La questione non è meramente tecnica. Dietro ogni stima, dietro ogni metodologia, dietro ogni strumento che utilizziamo per organizzare il nostro tempo si nasconde una filosofia implicita su cosa significhi lavorare, creare, esistere. Gli story points non sono neutri: incarnano una visione del mondo dove l'attività umana può essere scomposta, misurata, ottimizzata. Sono figli di quella stessa mentalità che ha trasformato la nostra esistenza quotidiana in una serie di metriche: passi camminati, calorie bruciate, ore dormite, interazioni sociali.
Eppure, chi lavora davvero con questi strumenti sa che qualcosa non torna. Un task da 3 story points può richiedere 12 ore di lavoro intenso, mentre un'attività stimata a 8 punti viene completata in una mattinata. Le discrepanze non sono errori del sistema, ma rivelazioni della sua natura profonda: il tentativo di quantificare ciò che è intrinsecamente qualitativo.
Un tempo mi è capitato di seguire un team che aveva implementato Scrum con grande entusiasmo. I primi mesi sembrava funzionare perfettamente: velocity costante, burndown chart lineari, stakeholder soddisfatti. Poi è arrivato il progetto che ha cambiato tutto. Un'app per il settore sanitario, apparentemente semplice. Gli story points suggerivano 3 sprint, ma ci sono voluti 8 mesi. Non per incompetenza, ma perché nessuna metrica poteva prevedere il tempo necessario per comprendere davvero il dominio medico, per costruire la fiducia con gli utenti, per navigare le complessità normative. Il team ha consegnato un prodotto eccellente, ma le metriche lo dipingevano come fallimentare.
il tempo del pensiero, il tempo della creatività, il tempo dell'intuizione non si lasciano catturare dalle nostre metriche
Questa esperienza mostra un aspetto cruciale: il tempo del pensiero, il tempo della creatività, il tempo dell'intuizione non si lasciano catturare dalle nostre metriche. Qui emerge una tensione fondamentale del nostro tempo. Viviamo in un'epoca che ha fatto dell'efficienza la sua religione, dove ogni momento deve essere produttivo, ogni gesto deve essere ottimizzato, ogni pausa deve essere giustificata.
La filosofia contemporanea ha un nome per questo fenomeno: la colonizzazione del tempo vissuto da parte del tempo misurato. Henri Bergson lo aveva intuito oltre un secolo fa nel Saggio sui dati immediati della coscienza, distinguendo tra il tempo dell'orologio e il tempo dell'esperienza. Il primo è uniforme, prevedibile, divisibile; il secondo è elastico, soggettivo, carico di significato.
Quando un bambino gioca, il tempo si dilata fino a contenere universi interi. Quando aspettiamo una diagnosi medica, i minuti si trasformano in eternità. Quando siamo immersi in un'attività che ci appassiona, le ore scivolano via senza che ce ne accorgiamo. Questo è il tempo umano, il tempo che conta davvero per l'innovazione. Ma i nostri strumenti di gestione del lavoro, per quanto sofisticati, non sanno riconoscerlo.
Qui è importante una precisazione. Gli story points, quando utilizzati con consapevolezza, mantengono un valore strategico innegabile. Offrono un linguaggio comune per discutere la complessità, permettono di identificare pattern ricorrenti, facilitano la comunicazione tra team tecnici e stakeholder. Il problema non è lo strumento in sé, ma la sua assolutizzazione.
Come osserva la ricerca dell'Università di Stanford sui team ad alta performance, i gruppi più innovativi alternano fasi di rigore metodologico a momenti di "deriva creativa" non pianificata. La magia accade nell'intersezione: quando la disciplina incontra l'intuizione, quando la pianificazione lascia spazio all'emergenza.
La sfida non è eliminare le metriche, ma abitarle consapevolmente. Utilizzare gli story points non come verità assolute, ma come punti di partenza per una riflessione più profonda sul nostro modo di lavorare. Quando i dati ci mostrano delle discrepanze, invece di aggiustare meccanicamente le stime, dovremmo chiederci: cosa ci stanno dicendo queste differenze? Dove si nascondono i colli di bottiglia? Quali sono le interruzioni invisibili che frammentano il nostro flusso di lavoro?
Questa attenzione al qualitativo non è un lusso intellettuale, ma una necessità competitiva. Nel mondo dell'innovazione tecnologica, le soluzioni migliori nascono spesso da intuizioni imprevedibili, da connessioni inaspettate, da momenti di pausa apparentemente improduttivi. Un algoritmo può ottimizzare i processi esistenti, ma non può inventare nuovi paradigmi. Un'intelligenza artificiale può analizzare milioni di dati, ma non può provare quella particolare forma di noia creativa che precede le grandi scoperte.
Come avvertiva Martin Heidegger in La questione della tecnica, il rischio è che la tecnica diventi fine a se stessa, perdendo di vista il suo ruolo di strumento al servizio dell'umano. Eppure, la nostra società sembra aver dichiarato guerra proprio a questi spazi di inefficienza creativa. Nelle aziende si eliminano i momenti informali di confronto, si schedulano meeting back-to-back, si monitora ogni minuto di attività. Tutto deve essere funzionale, tutto deve essere misurabile, tutto deve essere giustificato in termini di ritorno immediato.
Ma c'è un prezzo nascosto in questa ottimizzazione totale. Quando eliminiamo l'inutile, eliminiamo anche la possibilità del nuovo. Quando algoritmizziamo ogni processo, perdiamo la capacità di pensare al di fuori dei parametri prestabiliti. Quando riduciamo ogni attività a metriche quantitative, dimentichiamo che le breakthrough più significative — quelle che definiscono la leadership di mercato — sono intrinsecamente qualitative.
La resistenza a questa tendenza non può essere nostalgica o reattiva. Non si tratta di tornare a un passato predigitale, ma di trovare nuovi equilibri. Di imparare a usare la tecnologia senza farsi usare da essa. Di mantenere spazi di riflessione all'interno dei nostri processi lavorativi. Di coltivare quella che potremmo chiamare "intelligenza qualitativa": la capacità di riconoscere e valorizzare ciò che non si lascia facilmente misurare.
Come suggeriva Jürgen Habermas in Tecnica e scienza come ideologia, il progresso tecnologico richiede una riflessione etica e sociale continua per non trasformarsi in dominio cieco. Questo vale particolarmente per i leader aziendali, chiamati a bilanciare efficienza operativa e innovazione strategica.
In fondo, ogni metodologia di lavoro è un'antropologia implicita.
Quando scegliamo di usare gli story points, stiamo scegliendo una particolare visione di cosa significhi essere umani al lavoro. Quando preferiamo l'efficienza alla riflessione, stiamo facendo una scelta etica, non solo tecnica. Quando riduciamo la complessità dell'esperienza umana a parametri quantificabili, stiamo perdendo qualcosa di essenziale.
Se davvero vogliamo restituire profondità alla nostra esperienza progettuale nell'era dell'algoritmo, non basta una critica teorica. Occorre aprire lo sguardo a nuove possibilità operative. Ciò che serve è una rinnovata alleanza tra pensiero e azione, tra rigore filosofico e prassi organizzativa.
Immaginate di integrare nei vostri sprint momenti strutturati di riflessione critica. Non retrospettive operative, ma vere e proprie "sessioni di pensiero" dove il team si interroga sulle implicazioni etiche e antropologiche del prodotto che sta costruendo.
Un esempio concreto che ho visto funzionare: ho seguito un'azienda che ha introdotto una "philosophy hour" settimanale. Mezz'ora dove si discute non di codice o timeline, ma di significato. "Cosa significa per un paziente interagire con la nostra app? Quale modello di cura stiamo promuovendo? Che tipo di relazione medico-paziente stiamo facilitando?" I risultati sono stati tangibili: prodotti più coerenti, team più motivato, stakeholder più soddisfatti.
Accanto ai KPI tradizionali, occorre sviluppare indicatori capaci di misurare aspetti come:
- Coerenza narrativa: quanto le diverse funzionalità del prodotto raccontano una storia comprensibile?
- Densità semantica: quanto significato è contenuto in ogni interazione utente?
- Qualità del dubbio: con che frequenza il team si interroga criticamente sulle proprie assunzioni?
- Resilienza interpretativa: quanto il prodotto può essere adattato a contesti diversi da quelli originalmente previsti?
Ogni leader tecnologico dovrebbe familiarizzare con i fondamenti della filosofia della tecnica. Non per diventare filosofo, ma per comprendere le forze che plasmano il nostro presente. Mi è capitato di strutturare percorsi formativi distribuiti su sei mesi, che alternano filosofi classici (Aristotele sull'etica, Kant sulla razionalità) e pensatori contemporanei (Byung-Chul Han sulla società della prestazione, Shoshana Zuboff sul capitalismo della sorveglianza).
L'obiettivo non è sostituire le competenze tecniche, ma arricchirle di una dimensione critica che permetta di navigare la complessità del nostro tempo con maggiore consapevolezza.
L'arte del pensiero nell'era dell'algoritmo consiste proprio in questo: mantenere viva la capacità di interrogarsi, di dubitare, di riflettere. Non per paralizzare l'azione, ma per renderla più consapevole. Non per rifiutare la tecnologia, ma per usarla in modo più umano. Non per eliminare le metriche, ma per ricordare che dietro ogni numero c'è una storia, dietro ogni dato c'è un'esperienza, dietro ogni processo c'è una persona.
La prossima volta che vi troverete davanti a un dashboard pieno di metriche, prendetevi un momento per chiedervi: cosa non stiamo misurando? Quale aspetto qualitativo dell'esperienza umana stiamo trascurando? Che tipo di futuro stiamo costruendo con le nostre scelte operative?
Pensare il tempo, riflettere sull'atto di stimare, restituire significato al gesto di progettare: sono questi gli strumenti con cui potremmo iniziare a decifrare l'epoca che stiamo vivendo. Perché ogni algoritmo, per quanto potente, ha bisogno di una direzione.
E la direzione, in ultima istanza, è sempre una questione di pensiero.