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L’AI e il futuro del lavoro

Come cambia il capitalismo nell’epoca dell’intelligenza artificiale? È da questa domanda che nasce l’idea di interrogare Karl Marx come strumento critico per leggere un presente in cui lavoro, potere e tecnologia si stanno trasformando con una rapidità senza precedenti.
Marx è uno dei pensatori più influenti dell’età moderna perché ha analizzato con rigore il legame tra struttura economica e rapporti sociali. Secondo lui, la produzione materiale non è soltanto un’attività tecnica, ma il terreno su cui si modellano le istituzioni, le identità e le idee. È l’“essere sociale”, afferma, a determinare ciò che pensiamo e il modo in cui viviamo insieme.
Questa prospettiva è particolarmente utile oggi, quando l’intelligenza artificiale riorganizza la produzione, misura il tempo, automatizza il lavoro, governa il flusso dei dati e ridisegna i rapporti di forza tra chi possiede le piattaforme e chi vi lavora dentro.
La sua analisi delle classi sociali, della produzione di valore e delle dinamiche di potere permette di leggere l’AI non come una semplice innovazione tecnica, ma come una nuova fase del capitalismo, con conseguenze profonde su lavoro, diritti e democrazia.
Questa intervista impossibile adotta il metodo di Marx per interrogarlo sull’intelligenza artificiale non come semplice innovazione tecnica, ma come forza sociale. L’obiettivo è capire che cosa l’AI produce nella struttura della società, quali rapporti di potere rafforza, quali forme di lavoro trasforma, quali disuguaglianze accentua o ridisegna.


1. Tecnologia e forze produttive

CAB: L’intelligenza artificiale sta trasformando gli strumenti di produzione più velocemente di qualsiasi tecnologia precedente. È un passo verso la liberazione dal lavoro o verso nuove forme di dominio?

KARL MARX: Che le forze produttive si sviluppino con rapidità crescente non è un fatto nuovo. Nel Manifesto abbiamo scritto che la borghesia è costretta a “rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione”. La novità dell’intelligenza artificiale non è quindi il progresso tecnico in sé, ma la scala e la velocità con cui questa trasformazione investe ogni settore della vita sociale.

Bisogna però essere chiari, lo sviluppo delle forze produttive non è mai neutrale. Avviene dentro rapporti sociali concreti, in cui una classe possiede i mezzi di produzione e un’altra è costretta a vendere la propria forza lavoro per vivere. Finché questi rapporti restano intatti, ogni nuova macchina - che sia un telaio meccanico o un algoritmo generativo - viene usata prima di tutto per rafforzare il potere del capitale sul lavoro.

L’automazione, nel capitalismo, ha sempre una doppia faccia. Da un lato aumenta la produttività, rende possibile produrre più beni in meno tempo. Dall’altro lato, riducendo il bisogno di lavoro vivo, espelle lavoratori, li rende superflui, li trasforma in “esercito industriale di riserva”, una massa di persone che serve a tenere bassi i salari e ad aumentare la dipendenza da chi possiede le macchine.

L’intelligenza artificiale non sfugge a questa logica. Il capitale la utilizza per sostituire una parte crescente del lavoro umano, controllare e misurare quello che resta, e concentrare ulteriormente conoscenza e potere nelle mani di pochi grandi proprietari di dati e infrastrutture.

La domanda se l’AI possa “liberare dal lavoro” è quindi mal posta. In astratto, una società che disponesse di strumenti così potenti potrebbe ridurre drasticamente il tempo di lavoro necessario e allargarne i benefici a tutti. Nella realtà capitalistica, questi strumenti vengono impiegati per aumentare il plusvalore, non per allargare la libertà.

Per cambiare il senso dell’automazione non basta celebrare l’innovazione, bisogna cambiare i rapporti di produzione. Finché gli algoritmi restano proprietà privata di pochi, essi serviranno a ridurre i costi, controllare la forza lavoro e rafforzare il dominio di classe. Solo quando i produttori associati controlleranno collettivamente i mezzi di produzione - compresi quelli digitali - lo sviluppo tecnologico potrà diventare davvero un passo verso la liberazione, e non un ulteriore perfezionamento del dominio.

2. Lavoro cognitivo e alienazione

CAB: Oggi molti lavoratori producono dati, conoscenza, modelli algoritmici. È ancora possibile parlare di alienazione?

KARL MARX: Parlate di “lavoro cognitivo” come se fosse qualcosa di completamente nuovo. In realtà, dal punto di vista dei rapporti sociali, non è cambiato l’essenziale.

L’alienazione non nasce dal tipo di attività - manuale, intellettuale, creativa - ma da chi controlla i mezzi di produzione e il prodotto del lavoro. Che si tratti di una catena di montaggio o di una piattaforma digitale, la questione è sempre la stessa. chi decide gli scopi, chi possiede gli strumenti, chi si appropria del risultato?

Quando, in Per la critica dell’economia politica, analizzo il lavoro salariato, mostro che il lavoratore non vende “talento” o “creatività”, ma tempo di lavoro. Durante quel tempo, ciò che produce non è suo, il prodotto esce dalle sue mani e rientra nel movimento del capitale. Diventa una forza estranea che si contrappone a lui, lo giudica, lo misura, lo sostituisce se non è abbastanza redditizio.

Nel lavoro cognitivo accade la stessa cosa, solo in forme più sofisticate. Pensate a chi addestra modelli di intelligenza artificiale con i propri dati e i propri contenuti, produce codice, testi, immagini per piattaforme che accumulano tutto ciò in enormi archivi proprietari, o lavora sotto valutazioni continue con punteggi, metriche di performance, feedback automatici.

Qui l’alienazione ha almeno tre dimensioni chiare:

  1. Il prodotto è separato dal produttore. Ciò che il lavoratore crea - un modello, un dataset, un algoritmo di raccomandazione - non gli appartiene, né materialmente né simbolicamente. Può perfino essere usato per controllarlo, per valutarlo, per rimpiazzarlo.
  2. Il fine è esterno al lavoratore. Il lavoro non è orientato ai bisogni collettivi o allo sviluppo delle capacità umane, ma all’aumento del profitto e del potere competitivo dell’impresa. Che il prodotto sia utile o dannoso socialmente è irrilevante, finché è redditizio.
  3. L’essere umano è ridotto a mezzo. Le competenze, le relazioni, la creatività vengono trattate come “risorse” da ottimizzare. L’individuo è inserito in un sistema di obiettivi, scadenze e indicatori che lo costringono ad adattarsi alla logica della macchina, non il contrario.

Capisco che molti lavoratori cognitivi si percepiscano come “autonomi”, “creativi”, “imprenditori di sé stessi”. Ma questa libertà è, per lo più, una forma mascherata di dipendenza. Si è liberi finché si genera valore per il capitale, quando non lo si genera più, la libertà termina.

Finché il lavoratore - manuale o cognitivo - deve vendere la propria forza lavoro per vivere, e non decide né gli scopi né la distribuzione del prodotto sociale, parlare di “fine dell’alienazione” significa solo cedere alla nuova ideologia del capitale, non descrivere la realtà.

3. Sorveglianza e disciplina del lavoro

CAB: Molti ambienti di lavoro sono governati da algoritmi che misurano ogni gesto, ogni pausa, ogni clic. Come leggerebbe questa forma di controllo?

KARL MARX: Nel capitalismo la produzione è sempre stata organizzata come un esercito. Nel Capitale descrivo la fabbrica come un luogo in cui il capitalista comanda e gli operai obbediscono, secondo una disciplina che non ha nulla di naturale, è una necessità del processo di valorizzazione, non del lavoro in quanto tale.

Oggi gli algoritmi non cambiano questa struttura, la rendono più fine e più invisibile. Dove prima c’era il sorvegliante in carne e ossa, ora c’è un sistema che registra velocità, errori, pause, umore del cliente, tempo passato su ogni schermata. Il lavoratore - che sia in magazzino, in ufficio o davanti a uno schermo a casa - viene scomposto in unità di tempo, gesti, prestazioni confrontabili e classificabili.

Per il capitale, la sorveglianza digitale ha almeno tre funzioni:

  1. Aumentare il plusvalore, riducendo ogni “tempo morto” e rendendo più intenso il lavoro, più operazioni nello stesso numero di ore.
  2. Rendere sostituibile ogni individuo, costruendo un archivio continuo di misure, punteggi, valutazioni che permettono di confrontare tutti con tutti e di usare la minaccia del licenziamento come strumento permanente di disciplina.
  3. Interiorizzare il comando, perché quando il controllo è continuo e automatico il lavoratore impara a sorvegliarsi da solo, adeguando spontaneamente comportamento e ritmo alle esigenze dell’impresa.

Non si tratta quindi di una deviazione patologica, ma di una conseguenza coerente del sistema. Se il profitto nasce dall’estrazione di tempo di lavoro non pagato, ogni tecnologia che permette di spremere più lavoro nello stesso tempo sarà adottata.

Per questo la risposta non può essere solo individuale. Il disagio del singolo - stress, ansia, senso di essere osservato - è reale, ma finché resta sul piano personale non modifica il rapporto di forza. La resistenza comincia quando chi è sottoposto agli stessi strumenti di controllo si riconosce come parte di una stessa classe, mette in discussione collettivamente le forme di sorveglianza, rivendica limiti, trasparenza, e alla fine il potere di decidere come e perché le tecnologie vengono usate.

Finché il potere di sorvegliare resta nelle mani di chi possiede i mezzi di produzione, gli algoritmi saranno - sotto un lessico tecnico e rassicurante - una forma raffinata di quel “dispotismo di fabbrica” che ho descritto nell’Ottocento. Cambiano gli strumenti, non il rapporto sociale che essi servono.

4. L’ideologia digitale e il feticismo della merce

CAB: L’intelligenza artificiale viene spesso presentata come oggettiva, quasi infallibile. È una nuova forma di ideologia?

KARL MARX: Ogni società ha bisogno di raccontarsi una storia che giustifichi l’ordine esistente. Questa storia non si presenta come “propaganda”, ma come buon senso, come modo naturale di vedere il mondo. Questo è ciò che chiamo ideologia.

Nel Capitale ho mostrato come, nel capitalismo, i rapporti fra le persone appaiano come rapporti fra cose. È il feticismo della merce. Dietro il prezzo di una merce c’è un rapporto di sfruttamento fra capitalista e lavoratore ma noi vediamo solo l’oggetto e il suo valore sul mercato, come se fosse qualcosa di naturale, quasi magico. La merce sembra avere un valore “per natura”, mentre nasconde il lavoro umano che l’ha prodotta e il conflitto sociale che attraversa questo lavoro.

Con l’intelligenza artificiale accade qualcosa di simile, ma su una scala più complessa. L’algoritmo viene presentato come neutrale (“si basa sui dati”), oggettivo (“non ha emozioni”), e razionale (“decide solo in base ai numeri”). In realtà, l’AI è il risultato di una lunga catena di decisioni umane: quali dati raccogliere e quali escludere, quali obiettivi ottimizzare (profitto, riduzione dei costi, controllo, rischio legale), e quali errori considerare accettabili e su chi farli ricadere.

Dentro ogni algoritmo ci sono interessi economici, asimmetrie di potere, preconcetti sociali sedimentati nei dati. Non è una mente autonoma ma una cristallizzazione tecnica dei rapporti di forza esistenti. L’ideologia digitale entra in gioco quando questa origine viene nascosta e il sistema viene presentato come una sorta di giudice impersonale: “lo dice l’algoritmo”, “è colpa dei dati”, “la macchina ha deciso”.

In questo modo, decisioni profondamente politiche - chi viene assunto, chi riceve un prestito, quale quartiere è sorvegliato di più, quale contenuto viene mostrato o oscurato - appaiono come effetti inevitabili di una tecnica neutrale.

È qui che l’AI diventa una nuova forma di feticismo. Invece di vedere rapporti sociali (tra piattaforme e lavoratori, tra Stati e aziende, tra chi possiede i server e chi fornisce i dati), vediamo “Intelligenza Artificiale” come se fosse un soggetto autonomo, dotato di volontà e verità proprie.

Finché l’algoritmo viene trattato come un “oracolo” e non come un prodotto storico di un certo modo di produrre e dominare, l’AI funziona come una religione del capitale. Dà una giustificazione tecnica a decisioni che nascono da interessi di classe, trasferisce la responsabilità politica sulle macchine, e rende più difficile mettere in discussione chi comanda e chi viene comandato.

Smontare questa ideologia significa riportare l’AI a strumento di una determinata organizzazione sociale, che può e deve essere criticata, regolata e, se necessario, trasformata.

5. Crisi, lotta di classe e futuro del lavoro

CAB: Se l’automazione riduce drasticamente il lavoro umano, quale forma prenderà - se ancora esiste - la lotta di classe?

KARL MARX: In Per la critica dell’economia politica ho sostenuto che, a un certo punto, le forze produttive - cioè la capacità tecnica, scientifica e organizzativa di produrre ricchezza - entrano in conflitto con i rapporti di produzione esistenti, cioè con il modo in cui la proprietà e il potere economico sono distribuiti nella società.

L’automazione spinta fa esattamente questo, rende possibile produrre sempre più beni e servizi con sempre meno lavoro umano, ma dentro un sistema che continua a funzionare come se il lavoro salariato fosse l’unica via per sopravvivere. Da una parte cresce la ricchezza sociale, dall’altra cresce l’insicurezza di chi vive vendendo la propria forza lavoro.

Questa contraddizione non può durare senza conseguenze. La classe che vive di salario può seguire, semplificando, due strade:

  1. Diventare massa emarginata. Se accetta passivamente la logica del capitale, i lavoratori e le lavoratrici vengono dispersi: una parte sostituita dalle macchine, una parte frammentata in lavori precari, piattaforme digitali, micro-lavori pagati a cottimo, molti relegati in forme di assistenza minima, ciò che è stato definito reddito universale. In questo scenario, la lotta di classe non sparisce, ma si esprime come rabbia diffusa, conflitto senza organizzazione, guerra tra poveri.
  2. Diventare forza organizzata di trasformazione. Se invece il proletariato - in tutte le sue forme nuove: operai della logistica, lavoratori cognitivi, rider, impiegati dei servizi, disoccupati strutturali - riconosce che le macchine sono il risultato del suo stesso lavoro sociale, può maturare una consapevolezza diversa. Se oggi è possibile produrre molto di più con molto meno lavoro, allora non ha più senso organizzare la società attorno al profitto di pochi, ma attorno ai bisogni di tutti. In questo caso, la lotta di classe si sposta sul terreno del controllo delle tecnologie, della proprietà dei dati e delle infrastrutture digitali, e della redistribuzione del tempo liberato dalle macchine.

Il compito del capitale è usare l’automazione per intensificare lo sfruttamento e ridurre il costo del lavoro. Il compito di chi lavora è rovesciare la prospettiva, trasformare il tempo liberato in tempo di vita, ridurre l’orario di lavoro, socializzare i mezzi di produzione - oggi anche algoritmi, piattaforme, reti - e orientare la produzione verso bisogni sociali e non verso il solo valore di scambio.

Per questo dico: il conflitto non scompare, cambia forma. Si gioca meno soltanto sul salario e più su chi decide come usare le potenzialità tecniche dell’umanità: se per consolidare un’economia di esclusione, o per aprire la strada a una società in cui la ricchezza prodotta collettivamente sia gestita collettivamente.


Breve bio di Karl Marx

Karl Marx (1818 - 1883) è stato uno dei pensatori più influenti dell’età moderna. Filosofo, economista e teorico rivoluzionario, ha cercato per tutta la vita di capire come funziona la società moderna e perché il capitalismo genera insieme ricchezza enorme e miseria diffusa. Nei suoi scritti più importanti - dal Manifesto del Partito Comunista (1848) a Miseria della filosofia (1847) , fino a Per la critica dell’economia politica (1859) - ha sviluppato una visione unitaria che unisce analisi economica, storia e critica politica.

Al centro del suo pensiero c’è il materialismo storico, l’idea che il modo in cui produciamo e distribuiamo i beni di cui abbiamo bisogno (il “modo di produzione”) condiziona la forma delle istituzioni, del diritto, della cultura e perfino delle idee. Non è la coscienza a determinare la vita sociale, scrive Marx, ma è “l’essere sociale che determina la coscienza”. La storia diventa così storia di lotte di classe e conflitti tra gruppi sociali che hanno interessi opposti perché occupano posizioni diverse nel processo produttivo.

Nel capitalismo, questo conflitto prende la forma dell’opposizione tra borghesia (chi possiede i mezzi di produzione) e proletariato (chi possiede solo la propria forza lavoro). In Il Capitale, la sua opera maggiore, Marx analizza in dettaglio la merce, il denaro, l’organizzazione della fabbrica e introduce la teoria del plusvalore: la parte di valore prodotta dall’operaio e non pagata nel salario, che è alla base del profitto capitalistico.

Da qui derivano concetti chiave come sfruttamento, alienazione (la perdita di controllo sul proprio lavoro e sul senso della propria vita) e feticismo della merce, cioè la tendenza a vedere come proprietà naturali delle cose ciò che in realtà sono rapporti sociali.


IIP nasce da una curiosità: cosa direbbero oggi i grandi pensatori del passato di fronte alle sfide dell’intelligenza artificiale? L’idea è di intervistarli come in un esercizio critico, un atto di memoria e, insieme, un esperimento di immaginazione.

Ho scelto autori e intellettuali scomparsi, di cui ho letto e studiato alcune opere, caricando i testi in PDF su NotebookLM. Da queste fonti ho elaborato una scaletta di domande su temi generali legati all’AI, confrontandole con i concetti e le intuizioni presenti nei loro scritti. Con l’aiuto di GPT ho poi generato un testo che immagina le loro risposte, rispettandone stile, citazioni e logica argomentativa.

L’obiettivo è riattivare il pensiero di questi autori, farli dialogare con il presente e mostrare come le loro categorie possano ancora sollecitarci. Non per ripetere il passato, ma per scoprire nuove domande e prospettive, utili alla nostra ricerca di senso.

Pubblicato il 11 dicembre 2025

Carlo Augusto Bachschmidt

Carlo Augusto Bachschmidt / Architect | Director | Image-Video Forensic Consultant