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Nei progetti complessi, la conoscenza spesso si disperde prima ancora di consolidarsi. Questo articolo nasce da un'esperienza sul campo: osservare come si lavora, come si dimentica, come si scrive (o non si scrive) ciò che dovrebbe restare. Non è una teoria sulla documentazione, né una guida tecnica. È una riflessione su ciò che rimane — e su ciò che andrebbe custodito con più attenzione.


Non sempre me ne accorgo subito. A volte passano giorni. Il progetto è finito, il rilascio è avvenuto, il team si è sciolto. Tutto ha funzionato — più o meno. Eppure, resta una domanda che torna ogni volta: che cosa è rimasto davvero?

Non intendo i deliverable. Quelli ci sono. File, report, diagrammi, task chiusi. Intendo ciò che abbiamo capito. Ciò che abbiamo imparato — o non imparato. Le decisioni prese. I dubbi non detti. Le alternative scartate senza ragione. Quello che nessun documento racconta.

In molti contesti si parla di gestione della conoscenza. Ma raramente si prende sul serio. Si fanno backup. Si ordinano cartelle. Si scrivono manuali che nessuno legge. Si confonde la conservazione con la comprensione. Intanto, le persone cambiano. I motivi delle scelte si perdono. Le stesse domande tornano, uguali, nei progetti successivi.

le organizzazioni incapaci di apprendere si condannano a ripetere sempre gli stessi errori

Questa fragilità è stata descritta con lucidità da Peter Senge nel suo La quinta disciplina (ISBN 978-8820379973), quando ha mostrato come le organizzazioni incapaci di apprendere si condannano a ripetere sempre gli stessi errori, anche se cambiano strumenti e persone. Per Senge, non basta migliorare le pratiche. Serve una cultura sistemica, una consapevolezza diffusa dei legami tra decisioni, conoscenze e comportamenti. Ma una cultura del genere si costruisce lentamente, scrivendo.

Nel tempo ho capito che questo accade perché nessuno si prende il tempo di scrivere bene. Scrivere non per obbedienza, ma per costruire. Una guida tecnica, se è fatta con cura, è anche un atto di pensiero. Una cronologia delle decisioni è una forma di onestà. Una documentazione che si aggiorna è una prova di attenzione. Ma tutto questo chiede un impegno che non si vede subito. E per questo viene spesso rimandato, sminuito, scavalcato.

Il problema non è lo strumento. SharePoint, Teams, Google Drive: tutti possono funzionare. Ma non sono progettati per coltivare la conoscenza. Sono pensati per conservarla. Per archiviare. Per replicare. Confluence, quando è usato bene, permette qualcosa di diverso: rende visibile un ragionamento. Rende tracciabile una scelta. Rende vivo un dialogo.

Ma anche qui serve consapevolezza. Senza la volontà di scrivere con precisione, nessuno strumento salva davvero. Perché ciò che conta non è dove si scrive, ma come si pensa. Non basta allegare un file. Bisogna dire cosa contiene. Perché è lì. Come si connette al resto. Chi deve leggerlo. E soprattutto: quando deve essere aggiornato.

C'è un passo in Il cibo come cultura di Massimo Montanari (ISBN 978-8842067483) in cui si riflette su come anche gli alimenti più semplici — il pane, per esempio — siano il prodotto di una storia collettiva, sedimentata nei gesti e tramandata nei dettagli. La conoscenza, in questo senso, non è diversa dal pane. Non si produce una volta sola. Si rinnova ogni giorno. Richiede manutenzione. Richiede mani.

Scrivere così è un lavoro lento. Non ha badge. Non si certifica. Eppure è decisivo. In questi anni ho visto progetti fallire non per errori tecnici, ma per ignoranza organizzativa. Non si sapeva cosa si era deciso. Non si ricordava perché. Non si trovava il documento giusto. Tutti avevano fatto qualcosa, ma nessuno sapeva raccontare il quadro d’insieme.

Jason Brennan, in Contro la democrazia (ISBN 978-8860309466), ha sostenuto che non tutte le opinioni si equivalgono, soprattutto quando le decisioni riguardano sistemi complessi. Eppure, il nostro modo di gestire la conoscenza nei progetti spesso presuppone il contrario: che tutto valga allo stesso modo, che tutto possa essere lasciato a sé stesso. Il risultato è un sapere diseguale, fragile, a volte assente.

L’agilità, se non è accompagnata da riflessione, si trasforma in rumore. Gli sprint diventano cicli vuoti. Le retrospettive si fanno per abitudine. Le board si riempiono di attività che nessuno più legge. Agile smette di essere un metodo e diventa un simulacro. Si lavora tanto, ma si capisce poco.

Anche le certificazioni, in questo quadro, mostrano il loro limite. Offrono l’illusione di un sapere pronto all’uso. Ti danno un’etichetta, un vocabolario, una sequenza di pratiche. Ma non ti insegnano a osservare un contesto. A distinguere un problema reale da una rigidità di processo. A scrivere qualcosa che serva davvero. Il sapere non si scarica. Si costruisce insieme, nel tempo, e spesso a partire dagli errori.

la vera abilità nasce da una pratica quotidiana, attenta, libera da rigidità.

In The Unfettered Mind del maestro zen Takuan Sōhō (ISBN 978-1590309865), si legge che la vera abilità nasce da una pratica quotidiana, attenta, libera da rigidità. Questo vale anche per la scrittura organizzativa: non può essere imposta, ma nemmeno lasciata al caso. Deve nascere da una disciplina interiore. Da un senso del limite. Da un rispetto per chi legge.

Ecco perché ogni progetto finito lascia una traccia diversa. A volte è solo una cartella piena di file. A volte è una consapevolezza nuova. Quando succede, la differenza si sente. Il team non ripete gli stessi sbagli. Si lavora con meno frizione. Si capisce prima. Si parla meglio.

Vorrei che fosse sempre così. Che ogni progetto lasciasse almeno una cosa chiara, scritta bene, leggibile da chi verrà dopo. Un testo. Un disegno. Una pagina. Non per spiegare tutto. Ma per non ricominciare ogni volta dal vuoto.

Scrivere così è parte del mio mestiere. Non è secondario. È ciò che resta.


Pubblicato il 09 giugno 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / omnia mea mecum porto