Si avverte sempre più chiaramente l'urgenza di ripensare i fondamenti epistemologici e metodologici del project management. Non è sufficiente aggiornare le tecniche operative o adottare nuovi strumenti digitali: è necessario comprendere come stia cambiando la natura stessa della conoscenza – nella sua produzione, circolazione e applicazione – e come questa trasformazione stia ridefinendo l'essenza del lavoro organizzativo. Di conseguenza, vanno rivisti i paradigmi con cui concepiamo la gestione dei progetti.
Questa riflessione si intreccia con le intuizioni di pensatori che hanno saputo cogliere, prima di altri, la complessità del presente. Friedrich Nietzsche, con la sua capacità di leggere la relazione tra ostacolo e crescita, ci ricorda che le difficoltà non sono solo barriere, ma occasioni di sviluppo. Nassim Nicholas Taleb riprende questa idea nel saggio Il cigno nero. Come l'improbabile governa la nostra vita (Il Saggiatore, ISBN: 9788842814788), mostrando come incertezza e discontinuità non siano deviazioni dal normale, ma tratti strutturali della realtà. In ambito organizzativo, ciò implica accettare l'imprevedibilità come condizione di partenza, non come falla da correggere. La critica nietzscheana alla razionalità strumentale si collega qui alla genealogia del sapere proposta da Foucault: la gestione della conoscenza è anche esercizio di potere, ordinamento del reale, costruzione di verità operative.
La questione diventa epistemologica, prima che tecnica: si tratta di ripensare il project management non più come disciplina del controllo, ma come pratica dell'apprendimento. Alberto Felice De Toni, nella sua Guida Knowledge Management (Il Sole 24 Ore, ISBN: 9788863454208), sottolinea che la gestione della conoscenza non è un'attività accessoria, ma il cuore stesso del lavoro intellettuale. Ogni progetto, in quest'ottica, è un esperimento: una ricerca aperta su ciò che ancora non è stato esplorato. Per dirla con Edgar Morin, bisogna pensare la conoscenza in modo complesso, accettando l'incertezza come dimensione generativa.
Il project manager, in questo scenario, non è più un esecutore di piani. Si avvicina piuttosto alla figura dell'“architetto della conoscenza”, capace di progettare contesti in cui l'apprendimento possa emergere e consolidarsi. Questa postura richiede consapevolezza dei meccanismi con cui si genera e si sedimenta il sapere, tanto a livello individuale quanto collettivo. Innovazione e valore nascono da questi flussi.
Le metodologie Agile, in particolare Scrum, offrono spunti significativi. Jeff Sutherland, in Scrum: fare il doppio del lavoro nella metà del tempo (Rizzoli, ISBN: 9788817084944), mostra come gli sprint non siano solo tecniche di gestione temporale, ma dispositivi che rendono esplicita la conoscenza tacita e promuovono l'apprendimento condiviso. Ogni ciclo diventa così un'occasione di ricerca: il team non si limita a consegnare deliverable, ma costruisce senso, metodo, visione.
La retrospettiva, spesso sottovalutata, rappresenta un punto di svolta. Più che un bilancio, è uno spazio di interpretazione: un luogo in cui l'esperienza si riorganizza in forma di conoscenza operativa. Mario Damiani, in Project Management(Libreria Universitaria, ISBN: 9788833593142), suggerisce che l'efficacia di questi momenti dipende dalla capacità di adottare un pensiero sistemico: leggere pattern, individuare connessioni, cogliere emergenze invisibili a un'analisi lineare.
Un nodo centrale riguarda la conoscenza sommersa. Le organizzazioni accumulano nel tempo enormi quantità di sapere – disseminato tra documenti, email, memorie individuali – che raramente viene sistematizzato. Paola Capitani lo definisce biblioteca invisibile ne Il Knowledge Management (Franco Angeli, ISBN: 9788846472533): un giacimento ricco ma inutilizzato.
Le tecnologie di intelligenza artificiale, e in particolare i sistemi di Retrieval Augmented Generation (RAG), aprono nuove possibilità per valorizzare questi patrimoni. Leonardo D'Itri, in Advanced Knowledge Management: una visione nuova per gestire la conoscenza aziendale (Tecniche Nuove, ISBN: 9788848146036), parla di memoria organizzativa attiva: un sistema capace di generare connessioni inedite, suggerire alternative, supportare decisioni complesse. Ma l'automazione solleva domande cruciali: come conservare la componente interpretativa dell'intelligenza umana? Come evitare che la standardizzazione riduca la diversità cognitiva?
Una possibile risposta arriva da Carol Dweck, che in Mindset: come sviluppare il proprio potenziale (Franco Angeli, ISBN: 9788891744029), distingue tra mentalità fissa e mentalità di crescita. L'approccio trasformativo alla conoscenza richiede capacità di apprendere dagli errori, di adattarsi, di evolvere. Non è questione di nozioni, ma di plasticità cognitiva.
A questa si affianca l'idea di responsabilità radicale formulata da Jocko Willink in Disciplina è libertà (Alta Books, ISBN: 9786555204896): assumersi il peso dell'azione come atto conoscitivo. Ogni errore è un indicatore epistemico. Ogni fallimento, un sintomo del modo in cui interpretiamo il mondo.
La conoscenza, infatti, non si possiede: si costruisce nel dialogo tra differenze, attraverso un processo continuo di scambio, negoziazione e co-creazione. È questa la premessa su cui si fonda il modello di intelligenza distribuita proposto dall’Istituto Italiano di Project Management nella sua Guida alle conoscenze di base (Franco Angeli, 6ª edizione, 2023). In tale visione, la competenza organizzativa non nasce dalla concentrazione del sapere in figure specialistiche o in repository centralizzati, ma dalla capacità dell’organizzazione di far circolare le conoscenze, di ricombinarle e rigenerarle nel tempo, grazie all’interazione tra persone, ruoli e contesti.
Questo principio si ritrova in forma affine nel pensiero del filosofo cinese Zhao Tingyang, che nel concetto di Tianxia — letteralmente “tutto ciò che sta sotto il cielo” — descrive un ordine politico e cognitivo relazionale, fondato non sulla dominanza ma sull’interdipendenza. La conoscenza, in questo schema, è il prodotto di un equilibrio dinamico tra i soggetti coinvolti, una costruzione collettiva che si sviluppa nella co-evoluzione dei punti di vista e nella capacità di includere la pluralità delle prospettive. Applicato al project management, questo implica superare l’idea del team come aggregato di competenze individuali per considerarlo un sistema cognitivo interconnesso, capace di apprendere, adattarsi e innovare attraverso la collaborazione.
Tanto il modello occidentale dell’intelligenza distribuita quanto quello orientale del Tianxia convergono nel rifiuto dell’approccio proprietario alla conoscenza: nessuno “detiene” davvero il sapere. Lo si custodisce solo nella misura in cui lo si condivide. In contesti organizzativi complessi, questa impostazione rappresenta una risorsa strategica per sviluppare resilienza, anticipazione e creatività collettiva.
In questa direzione si muovono anche autori sudamericani come Anibal Quijano, che ha criticato il colonialismo epistemico sotteso ai modelli organizzativi occidentali, invitando a recuperare forme di sapere locali e comunitari. Lo stesso tema attraversa le ricerche dell'antropologa egiziana Lila Abu-Lughod, che mostra come la conoscenza sia situata, contestuale, e profondamente connessa alle relazioni sociali.
A partire da queste prospettive, diventa possibile immaginare un project management non gerarchico, ma rizomatico: un sistema in cui ogni progetto è nodo, ogni team laboratorio, ogni individuo agente cognitivo. L'apprendimento è collettivo, iterativo, co-creativo. E la valutazione dei risultati non può più basarsi solo su performance, ma su metriche di apprendimento, adattività, capacità di innovazione.
Esperienze concrete mostrano la praticabilità di questo approccio. Netflix, con il Chaos Engineering, introduce volutamente errori per testare la resilienza. In ambito industriale, alcune imprese giapponesi e coreane sperimentano supply chain che si ottimizzano attraverso analisi sistemiche dei propri fallimenti.
Anche in contesti come l’Afghanistan, lontani dagli standard industriali e dalle architetture informative digitalizzate, si sviluppano modelli di apprendimento e gestione del sapere sorprendentemente efficaci, se osservati con uno sguardo sistemico. Le ricerche del sociologo Osman Qane, insieme a numerosi studi antropologici sul campo, mostrano come le comunità afghane abbiano elaborato, nel tempo, modalità di trasmissione e conservazione del sapere profondamente resilienti, fondate sulla narrazione orale, sulla ripetizione rituale e sulla memoria intergenerazionale.
All’interno di queste comunità, strumenti decisionali collettivi come la shura o la jirga svolgono funzioni assimilabili a quelle delle moderne riunioni strategiche o delle retrospettive agile: sono contesti in cui si elaborano decisioni, si interpretano eventi critici, si aggiornano collettivamente le conoscenze, integrando esperienza pratica e valori condivisi. A differenza dei modelli occidentali basati su repository digitali e knowledge base formalizzate, il sapere in questi contesti si costruisce e si rinnova nell’atto stesso della comunicazione: non è archiviato, ma intrecciato nelle relazioni, nei ruoli sociali, nelle dinamiche di fiducia. È un sapere performativo e situato.
Tali dinamiche, se trasposte criticamente nel dominio del project management, invitano a riconsiderare il valore delle pratiche informali, delle conversazioni non strutturate, delle memorie distribuite tra i membri del team. Ricordano che non tutta la conoscenza utile a un progetto può (o deve) essere codificata. Esistono forme di intelligenza collettiva che si attivano solo nel dialogo, nella reciprocità e nell’ascolto attivo. In contesti di alta complessità, dove i sistemi formali risultano rigidi o inadeguati, la capacità di valorizzare queste forme di sapere fluido può fare la differenza tra l’adattamento e la paralisi.
In questa prospettiva, l’Afghanistan non rappresenta un’eccezione arcaica, ma una cartina di tornasole per riflettere su ciò che manca – o viene trascurato – nei modelli organizzativi dominanti: l’attenzione al tempo lungo dell’apprendimento, la centralità della fiducia, la trasmissione del sapere attraverso l’esperienza, la parola e il gesto condiviso. Un project management che voglia davvero farsi carico della complessità dovrebbe imparare anche da queste pratiche ancestrali, integrandole in un approccio più ampio alla conoscenza, meno dipendente da strumenti e più radicato nelle persone.
Tuttavia, ogni trasformazione è anche un passaggio culturale. Le barriere non sono solo tecniche, ma valoriali. Il conformismo cognitivo, la paura dell'errore, la gerarchizzazione delle competenze ostacolano la nascita di organizzazioni realmente apprendenti. Servono leadership riflessive, ambienti sicuri, incentivi alla sperimentazione.
In definitiva, la conoscenza non è una risorsa da gestire: è il linguaggio stesso con cui un'organizzazione costruisce il proprio futuro. Il project manager di domani non può limitarsi a controllare: deve saper curare, orchestrare, generare senso. Agisce su tre livelli: operativo, strategico, metacognitivo.
Questa pratica non è un lusso, ma una necessità. Le organizzazioni che sapranno attuarla svilupperanno un vantaggio evolutivo: sapranno navigare l'incertezza, valorizzare la diversità, apprendere dall'errore. Saranno capaci di pensare, agire e trasformarsi.
Non si tratta di aggiornare il project management. Si tratta di rifondarlo.