Go down

Medito sulle parole di Italo Rota, grande architetto e costruttore di mondi, pensando a quanto possono continuare a parlarci. Da quando la casa in cui è nato è stata demolita, scrive, "tutto ciò che faccio è volutamente e inconsciamente effimero, introverso, portatile, rinchiuso in una valigia, un mondo interno opposto all'ossessione della nostra cultura occidentale che è stata quella di cambiare il mondo esterno".


Intenti a spostare oggetti come se ci trovassimo ad arredare il mondo, a volte non ci rendiamo come le "artificiose strutture del mondo" siano semplici proiezioni della nostra fantasia.

Che la costruzione degli spazi in cui abitiamo sia anche un tema di tipo etico, riguardi cioè la nostra capacità di decidere come vogliamo abitare il mondo, mi pare evidente. Scrive il filosofo Emanuele Coccia, nel suo Filosofia della casa:

“Una casa è la realtà morale per eccellenza: un artefatto psichico e materiale che ci permette di essere al mondo meglio di quanto la nostra natura ce lo permetta”. E ancora “è solo rivoluzionando il modo in cui diamo forma e contenuto a questa esperienza che potremo fare di nuovo del mondo uno spazio possibile di felicità comune e condivisa”.

Ecco allora che forse ci sorprende meno la lezione di un architetto che rivolge lo sguardo allo spazio interno. E con cosa riempiamo lo spazio della nostra mente? Forse con il vuoto che noi occidentali non possiamo pensare fino in fondo. O, forse, lo possiamo pensare fin troppo e facciamo fatica a viverlo.

Mi viene in mente un altro grande costruttore di parole, Italo Calvino (curioso, sto parlando di due Italo), che commentando un quadro di Arakawa diceva che al centro di certi quadri c'è il blank, il vuoto appunto, quello che vede la mente quando guarda la mente. Arredare lo spazio interno è forse questa operazione, questo far cose con il vuoto, che è quello che ogni grande architetto ha sempre fatto.

Parlando di una sua visita allo studio di Freud, Italo Rota porta l'attenzione su un dettaglio:

"Tra le tante statuette un piccolo bronzo egizio ritrae Imhotep, architetto edificato dal faraone Djoser per aver edificato la piramide di Saqqara. Ci osserva. Era anche guaritore e mago, molti architetti sono stati guaritori o maghi, mai più maghi e guaritori. Forse gli architetti-maghi hanno capito che si può guarire con i sogni".

Freud, appunto.

Possiamo poi scegliere di seguire Freud o Jung o Lacan o Hillman, in ogni caso la scoperta dei sogni come principio di guarigione è l'idea che solo capendo come la mente arreda se stessa riusciamo a far rifluire l'interno sull'esterno e definire come muoverci nel mondo. E questa idea di interni ed esterni che si piegano su se stessi è il principio del design, e anche il principio dell'abbigliamento, l'idea guida che dà forma al vuoto e che nasce dallo spirito nomade degli esseri umani.

Perché ogni volta che usciamo di casa il problema diventa: abbiamo tutto? Cosa ci può servire? Proprio perché qualcosa ci manca portiamo con noi da casa, con gli abiti e gli accessori, tutto quello che potrebbe esserci utile. Quando ci vestiamo per uscire di casa progettiamo le nostre modalità per trovarci almeno un po' a nostro agio nel mondo esterno. Che, ovviamente, non sono solo modalità di tipo funzionale: sono anche forme di relazione sociale ed emotiva. I sogni e i vestiti sono forse un modo di entrare in relazione con la nostra voglia di essere felici.

Il tessuto è una specie di seconda pelle e il problema del tessuto, cioè dell'abito, nasce proprio quando ci avventuriamo fuori dalla nostra casa per iniziare a viaggiare fuori dal nostro ambiente abituale. In un certo senso, ogni abito assomiglia a un'abitazione portatile, un modo per essere noi stessi e noi stesse anche quando usciamo fuori di noi. Ma è anche un oggetto che, coprendoci, ci prolunga in forme di identità diverse da quelle abituali.

Mi rivolgo ancora a Coccia, che ha scritto assieme ad Alessandro Michele un testo affascinante e provocatorio, visto che tratta un tema problematico come la moda (Michele è stato a lungo il direttore creativo di Gucci). Ne La vita delle forme, il filosofo e lo stilista scrivono

attraverso l’oggetto di moda ogni tratto psicologico diventa fatto sensibile, realtà materiale e percepibile da chiunque”. E ancora: “l’amore che proviamo per gli oggetti, dunque, non è una malattia: è il vigore e il respiro di un organo che ci permette di vivere là dove non possiamo arrivare con la carne. E in queste forme la nostra vita si apre al mondo e si confonde con esso”.

La moda è un modo per indossare oggetti d’amore

La moda, insomma, è un modo per indossare oggetti d’amore e mostrarci agli altri nel nostro essere in relazione affettiva con cose e forme che esprimono noi stessi. C’è un esibizionismo, certo, ma si tratta di un esibirsi attraverso una sorta di mascheratura. Per assurdo, ed è forse la definizione non banale dello snob, si tratta di manifestare la nostra seconda natura come se fosse assolutamente naturale, fino a diventare noi stessi degli oggetti nel mondo. A guidare tutto questo è un principio di metamorfosi, che anche ai non iniziati è molto evidente nell’esplosione di forme delle collezioni di Michele per Gucci (ma anche nel barocco mortuario di un altro grande visionario dello stile come Alexander McQueen, per fare un altro nome): “Si può scegliere la via dei centauri e abbinare, come nella mitologia greca, teste di un individuo a corpi e silhouette che appartengono altri”. Una forma non si fissa se non quando è sul punto di passare in un’altra.

Uscire fuori di noi è il principio del progetto, perché anche se tendiamo a pensare al "progettare" come a un principio di riduzione della complessità, etimologicamente vuol dire "lanciare in avanti", cioè ancora uscire fuori, buttare il cuore oltre l'ostacolo. Fare i conti con quello che ci manca mano a mano che proseguiamo nel nostro percorso.

Scrive Francesco Varanini:

"Se si accetta il progetto nella sua complessità, il progetto è ricerca di tutto ciò che può essere fatto usando non solo risorse previste, predisposte a priori, ma anche usando risorse reperite in un secondo momento, risorse trovate per strada."

E trovo una linea analoga, come rigorosa base etica del progetto industriale, nelle considerazioni di Enzo Mari, per il quale dare forma a un oggetto, che si trattasse di un vassoio , di un posacenere o di un gioco per bambini, era sempre una questione di processo prima che di punto di arrivo:

“Il punto fondamentale è che il progetto consiste nel suo processo, non nell’approdare subito a una soluzione ottimale. Anche quando uno studente mi propone un modello accettabile, chiedo regolarmente che lo rimetta in discussione, per sottopormene altri. L’obiettivo, a fine anno, non è quello di aver costruito una serie di bei modellini, ma che si sia effettuato un lungo percorso di alternative progettuali”.

Ecco allora che la capacità di progettare alternative, come forma di design, di abbigliamento o di architettura mentale, incontra forse quella che la scrittrice di fantascienza Ursula K. Le Guin chiamava teoria del sacchetto della spesa, che per lei era un modo per abitare il mondo della fiction con un orientamento diverso da quello abituale, sostituendo alle armi dell'eroe tradizionale uno strumento più femminile: un carrier-bag, un sacchetto in cui mettere quello che troviamo per la strada e di cui potremmo avere bisogno lungo il nostro percorso. Un sacchetto che mi immagino come una grande tasca o la piega di un grembiule in cui si custodisce all'interno quello che sta fuori. Un sacchetto che non contiene oggetti classificati ma potenzialità progettuali, ovvero potenzialità di vita felice. Che però, come ci insegna Mari, devono passare attraverso la capacità di creare alternative e camnbi di prospettiva. 

Quello che voglio dire è che abbigliare le nostre vite equivale a progettare le nostre identità, e questo può essere approcciato attraverso una via più “razionale”, con calcoli di rischi e benefici, ma anche seguendo una strada più “rituale” come nelle evocazioni misteriche che portavano gli dei tra la gente. Una delle collezioni che Alessandro Michele ha creato per Gucci si intitolava “Un rito che non ammette repliche”. Anche se il rito è per definizione quello che deve essere replicato: una specie di simulazione di unicità, che è anche il rapporto che ciascuno di noi può avere con la moda e con il design. Ancora una volta, ragione e rito si parlano, come diceva Italo Rota, avvicinando gli architetti ai maghi e ai guaritori. Il mago inscena il suo rituale, autentico e inautentico allo stesso tempo. E c’è una funzionalità del rito (della casa, della sfilata, del progetto) che deve far stare insieme l’intuizione e il metodo. Ci diamo metodi per ridurre il caso e il caos a un ordine e quello che otteniamo, quando un progetto funziona, è una forma che è efficace perché unica. Però l’unicità passa per il lavoro e il rigore della produzione instancabile di alternative. In fondo per costruire mondi possibili e dar vita a progetti di felicità bisogna anche saper far riferimento a quella dimensione utopica, che Mari paragonava a un “corrimano etico”, che può tracciare la strada verso il futuro. Senza però perdere di vista le forme che si sono depositate nella nostra storia personale e collettiva.

Anche perché nel sacchetto della spesa di Le Guin potremmo aver messo molte cose incontrate per caso nella nostra vita e depositate nella nostra memoria: l’immagine di un film di Fellini con dei preti che sfilano, la foto di una giocatrice di golf montata da Aby Warburg nel suo atlante della memoria, un fotogramma di Mae West, gli occhi di Tilda Swinton, il rosso di un drappo nella ricostruzione di una deposizione ne La ricotta di Pasolini, un mandala tibetano, la mappa di una metropolitana, una stella di Mario Schifano, Jack Nicholson col naso incerottato in Chinatown, un dramma radiofonico citato da Manuel Puig in Boquitas Pintadas, l’eleganza cockney di Michael Caine, le cravatte di Diane Keaton, il parka beige di Giulio Brogi/Athos Magnani in La strategia del ragno, un manifesto con la testa d’oca di Enzo Mari, la casa parigina di La vita istruzioni per l’uso di Georges Perec, gli occhi da gatto di Julio Cortázar, Fassbinder gonfio col giubbotto in pelle, Dominique Sanda e Stefania Sandrelli che ballano, anche loro in La strategia del ragno, un campo di lavanda in Provenza, poco distante da dove Heidegger ha tenuto dei mitici seminari. O la casa progettata da Ludwig Wittgenstein per la sorella, che Rota definisce “un interno a enigmi logici ammantato in una scatola loosiana”. Perché la metamorfosi è anche questione di sobrietà nel gioco delle forme.

Questo rapporto tra autenticità e ripetizione si collega all'habitus, l'abitudine che è anche un principio di condotta, il nostro modo di progettare i nostri gesti abituali, il nostro stile di vita, definito attraverso la ripetizione di atteggiamenti nei quali ci riconosciamo. Torno per un attimo ancora a La vita delle forme:

“Ogni forma è in fondo un abito, qualcosa che permette a una vita di abbigliarsi e di sostare in un certo luogo e in un certo momento, di apparire diversa da ciò che era […] Le forme non sono mai meri oggetti di visione: sono sempre organi che ci permettono di vivere, respirare, percepire il mondo e noi stessi in modo più intenso”.

Forse non è un caso che il filosofo che ha meglio di altri riflettuto sul tema delle tonalità emotive, cioè sui modi di sentire che danno un certo “colore” alla nostra relazione con il mondo, sto parlando di Martin Heidegger, sia anche il filosofo che ha parlato dell’essere umano (che lui chiamava Dasein, ma questa è un’altra storia) come di colui che continuamente progetta il proprio rapporto con il mondo, che non è qualcosa di naturalmente dato, ma a che fare con il campo del possibile.

Mi piace qui prendere un riferimento di Maurizio Ferraris, che avvicina in modo un po’ ironico Essere e tempo, il monumentale e inquietante capolavoro heideggeriano, alle opere di Francis Scott Fitzgerald, l’autore del Grande Gatsby. Sono entrambi autori dell’età del Jazz, dice Ferraris (l’ironia sta nel fatto che è difficile immaginare Heidegger che nella sua baita nella Foresta nera ascolta un disco di charleston sorseggiando un Martini). Proprio così, aggiungo io, perché per entrambi era questione di definire il rapporto con il mondo come qualcosa di non dato in anticipo, ma come, appunto, progetto e messa in forma di se stessi.

Flappers and Philosophers è il titolo di una raccolta di racconti di Fitzgerald, maschiette (nel senso del taglio di capelli femminile anni ’20) e filosofi. La cocktail society come continua messa in scena di una forma di autenticità costruita è un tema frivolo e filosofico allo stesso tempo, e non è detto che la frivolezza stia dalla parte dei capelli delle flappers. Fitzgerald, che era forse più filosofo di Heidegger, scrive con Il grande Gatsby il romanzo definitivo di chi, venendo da origini umili e un po’ losche, vuole entrare nel giro giusto. E sa che l’accettabilità sociale ha a che vedere con la nostra capacità di darci la forma corretta (il linguaggio giusto, i vestiti giusti, le parole giuste).

L’immenso incipit di un racconto fitzgeraldiano fissa per sempre tutto questo:

“I ricchi sono persone diverse da voi e da me. Imparano presto a possedere le cose e a goderne, e questo in qualche modo li cambia.”

I ricchi, per Fitzgerald, che ha lo sguardo di chi si sente in partenza escluso, sono quelli che si trovano da sempre a loro agio con il mondo. Combaciano perfettamente con le cose. La necessità del design nasce proprio da questo sogno di felicità, naturalmente destinato allo scacco: siamo sempre fuori fase con il mondo, perciò dare forma (a una casa, al vuoto, a un abito, a un gesto, a un’abitudine) è un modo per cercare di ricomporre un certo rapporto tra interno ed esterno. E il fatto che questo non sia mai possibile ci mette sempre sulla strada della ricerca della felicità e delle forme che questa può assumere.


 

Riferimenti bibliografici

  1. Calvino, “Arakawa”, in M. Belpoliti (a cura di) “Riga” n. 6 Italo Calvino, Marcos Y Marcos, Milano 1996.
  2. Coccia, Filosofia della casa. Lo spazio, Einaudi, Torino 2021.
  3. Coccia, A. Michele, La vita delle forme. Filosofia del reincanto, HarperCollins, Milano 2024.
  4. Ferraris, Imparare a vivere, Laterza, Roma-Bari 2024.
  5. Heidegger, Essere e tempo (1927), Mondadori, Milano 2021.
  6. Mari, 25 modi di piantare un chiodo, Mondadori, Milano 2011.
  7. Rota, Cosmologia portatile, Quodlibet, Macerata 2013.
  8. Scott Fitzgerald, “Il ragazzo ricco” (1926), in Tutti i giovani tristi, Mattioli 1885, Parma 2012.
  9. Varanini, “Salpare in cerca di conoscenza”, leggibile online sul sito di Stultifera Navis  

Pubblicato il 18 aprile 2025

Nicola Gaiarin

Nicola Gaiarin / HR & Strategic Development Consultant | nel board di DOF Consulting

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