Go down

Capita spesso, nelle case abitate da amori stanchi, che certe parole finiscano per graffiare. Ogni sguardo può aprire crepe in una relazione a cui, nel tempo, non è stata fatta manutenzione (di solito a causa di incuria con buona fede). Il dialogo sembra così un esercizio di equilibrismo su una corda tesa: ogni passo è incerto e non si sa dove porterà, ci si sente in costante pericolo di caduta.


Ricordo Mario, un uomo che aveva imparato a parlare solo per affermazioni. "Devi fare questo", diceva. "Così non va bene", sentenziava. "Non devi pensarla così", si alterava. Laura gli rispondeva con silenzi sempre più lunghi, spazi vuoti che Mario interpretava come assenso, ma che in realtà erano abissi di non detto.

Quando li ho incontrati la prima volta, la loro comunicazione somigliava a due monologhi paralleli, che non si intersecavano mai, se non per sbaglio. Due monologhi scritti da autori diversi, con ritmi, tempi, pause, toni, contenuti, messaggi, tutto completamente diverso tra i due stili, forse anche tra i due intenti rispetto all'essere lì da me, nel mio studio, ciascuno con la propria (implicita) richiesta d'aiuto. Ognuno parlava la propria lingua e percepivo quanto fossero, entrambi, tragicamente, soli.

"Mario," gli chiesi un giorno, "quando Laura tace, cosa vedi nel suo silenzio?". Lui scosse le spalle, leggermente irritato per la domanda che forse trovava inutile: "che è d'accordo, immagino. O che non ha niente da dire." Laura, al suo fianco, strinse le labbra, i suoi occhi erano pozzi profondi di delusione.

Ecco, è proprio lì che si annida la magia della comunicazione: certe parole feriscono, soprattutto se scaturiscono da convinzioni autoreferenziali irrigidite, quelle per cui continuiamo a non ascoltare, a non percepire, cosa arriva dall'Altro.

La parola ferisce. La parola cura. La parola è veleno. O medicina.

Il silenzio di Laura non era assenso; era un grido soffocato, trattenuto, disperato, una richiesta ormai rassegnata. Mario, troppo concentrato sulla sua impacchettata verità, aveva smesso di cercare sia le domande che le risposte, negli occhi di lei, nei gesti spariti, nel respiro sospeso, nel contatto affettuoso ormai dimenticato.

Mario, sin da molto piccolo, aveva dovuto imparare a riempire, con delle risposte pronte, con frasi fatte, i vuoti, i silenzi punitivi a cui veniva sottoposto; era il suo modo per rendere meno doloroso il rifiuto con cui sua madre lo faceva sentire in colpa quando non era un bimbo abbastanza obbediente.

Mario aveva bisogno di apprendere come ripartire da una comunicazione interrotta, innanzitutto di venir rassicurato di poterlo fare, di poter riconnettersi a chi gli restava a fianco in silenzio, non per colpevolizzarlo, come faceva sua madre, ma per non lasciarsi a sua volta ferire ad oltranza.

Mario e Laura avevano bisogno di trovare uno spazio protetto dove ricominciare a sentirsi visti e ascoltati, anche nei silenzi più spaventosi, quelli che facevano più male, avevano bisogno di chiedersi quali vecchie ferite venissero toccate dal silenzio di Laura, in Mario, e dalle parole pungenti di Mario, in Laura. Avevano bisogno di ripartire, prima di tutto, dall'ascolto di ognuno verso se stesso. Forse solo da lì, avrebbero potuto ricominciare.


Pubblicato il 24 luglio 2025