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Il sapere non è una merce da esportazione né un privilegio da concedere. È tempo di mettere in discussione l’idea che l’istruzione abbia un solo centro e che quel centro parli inglese. Questo testo propone una riflessione sul senso profondo dello studio, sulla politica che lo regola e sull’immaginario che lo incatena. Non per rifiutare, ma per disinnescare una narrazione dominante. E aprire spazi nuovi: più liberi, più porosi, più fertili. Perché la conoscenza non si misura in prestigio, ma in possibilità. E la sua geografia non è data una volta per tutte. Va riscritta. In molte lingue. E molti luoghi.

È giusto continuare a chiamarla "terra delle opportunità"? E se fosse solo un’altra favola d’esportazione, come il ketchup o il denim? Cosa ci andate ancora a fare, voi che sognate di studiare lì, se vi trattano come ospiti sgraditi, mendicanti di sapere invece che viaggiatori della conoscenza?


La recente scelta dell’amministrazione statunitense di limitare l’accesso agli studenti stranieri non è solo una misura politica. È una dichiarazione culturale. È la voce di un impero che, sentendo il proprio declino, comincia a chiudersi, come fanno le bestie ferite. L’America ha smesso di essere un faro. O forse lo è sempre stata solo per chi non voleva vedere altro.

In fondo, chi ha detto che il sapere abiti solo tra i campus di Harvard o Stanford? Chi ha deciso che l’inglese sia il linguaggio madre dell’intelligenza? Come si è costruito questo monopolio simbolico, e chi ci ha guadagnato?

Forse è tempo di voltarsi. Di guardare altrove. Di tornare — e non è un ritorno nostalgico, ma una scelta radicale — a quelle terre da cui sono nate la filosofia, la medicina, la matematica, l’arte del pensiero e del dubbio: l’Europa. L’Italia. Ma anche la Cina, l’India, le reti africane di conoscenza comunitaria, le università peruviane dove si insegna la lingua quechua come grammatica del mondo. I centri di ricerca brasiliani, i laboratori russi, spesso invisibili all’egemonia culturale occidentale, eppure vivi.

Numerosi studiosi hanno sollevato dubbi simili. Diane Ravitch ha denunciato la distruzione sistematica dell’istruzione pubblica americana a favore di logiche di profitto. Martin Carnoy ha mostrato come l'istruzione statunitense amplifichi le disuguaglianze invece di colmarle. Bryan Caplan ha scritto che l’università americana non serve a formare, ma a segnalare. E non è un bel segnale.

La fuga verso il sapere non dovrebbe passare da un visto negato. Oggi, sempre più studenti scelgono università in Germania, Francia, Olanda, Giappone, Cina. Paesi che investono nella formazione senza convertirla in merce. Paesi che non mettono il sapere sotto embargo.

Ci hanno convinti che cultura è consumo, sapere è investimento, università è un marchio. E noi ci siamo cascati, correndo dietro a certificati che valgono solo nel supermercato globale del capitale.

L’alternativa non è il rifiuto dell’America. È la fine dell’illusione. E il principio di una nuova mappa mentale.

L’unico sapere che vale è quello che libera. Non quello che ti fa sentire un passaporto sbagliato in un’aula dove ti tollerano.

Se vogliamo davvero pensare il futuro, studiamo dove le domande sono più scomode, non dove le risposte costano di più.


Pubblicato il 01 giugno 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / omnia mea mecum porto