Go down

Siamo immersi nella frenesia (e disperazione) più totale, siamo alienati da un mondo in costante accelerazione. Siamo in competizione sotto ogni aspetto, non solo sotto quello economico-professionale, ma anche personale ed affettivo. Alla gara ora si è aggiunta anche “l’intelligenza artificiale”, è molto difficile, se non impossibile, stare al suo livello di “produttività”. Più cerchiamo di rimanere al passo, più ci trasformiamo in macchine. E come sento rabbrividendo in convegni paradossalmente di RISORSE UMANE, la soluziose sarebbe adeguarci alla bellezza futurista di team aumentati, di efficienza forse, non certo di umanità.

"Diventa imprenditore di te stesso” “Non ti sai vendere bene” “Questo lo metto nella mia pipeline”

Non so da quando abbiamo accettato come normale di usare il campo semantico e lessicale aziendale alle nostre vite, evidenziando il nostro assenso implicito a una logica che ci vede non semplicemente schiavi di un consumistico accumulo di merci, ma che subdolamente ci vuole merci a nostra volta.

Trovare la causa e la sorgente di questi pensieri è a mio modo di vedere una ricerca facile, anche se nominarla è sfuggente a causa dei molti nomi che essa assume: capitalismo, neoliberismo, consumismo, legge di mercato. E come corollario letale, il pensiero che tutto questo sia inevitabile. Oggigiorno infatti non solo le forze politiche, ma lo stesso inconscio collettivo ha introiettato l’idea del thatcheriano che “there is no alternative” al di fuori dello scenario capitalista. Non c’è via d’uscita, non c’è scampo, ed occorre dunque adattarsi alla sufficienza di ciò che è dato, rassegnarsi al cinismo della disperanza, allo squallore della sopravvivenza e della diseguaglianza.

Visto che ne stiamo ricordando in questi giorni l’assassinio, è difficile non pensare a Pasolini e al suo concetto di “fascismo dei consumi”.

se la parola fascismo significa la prepotenza del potere, la «società dei consumi» ha bene realizzato il fascismo”

Siamo immersi nella frenesia (e disperazione) più totale, siamo alienati da un mondo in costante accelerazione. Siamo in competizione sotto ogni aspetto, non solo sotto quello economico-professionale, ma anche personale ed affettivo. Alla gara ora si è aggiunta anche “l’intelligenza artificiale”, è molto difficile, se non impossibile, stare al suo livello di “produttività”. Più cerchiamo di rimanere al passo, più ci trasformiamo in macchine. E come sento rabbrividendo in convegni paradossalmente di RISORSE UMANE, la soluziose sarebbe adeguarci alla bellezza futurista di team aumentati, di efficienza forse, non certo di umanità.

E se anche non ci adeguiamo, ci sciogliamo in questo zeitgeist di condiscendenza passiva, perché più siamo affannati e di corsa, più perdiamo la capacità di immaginare, di sentire, di amare...  quelle caratteristiche che ci rendono umani insomma.

Allora come sfuggire alla necessità di una continua imprenditorialità di se stessi, a una competizione ma senza nessun premio e appagamento, come smettere di venderci?

Propongo le parole di qualcuno che ci vedeva ancora umani, lo psicologo Erich Fromm:

“Molta gente, probabilmente la maggioranza, reagisce alla frustrazione delle sue speranze, adattandosi all’ottimismo medio che spera nel meglio senza preoccuparsi di ammettere che può realizzarsi non il bene ma anche il peggio. Fino a quando tutti gli altri cantano anche costoro cantano e invece di avvertire la loro disperazione sembrano prendere parte a una specie di concerto pop. Essi riducono le loro richieste a quello che possono ottenere e non sognano più quello che sembra impossibile da raggiungere. Si trovano a loro agio nel gregge e non sentono mai la disperazione perché nessun altro sembra sentirla. Rappresentano un particolare tipo di ottimismo rassegnato che riscontriamo in tanti individui che appartengono alla società occidentale contemporanea – ottimismo che di solito è conscio, al contrario della rassegnazione che è inconscia”.

L’#andràtuttobene che diventa sistema e anestetico, che spegne ogni speranza e riflessione critica, anche se tra gli umani si diffonde un sempre più diffuso mal-essere, un dolore dell’anima figlio di una felicità che sembra sempre altrove e irraggiungibile. Questo mal-essere è il sintomo di una crescente consapevolezza che l’instancabile ricerca di gratificazione ha il potere di farci sentire miserabili.

Ancora Fromm

“Quest’uomo, se si vuole salvare, se vuole cominciare a guarire, e ad aiutare anche le persone che ha accanto a uscire dal buco nero in cui si sono ficcate per disperazione, deve rinunciare al suo occhio unilaterale, monomaniaco, produttivistico, ego-centrico e predatorio, per aprirsi a uno sguardo appunto più globale sull’esistenza, uno sguardo cioè che sappia tenere presente nelle scelte e nelle priorità, il tutto della vita, non solo gli aspetti economico-produttivi, ma anche quelli affettivi e relazionali, l’esigenza di senso e di silenzio, il bisogno di carezze e di preghiere. Solo un uomo e una donna che accettino di allargare alla complessità del tutto (personale e planetario) l’orizzonte del proprio pensiero, e cioè solo un uomo e una donna maggiormente unificati dentro di sé, potranno globalizzare anche il mondo, senza farsi e senza fare troppo male”

Non si può avere tutto. Ma si può avere almeno qualcosa per cui valga davvero la pena. Fermiamoci e finalmente, ricominciamo a pensare, e a sentire.


Pubblicato il 05 novembre 2025

Fabio Salvi

Fabio Salvi / Team Lead People Partner Europe South presso FlixBus

fabiosal77@gmail.com