Considerando il livello diffuso di schizofrenia e di infelicità, che interessa moltitudini di persone, riflettere sul nostro essere nel mondo non è solo necessario, ma urgente. Lo è anche perché l’avvento esponenziale dell’intelligenza artificiale e il ricorso di massa che ne viene fatta, sta indicando che siamo di fronte a una accelerazione nell’algoritmizzazione del mondo e della realtà che fa presagire l’avvento di una nuova specie, non necessariamente amica dell’umano, forse in netta competizione con esso.
La sfida della nostra epoca consiste nello sviluppare un comune capace di farci uscire dalla serializzazione e dall'isolamento (Benasayag)
Viviamo tempi di schizofrenia pura, più aumenta il senso di perdita delle nostre capacità di agire e più cresce il bisogno, persino il desiderio, di delegare ad altri il nostro destino, il nostro stare nel mondo e lo stare bene, la nostra felicità. I tempi di crisi continua che stiamo sperimentando, punto di arrivo di un sistema entropico dalla criticità sempre più elevata, ci fa apparire tutto come oscuro, caotico, denso di pericoli ma soprattutto generatore imperterrito di ansie, incertezze, insicurezze, paure, solitudine, malessere psichico e soprattutto infelicità.
La schizofrenia non interessa solo persone senza strumenti intellettuali, culturali e razional. In mancanza di essi la servitù volontaria e quindi l’infelicità repressa è diventata pratica di vita.
La schizofrenia è anche quella di persone che sono parte attiva nella tecno-narrazione oracolare del momento, una pratica che forse serve a rimuovere il loro aver delegato funzioni crescenti, tipicamente umane, alla macchina e così facendo alla macchina hanno anche delegato quelli che Miguel Benasayag e Francois Jullien chiamano i possibili. La rimozione dell’essere servili, dell’aver delegato, non aiuta, ciò che è rimosso ritorna sempre. Quando ritorna si manifesta nella percezione di una maggiore disgregazione, sofferenza, malessere e quindi infelicità.
Dentro un mondo che non può essere compreso con approcci lineari e riduzionistici, tutti stiamo vivendo una ibridazione crescente con la tecnologia, una ibridazione da me più volte raccontata come anche cognitiva, ma che oggi è andata sempre più diffondendo generando processi intrecciati e interallacciati nei quali umano e macchina non si possono più districare, sono produttori di esistenza e di realtà, stanno dando forma al nuovo mondo, forse ci stanno progressivamente e con lucida perseveranza colonizzando.
La tecnica è sempre stata parte dell’umano, si è co-evoluta con noi, in forma di strumenti, ma soprattutto di cultura che questi strumenti hanno via via plasmato, sempre in contesti di conflittualità ma sempre accolti dalle varie culture umane come via verso una globalizzazione e universalizzazione crescenti, nell’ottica dell’innovazione.
La tecnologia odierna è altra cosa dalla tecnica, non può essere considerata una sua evoluzione. La tecnologia odierna ha perso ogni neutralità, si è fatta mondo, ha colonizzato l’umano sottraendogli la prerogativa della regolazione e della legittimazione, ci ha colonizzato e lo ha fatto in maniera subdola, riempiendoci di regali, gratificazioni, capacità di soddisfare bisogni e desideri, di sostanze dopaminiche e anfetaminiche da cui è diventato quasi impossibile fare a meno.
Tutti, gli occidentali di più, sono davanti al disastro, chiamati a reagire in quanto individui, ma molti sentono ormai la vanità e la inutilità di agire, tutto ormai è diventato astratto, esterno, virtuale. Basterebbe rivolgere lo aguardo alle situazioni vissute, da lì potrebbe venire il coraggio che serve per tornare a esistere
Delega, servitù volontaria, colonizzazione
La difficoltà maggiore scaturisce dai meccanismi di delega, quindi di servitù volontaria, a cui ci siamo legati mani e piedi. A metterci in seria difficoltà c’è poi la velocità con cui tutto avviene. La tecnologia si è ormai innervata in ogni organismo umano, tutte le attività e discipline umane sono state penetrate e forse “definitivamente” conquistate (Inevitabile come scriverebbe Kevin Kelly). Questa pervasità accelerata ci rende difficile la metabolizzazione, ci impedisce di riflettere, ci invoglia a scelte binarie sempre più acritiche e veloci.
L’esempio massimo di questa accelerazione e velocità è riscontrabile nell’avvento delle IA generative, ma forse più che nell’avvento, nella loro democratizzazione e rapida diffusione che ha permesso in breve tempo a tutti di sperimentare nuove forme di creatività (combinatoria la chiama Benasayag) insieme a una macchina. Nel favorire l’apprendimento della macchina IA, nel trovare grande divertimento nelle risposte e soluzioni generate dal dialogo con una delle tante ChatGPT in circolazione, gli utilizzatori umani hanno percepito, forse compreso, di avere a che fare con una intelligenza superiore alla loro. Percezione avvalorata dal fatto che, a forza di pensare lineare, di pensarsi calcolabili e computabili, di rassegnarci a funzionare invece di cercare di esistere, ci si è mano a mano convinti che anche l’umano è una macchina, una semplice collezione di funzioni. Così facendo è stato messo sempre più in secondo piano che, come umani, siamo intangibili (Federico Faggin) siamo un organismo complesso che non può essere disarticolato nei suoi componenti o nelle sue funzioni, ma soprattutto che siamo sempre dentro un ambiente, abitato in modo incarnato e sensibile.
Sapersi difendere da narrazioni perseveranti e celebrative della bontà della tecnologia e di quanto la macchina sia ormai capace di fare tutto (lo si vede molto bene in Ucraina e a Gaza), è diventata opera quasi impossibile. Chi cerca di evitare le camere dell’eco, chi sente emergere nel proprio cervello una domanda che la mente traduce in un pensier critico, si sente a disagio, fuori dal coro, isolato. Ma la difficoltà non è solo individuale e personale, nasce dal fatto che quel pensiero, che si è formato nel cervello e ha trovato la strada sinaptica per dare forma a concetti, pronti per essere trasformati in parole e linguaggio, non è più esclusivamente umano, è anch’esso ibridato, è tecnologicamente modificato, il risultato di una combinatoria che tiene insieme corpi umani e corpi artificiali, contesti fattuali e contesti virtuali, umano e macchina, intelligenza umana e intelligenza artificiale, creatività umana e creatività ChatGPT, ecc.
L’ibridazione è una realtà, bisogna prenderne atto. Ciò di cui bisogna però essere coscienti è che la pratica della delega continua e acritica all’apparato tecnologico che ci sta da tempo riprogrammando, la passività e la pigrizia che ne derivano, l’omologazione nei comportamenti e il conformismo dilagante nelle narrazioni, impedisce di prendere coscienza che stiamo inconsapevolmente dando forma a un mito che si sta ergendo sempre più di fronte a noi come qualcosa di sacro a cui siamo chiamati a genufletterci.
In una società secolarizzata come la nostra, senza più spiritualità e in assenza di forme vissute di trascendenza, contenti di avere superato i limiti che sempre una religione o una divinità (anche laica) sa imporre, ci siamo consegnati a una divinità tecnologica dalle pretese infinite, che si è data il compito di spiegarci cosa sia la realtà, di descriverla e raccontarla, di governarla e di farla accadere, soprattutto di impedirci di farcene una nostra, alternativa, non riducibile a un algoritmo. La realtà che piace alla tecnologia non ha la forma della caverna platonica, non si presenta nella sua forma distopica, ma si racconta come un Paradiso Terrestre, costruito sul divertimento continuo, che ospita innumerevoli meraviglie oltre che numerosissimi meli che mai tenteranno con le loro mele i molti Adamo ed Eva che nel Paradiso hanno eletto la loro dimora. Chi oggi lascerebbe il Paradiso Terrestre per trovarsi nel Limbo e forse anche nell’Inferno?
Se siamo ibridati, se abbiamo sempre meno motivazioni a resistere, cosa possiamo fare per dare forma a una alterità umana capace di non arrendersi e di non farsi colonizzare? Cosa possiamo fare per riaffermare la specificità umana dell’esistenza e della vita, la sua essenza, la sua complessità e impedire che venga privatizzata, resa computabile e calcolabile, proprietà di una macchina colonizzatrice, capace di colonizzare il mondo intero?
Trovare una risposta, che non potrebbe mai essere tecnofobica, sembra oggi molto difficile. Forse è per questo che, per tentarne qualcuna, il percorso da intraprendere è quello dell’essere folli, della follia, alla Erasmo da Rotterdam ma anche nella forma ad essa data dalla STULTIFERANAVIS.
“In un mondo in cui domina l’ignoranza, la follia è essere saggi. Nei tempi in cui ci si affanna a chiedere luce a intelligenze artificiali, la novità sta nell’affidarsi al lume del pensiero umano, della parola e della poesia. Non una rivista, non una piattaforma: un progetto aperto, uno spazio transdisciplinare per condividere conoscenza.”