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Non ho mai capito se l’invidia sia davvero un’emozione o piuttosto un pensiero con pretese metafisiche. Essa non si accontenta di dolere, vuole spiegare, interpretare, insinuare un ordine delle cose in cui tutto – soprattutto il nostro malessere – abbia una ragione. E quella ragione, naturalmente, non siamo noi. Siamo stati danneggiati. Qualcun altro ha avuto ciò che, per una geometria astrale o per tacito accordo universale, spettava a noi. L’invidia è l’irruzione del destino in una casella sbagliata. È la percezione che il mondo, quel mondo che pur non ci era mai stato amico, ora si prenda pure gioco di noi.


Quando l’invidia entra, non bussa. Non la precede un sentore, né un presagio. È già lì, seduta alla nostra scrivania, intenta a correggere la nostra mail con un’espressione di lieve disapprovazione. L’invidia è una creatura meticolosa. Non sbraita, non pretende, non agita cartelli: si limita a insinuarsi, come fa l’umidità nei muri troppo vecchi per difendersi. C’è, e già da tempo. Potrei dire che nasce da qualche insignificante contraddizione tra me e un collega: parole arroganti, giudizi affrettati, un’educazione assente là dove ci si aspetterebbe almeno il rispetto del silenzio. Ma la verità è un’altra: tu, collega, non meriti il mio tempo. Non sei degno della mia attenzione. E proprio per questo non posso nemmeno concederti il privilegio del mio disgusto, né quello – più raro – della mia rabbia. Resta soltanto una domanda, che si ripete come uno sfrigolio sotto pelle: cosa accade dentro di noi quando veniamo urtati nel nostro bisogno di riconoscimento?

Non ho mai capito se l’invidia sia davvero un’emozione o piuttosto un pensiero con pretese metafisiche. Essa non si accontenta di dolere, vuole spiegare, interpretare, insinuare un ordine delle cose in cui tutto – soprattutto il nostro malessere – abbia una ragione. E quella ragione, naturalmente, non siamo noi. Siamo stati danneggiati. Qualcun altro ha avuto ciò che, per una geometria astrale o per tacito accordo universale, spettava a noi. L’invidia è l’irruzione del destino in una casella sbagliata. È la percezione che il mondo, quel mondo che pur non ci era mai stato amico, ora si prenda pure gioco di noi.

Tuttavia, se la si ascolta con attenzione, l’invidia non mente. Non consola, non giustifica, ma nemmeno finge. È un sentimento miserabile, e proprio per questo straordinariamente sincero. A differenza dell’ambizione, che si traveste da vocazione, o della rabbia, che si maschera da giustizia, l’invidia non ha maschere: mostra la ferita, il punto esatto dove avremmo voluto essere toccati dalla grazia. Non è l’altro ad averci umiliati: siamo noi a esserci scoperti mancanti.

A questo punto, il problema diventa serio. Perché se l’invidia ha ragione – se davvero desideriamo ciò che l’altro ha ottenuto – allora siamo chiamati a una scelta difficile: accettare la mancanza come stimolo, o crogiolarsi nella sua contemplazione. Qui si biforca il cammino: da un lato la via greca, quella di Aristotele, che nella Etica Nicomachea suggerisce di trasformare l’emozione in esercizio di virtù, affinando il carattere nella tensione verso ciò che è buono e giusto; dall’altro, la via sotterranea di Nietzsche, che nella Genealogia della morale svela la morbosità dei sentimenti reattivi, la vendetta dei deboli travestita da moralità. In entrambi i casi, l’invidia ci costringe a pensare, e questo è già di per sé un riscatto.

Nel mio lavoro quotidiano – che si svolge tra flussi di progetto e metriche performative – l’invidia si muove con la discrezione di un archivista stanco. Abita i non detti, gli scambi di sguardi, le pause caffè in cui una promozione si commenta con un sorso troppo lungo. È una presenza democratica, seppur maleducata.

L’invidia, come il dolore, può generare metamorfosi

Eppure, ogni emozione ha un doppio fondo. L’invidia, come il dolore, può generare metamorfosi. In un caso che ancora mi accompagna, un collega – brillante, costantemente trascurato – aveva sviluppato un’ironia tagliente come unica forma di sopravvivenza. Nessuno lo notava. Fino a quando, durante una riunione silenziosa, si alzò e disse una frase definitiva: “Mi avete visto fare il mio lavoro, ma non mi avete mai guardato farlo.” Era lì da sempre: serviva solo un altro sguardo.

C’è una saggezza che si apprende solo nel momento in cui si fallisce. E c’è una forma di lucidità che nasce dal sentirsi esclusi. L’invidia, a ben vedere, è un invito segreto a riformulare il nostro rapporto con il merito, con l’attenzione, con la visibilità. E forse anche con il nostro io ideale: quello che ci accompagna come un’ombra goffa, a volte più pesante di noi stessi.

Emozioni come questa non si domano. Non si vincono. Ma si osservano. Si dispongono in uno spazio mentale dove la filosofia – quella antica, quella che ha a che fare con la pratica del vivere – può farci da guida. Marco Aurelio, nelle sue Meditazioni, ci ammoniva con disarmante chiarezza: “Non sono gli eventi a turbarci, ma il nostro giudizio su di essi.” Ma questa affermazione, che pare semplice, è in realtà una trappola. Ci costringe a chiederci: se la mia percezione mi inganna, chi sono io? Se il male che sento non è reale, ma un errore di prospettiva, quale realtà sto rifiutando?

Non sono gli eventi a turbarci, ma il nostro giudizio su di essi.

È a questo punto che qualcosa si apre. Ogni certezza si incrina. Ed è proprio da quella incrinatura che può nascere una forma di resilienza. Non come ritorno alla normalità, ma come attraversamento del dolore. La resilienza non è forza, è rielaborazione. È dire a se stessi: “Non sono ciò che è accaduto, ma ciò che scelgo di diventare ora.” Daniel Goleman, nel suo Intelligenza emotiva, ha mostrato che non si tratta di reprimere le emozioni, ma di imparare a leggerle, a trasformarle in conoscenza di sé e degli altri. È una forma di igiene mentale, una pratica interiore che si coltiva nel quotidiano, tra una riunione e un silenzio.

Chi scrive, chi lavora, chi respira in mezzo ad altri esseri umani sa che la realtà è fatta anche di piccoli urti, di parole non dette, di gesti ambigui. E sa che la scrittura può diventare un modo per attraversare questi attriti, senza farsene corrompere. Giorgio Manganelli – in La letteratura come menzogna – ci ricorda che lo scrivere è artificio, è maschera che rivela più della faccia nuda. La prosa diventa allora lo spazio dove l’invidia può essere accolta senza essere celebrata, osservata senza essere negata.

Non si tratta, in fondo, di migliorarsi. Ma di comprendere. Di accorgersi che ogni emozione è, nel suo nucleo più oscuro, un indizio di umanità. Ed è proprio lì, nel punto in cui ci sentiamo meno nobili, che può annidarsi l’origine del nostro pensiero più lucido. Una forma di pietà verso noi stessi. Un gesto di silenziosa resistenza.


Pubblicato il 09 giugno 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / omnia mea mecum porto