Negli anni ho imparato che il problema non è l’ignoranza, ma il controllo. Non la mancanza di idee, ma la paura di decidere. Lo vedo ogni giorno: in riunioni in cui si parla senza ascoltare, in progetti che si trascinano senza mai partire, in manager che anziché guidare sorvegliano. Il paradosso delle organizzazioni moderne è proprio questo: chiedere pensiero e premiare automatismi. Così, anche le intelligenze più lucide finiscono per adattarsi. E in questo adattamento silenzioso, ma pervasivo, si perde ciò che serve di più: la fiducia nel pensiero altrui.
È in questo scenario che ho deciso di confrontarmi con Giuseppe Conte. Una di quelle persone con cui si può davvero approfondire il tema perché, da trent'anni, osserva i mondi del lavoro e della tecnologia con uno sguardo filosofico e critico. Il suo pensiero, mai compiacente, è sempre una sfida a vedere oltre la superficie. Ho posto quattro domande per offrire al lettore uno spunto di riflessione e di eventuale approfondimento in autonomia.
Calogero Bonasia: "Ti è mai capitato di assistere — o subire — situazioni in cui l’intelligenza di colleghi o collaboratori veniva sistematicamente ignorata o svalutata? Come lo hai interpretato?"
Giuseppe Conte: "Parto dalla mia accezione di intelligenza, che intendo come un insieme di qualità che modulano la relazione organismo/ambiente, individuo/gruppo. Qualità le cui manifestazioni sono comportamenti capaci di proporre e affrontare situazioni che presentano margini di incertezza o imprevedibilità ideando approcci non tradizionali o stereotipati.
Allo stesso tempo dobbiamo considerare le dinamiche sociali che formano un gruppo, ne mantengono la gerarchia interna, sia essa manifesta o meno, e ne garantiscono la stabilità. Spesso sono proprio queste le dinamiche che collidono con le manifestazioni di intelligenza.
Infatti, in mancanza di una cultura che condivida onestamente i valori di diversità, creatività e fiducia, emergono arcaici modelli comportamentali basati esclusivamente sul già conosciuto, sul prevedibile, sul quantificabile in quanto sperimentato innumerevoli volte.
In questa soluzione tossica, ogni nuova idea, e con essa il suo latore, se potenzialmente capace di produrre un cambiamento, è stigmatizzata e ostacolata.
In questi anni ho osservato molti casi del genere. Idee brillanti accantonate o svalutate perché non utili a favorire le esigenze di potere o visibilità degli alfieri dello status quo. Innovazione, delega, cambiamento, etica, evoluzione divengono così vuote parole inserite nell’ennesima presentazione che un umano non preparerà e un umano non leggerà".
Calogero Bonasia: “Quindi riunioni come teatro della non-decisione. Pensi che sia davvero così per molte aziende? E secondo te perché si è affermata questa prassi?"
Giuseppe Conte: "Frequentemente le dinamiche sociali la fanno da padrone nei progetti e nelle infinite riunioni che li accompagnano. In tali rappresentazioni sociali non si cerca di addivenire a soluzioni bensì a sorvegliare passivamente che gli ambiti di competenza e i ruoli definiti siano rispettati. Il risultato si traduce in riunioni virtualmente numerosissime dove in realtà i partecipanti prestano un’attenzione selettiva solo a termini e argomenti che potrebbero rappresentare un loro coinvolgimento. Nelle dinamiche che ho osservato ci sono sempre pochissimi che parlano di fronte ad una platea muta e che spesso si ritrovano frustrati dalla mancanza di iniziativa che sovente interpretano genericamente come inerzia organizzativa".
Calogero Bonasia: "Hai mai lavorato con un manager che esercitava un controllo ossessivo su ogni dettaglio? Che effetti ha avuto sul team e sulla tua motivazione personale?"
Giuseppe Conte: "Uno dei mantra presente in ogni organizzazione e recitato con passione negli incontri plenari è quello che recita: “ognuno può sbagliare” o, nella sua altra forma: “solo chi non lavora non commette errori”. Belle parole che coprono come una foglia di fico allorché si ha il sospetto ci sia stato un errore da parte di qualcuno. In questi casi la retorica è accantonata e il manager di turno, tra frustrazione e risentimento, decide di dedicare il tempo che non ha a seguire personalmente la situazione e il collaboratore indiziato dell’errore.
Naturalmente gli effetti sistematici di questa impulsività non tardano a mostrarsi. Proprio perché siamo animali sociali, non riceviamo informazioni come fossimo all’estremità di un filo di rame, bensì assorbiamo e ci adattiamo continuamente al nostro ambiente. Intelligenza, come ho già sostenuto. La situazione appena descritta, che superficialmente pare aver interessato solo un membro del team, in realtà coinvolge una rete di relazioni difficilmente stimabile. Di sicuro ogni altro collaboratore “impara” dall’episodio che è opportuno mantenere una posizione defilata, seguendo sempre procedure canoniche, chiedendo conferma al manager per ogni inezia ed essendo pronto a trasferire una responsabilità o a mettersi in posizione di attesa di input esterni non appena si ravvisano potenziali problemi".
Calogero Bonasia: “Veniamo all’ultima domanda. Cosa significa, per te, fidarsi dell’intelligenza degli altri sul lavoro? Hai vissuto esperienze in cui la fiducia ha generato risultati migliori del controllo?"
Giuseppe Conte: "In ogni comunità umana la fiducia è l’unico vero collante. Aver fiducia in qualcuno vuol dire uscire dalle ricorrenti dinamiche tossiche appena descritte. Personalmente, considero il controllo un sintomo di fallimento. Allo stesso tempo lo è il disinteresse, a volte mascherato da delega.
Il dare fiducia è sapere costantemente che si è parte di un gruppo dove ognuno è, fortunatamente, diverso. Da ciò la coscienza che ogni attività svolta dall’altro non potrà essere uguale a quella che faremmo noi e che ciò non ha una valenza negativa.
Nelle mie prime esperienze di coordinamento, molti anni orsono, senza rendermene conto, adottai un approccio legato al controllo. I risultati furono mediocri per il progetto e catastrofici a livello di relazioni e motivazione personale dei membri del team.
Negli anni ho cambiato approccio e ormai da molto tempo ho scelto, anche grazie ai miei studi, di preferire la fiducia al controllo. Spesso, è vero, mi sembra di perdere informazioni importanti sulle attività del singolo, ma ne sono ampiamente ripagato dal rilevare soluzioni brillanti di altri a problemi che ignoravo o sottovalutavo. Questo perché ognuno è immerso in una trama di relazioni unica e pretendere di conoscere e fare irruzione in quella degli altri è presuntuoso e inefficace. C'è da dire tuttavia che, proprio per quanto detto in precedenza, quest’approccio non aiuta nella carriera personale spesso alimentata da narrazioni su figure eroiche, determinate, risolutrici, capaci di accentrare su di sé il potere e le decisioni alla prima traversia".
Le parole di Giuseppe non solo confermano quanto osservato sul campo, ma mostrano che la paura di decidere non è solo un difetto gestionale — è una forma di regressione culturale. Tracciano una genealogia profonda del problema, risalendo alle dinamiche arcaiche che ancora abitano le nostre organizzazioni. In una cultura del controllo, l'intelligenza diventa disturbante, e perciò va disinnescata. Ma se davvero vogliamo costruire contesti di lavoro vivi, pensanti, aperti al futuro, dovremo reimparare a fidarci. Fidarsi non significa abdicare, ma rinunciare al delirio del controllo totale. E accettare, finalmente, che la complessità è materia viva, non algoritmo. Che ogni progetto umano è anche un progetto relazionale. E fidarsi — oggi — è forse l’unico atto davvero rivoluzionario.
Per chiudere e segnalare come al solito in bel libro da leggere, trovo attinente al tema "Miseria dello sviluppo", di Piero Bevilacqua, perché contesta l’idea che l’organizzazione moderna sia sempre razionale o progressiva. Bevilacqua mostra che molti sistemi aziendali, pur dichiarando efficienza e innovazione, in realtà reprimono il dissenso, l’inatteso e il coraggio del pensiero. Anche le intelligenze più lucide finiscono per adattarsi e nel suo libro Bevilacqua ci spiega da dove viene questa adattabilità passiva e perché è così pericolosa.