e colleghi con i quali si è avuto a che fare. Direttori Risorse Umane. Responsabili dell’Information & Communication Technology. Consulenti, esperti vari. Autori di libri che ci spiegano chi siamo e ci indicano cosa dobbiamo pensare. E che guardano il nostro modo con occhio gelido, senza nessuna partecipazione emotiva: “Il dotto è ricco di piccole invidie”, dice Nietzsche.
Di fronte al flusso di storie e di vita organizzative che cresce negli scambi comunicativi tra colleghi da tavolo a tavolo, o nei corridoi, o alla macchinetta nel caffè, o anche in quel luogo di incontro virtuale che è l’Intranet, di fronte a questo flusso caldo, a questo processo, che fa l’esperto, il dotto consulente: “il suo occhio è come un piatto lago ripugnante che nessun entusiasmo, nessuna partecipazione increspa”.
E quante procedure, quanti buoni in utilissimi ipocriti consigli sono calcati sulle parole del Quijote: tagliarsi le unghie, non vestirsi in modo sbracato, non mangiare aglio e cipolla. E poi: "Fai attenzione, Sancho, a non mangiare a quattro palmenti, e a non eructar in faccia a nessuno."
Impiegati, dirigenti, consulenti, programmatori avranno un'unica lingua, una lingua che tutti comprenderanno e alla quale anche dovranno, in quanto lingua ufficiale, imposta per norma, obbedire (ob-audire: 'dare ascolto').
Rete come punto di non ritorno e nuova centralità della persona
Ma Esdra e Nebrija non torneranno. I loro epigoni hanno sempre meno spazio. Sono cadute le basi materiali del loro potere. L’alibi dietro cui si nascondevano –la necessità della loro mediazione nel processo di circolazione e di costruzione della conoscenza– è miseramente caduto.
Il fatto è che negli ultimi cinquant’anni abbiamo visto realizzarsi un cambiamento epocale –del quale fatichiamo a cogliere la portata. Un cambiamento paragonabile al passaggio dall’oralità alla scrittura.
Ovvio che questo cambiamento muti profondamente la produzione e la fruizione di letteratura. Così come il funzionamento delle organizzazioni.
L’eccesso del controllo ha portato ad una nemesi: più la macchina è totalizzante, governata e proceduralizzata, più è probabile che sia messa in crisi da un atto ostile fondato su un approccio geniale, o semplicemente dal concorrere di eventi aleatori. Si aggiunga che l’eccesso di controllo e di governo stimola, sul piano dei comportamenti sociali, atteggiamenti devianti. Di fronte al sistema che si autolegittima fondando la propria immagine sull’inaccessibilità, fatalmente sono emersi comportamenti orientati a ‘falsificare’ l’efficacia del controllo e del governo. Di qui sono nate le sfide degli hacker.
Rese possibili, a partire dagli anni sessanta e settanta, da un cambiamento di clima sociale. La persona, con i suoi desideri ed i suoi bisogni, torna al centro della scena. Crescono gli atteggiamenti orientati all’‘espansione dell’area della propria coscienza’. Il Persona Computer è una protesi del soggetto, della singola persona. Il disco fisso è una parte della mia mente.
Poi, negli anni novanta, in opposizione al Broadcasting, la Rete. La Rete abbassa la soglia dell’accesso fino ad azzerarla. E cambia radicalmente la prospettiva. Ognuno può guardare la Rete dal suo punto di vista. La macchina può e deve essere usato con un grado di libertà incontrollabile. La tecnologia libera e pone ognuno al centro del mondo.
Di fronte all’esigenza di organizzare e di conservare e di rendere riutilizzabili le conoscenze, la gerarchia e l’autorità non sono più necessarie. E risultano comunque alla fine inefficaci. Esdra poteva imporre la sua versione perché deteneva gli strumenti tecnologici necessari per conservare versioni dell’opera. Perché l’arte della codifica delle informazioni era nota solo ai sacerdoti, e ignota al popolo. Perché le altre versioni del testo, orali, permanevano sono nella labile memoria del popolo. Oggi il suo disegno non potrebbe realizzarsi: memoria di massa e conoscenze tecnologiche sono diffuse.
E il libro, sul quale si fondava il controllo di Nebrija, è una tecnologia di organizzazione della conoscenza ancora attuale. Ma non è più l’unica, e non è più indispensabile. La disposizione sequenziale del testo, riga dopo riga e pagina dopo pagina, è solo una delle forme possibili. Il rigido ordine narrativo proposto da Power Point è poca cosa.
Disordine, complessità non impediscono di fruire delle informazioni. Il motore di ricerca simboleggia un totale rovesciamento rispetto all’idea di ‘programmazione’ che governava l’accesso alle risorse. Gli operatori booleani attraverso i quali i programmatori, sacerdoti dell’Host computer, definivano gli accessi all’informazione, sono ora nelle mani dei singoli utenti. Chiunque può chiedere a quella gran macchina virtuale che è la Rete ‘connetti questa informazione and quest’altra, or, if, …’.
La libera “trasmissione di conoscenze e pratiche di interesse sociale e collettivo”, che connette vecchi a giovani, generazioni a generazioni, e cioè la letteratura–non–libresca immaginata da Menéndez Pidal non è chiusa nel mondo labile dell’oralità. Ma può fondarsi su tracce digitali, indelebili, durevoli. Senza che questo richieda l’intervento di sacerdoti del sapere, legati fatalmente ad un proprio interesse personale.
Ipertesti e galassie di conoscenze senza forma
Ognuno può essere, produttore e consumatore. Non solo di beni e di merci. Ma di conoscenza. Ognuno può essere docente e discente, autore e lettore. Ognuno, ora, può essere autore del suo testo.
La tecnologia oggi accessibile può essere veramente intesa come poiesis –modo di produrre, creare. Anziché legittimare il ruolo di chi pone vincoli, libera dal vincolo.
Il testo vive senza bisogno di una organizzazione previa. All’origine sta un disordinato, ridondante e rumoroso affastellamento di conoscenze. Pensiamo a quella gran ‘base dati’ che è il Web. A partire da questa ‘base dati’ la persona, ogni persona, autore-lettore, potrà di volta in volta costruire nuovi e ricchi e sempre diversi percorsi di senso. Aggiungendo, interpolando, modificando materiali preesistenti, così come già faceva, con tecnologie ben più povere, il giullare, l’‘anonimo cantore’.
Piacevoli ed istruttivi ‘viaggi inferenziali’ produrranno, faranno emergere galassie di conoscenze imprevedibili a propri. In un modo ed in un contesto dove le figure dell’autore, del critico, dell’interprete, del consulente, dell’esperto, risultano obsolete ed inutili e superate.
Allo stesso modo, il manager, e qualsiasi ‘knowledge worker’, di fronte ad informazioni scarsamente organizzate potrà, secondo l’obiettivo immediato e l’estro, individuare percorsi di senso – costruendo conoscenze in merito al funzionamento dell’organizzazione, agli andamenti del mercato, alle relazioni con i clienti.
Produzione letteraria e motori di ricerca e strumenti di Data Mining si danno così la mano, apparendoci come un unico processo.
Un processo fondato sulla creatività individuale. Qui sta il nostro valore: nella nostra autobiografia, nella nostra storia, nella nostra cultura, nella nostra autostima. È questa la base sulla quale si sostiene la capacità di generare connessioni originali ed efficaci. L’attitudine a narrare in un modo nuovo.
Non pensate che questa sia una utopia, o una astrazione lontana dalla realtà. Se lo pensate, è solo perché è difficile liberarsi dagli Esdra e dai Nebrija che abbiamo per così lungo tempo subito, e che abbiamo interiorizzato, fino ad autocensurare le nostre migliori capacità.
Note
1 Ted H. Nelson, Literary Machines, Swarthmore (Pa), 1981 (pubblicato in proprio). Trad. it. dell'ed. 1990: Literary Machines 90.1, Padova, Muzzio, 1992.
2 Neemia, 8, 2-3, 4-5.
3 Robert H. Pfeiffer, Introduction to the Old Testament, New York: Harper & Brothers, 1941. Ernst Bloch, Atheismus in Christenutm. Zur Religion des Exodus und des Reichs, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1968; trad it. Ateismo nel cristianesimo. Per una religione dell'Esodo e del Regno, Milano, Feltrinelli, 1971.
4 “Power Point templates (ready made designs) usually weaken verbal and spatial reasoning, and almost always corrupt statistical analysis”. Edward Tufte, The cognitive style of Power Point, Cheshire, CT, Graphics Press, 2003.
5 “Dans ma cervelle se promène,/ Ainsi qu'en son appartement,/ Un beau chat, fort, doux et charmant.” Charles Baudelaire, Les fleurs du mal, 1857. LI: Le chat.
6 Jean Jacques Rousseau, Les Confessions, 1781-1788 (Parte Prima, Libro primo).
7 A proposito di Georg Cantor: David Foster Wallace, Everything and More: A Compact History of Inifinity, New York, W. W. Norton, 2003.
8 Elio Antonio de Nebrija, Gramática de la lengua castellana, Salamanca, 1492. Vedi le ed. di González Llubera (1926), di Galindo Romeo e Ortiz Muñoz (Madrid, Silverio Aguirre, 1946) e di Quilis (1980 e 1984). Vedi, inoltre l'edizione fototipica di Walberg (1909) e il fac-simile: Madrid, Espasa-Calpe, 1976.
9 Elio Antonio de Nebrija, Introductiones latinae, Salamanca, 1481. Vedi ed. in fac-simile, con Presentazione di Pedro Almar e Proemio di Eugenio de Bustos, Salamanca, Universidad de Salamanca, 1981.
10 Elio Antonio de Nebrija, Gramática de la lengua castellana, cit., Prólogo, folio 2, verso.
11 Ibid., folio 2, verso.
12 Ibid., Folio 2 verso.
13 Miguel de Cervantes Saavedra, El Ingenioso Hidalgo Don Quijote de la Mancha, Parte Seconda, 1615, Cap. XLIII (vedi: Obras Completas, a cura di Angel Valbuena Prat, Madrid, 1956).
14 Ivan Illich, Shadow Work, London, Marion Boyars, 1981, in particolare i capitoli Il diritto alla ligua comune e La lingua materna come merce. Ivan Illich, Gender, Marion Boyars, London, 1982; trad it. Il genere e il sesso. Per una critica storica dell'uguaglianza, Milano, Mondadori, 1984, in particolare il cap. III: Il genere vernacolare, pp. 93 e segg., e note 1 e 51. Ivan Illich, Vernacular Values, New York, Pantheon, 1983.
'Vernacolo', termine tecnico del diritto romano, definisce una cultura, un'area di valori ed un modo di produzione: 'vernacolare' è tutto quanto è proprio del luogo in cui si è nati e si vive.
15 I romances castigliani sarebbero dunque un prezioso relitto delle antichissime "cantilene" che i filologi postulavano all'origine di ogni epopea. Costituirebbero una sorta di recapitolazione della storia dell'epica, che si sarebbe evoluta a partire da brevi componimenenti epico-lirici (simili ai romances) composti quasi contemporaneamente agli avvenimenti storici, per poi assumere l'andamento più ampio e complesso dei cantares e delle Chansons de geste. Primavera y Flor de Romances, ed. di F.J. Wolf e K. Hofmann, Vienna, 1856.
16 Ramón Menéndez Pidal, Poesía juglaresca y orígenes de las literaturas románicas, Madrid, 1957, p. 364. (Sesta ed ultima ed. di Poesía juglaresca y juglares, Madrid, 1924).
17 Dal latino jocularis e joculator, a sua volta da iocus, 'gioco', l'italiano giullare, così come il francese antico jogleor, il provenzale juglars, lo spagnolo juglar, si diffondono in età medievale.
La presenza del mimo -istrione, giocoliere, equilibrista, saltimbanco (si tratta del resto sempre del trickster ritrovato dagli antropologi in ogni cultura cosiddetta 'primitiva')- dal quinto secolo dopo Cristo è attestata in tutto il mondo cristiano. L'espressione joculator prende via via il posto di mimum. Il giullare recita, suona e canta, diverte il pubblico nelle piazze, nelle fiere e nelle campagne.
18 Ramón Menéndez Pidal, "Sobre geografía folklórica. Ensayo de un método", Revista de Filología Españóla, 7, 1920 (Madrid). Pëter Bogatyrëv e Roman Jakobson, "Die Folklore als eine besondere Form des Shaffens", in Roman Jakobson, Selected Writings. IV. Slavic Epic Studies, The Hague-Paris, 1966; tad. it. "Il folclore come forma di creazione autonoma", Strumenti Critici, 3, giugno 1967. L'articolo era inizialmente apparso nel 1929 nel Donum natalicium Schrijnen, Nijmengen-Utrecht.
19 "Qualquier omne que lo oya,/ puede más añadir/ ande de mano en mano/ como pella a las dueñas/ si ben trobar sopiere,/ è enmendar lo que quisiere;/ a quien quier quel pidiere,/ tómelo quien podiere." Juan Ruiz Archipreste de Hita, El libro del buen amor, ed. di Joan Corminas, Madrid, Gredos, 1967.
20 Martin Lutero, Sendbrief vom Dolmetschen (Messaggio sul tradurre), 1530.
21 All'ultima lezione assiste solo l'amico Peter Gast. Nietszche (che ha trentaquattro anni) esclama: "in fondo non ho cercato altro che me stesso".
22 Friedrich W. Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse. Vorspiel zu einer Philosophie der Zukunft (Al di là del bene e del male), 1886, 206.