Go down

A essere sincero, quando sono lontano dal mio bosco, tutto mi appare irreale. Lo è perché mi lascio intrappolare dalla navigazione online e/o dalla lettura degli inserti domenicali come Robinson e La Lettura. Un tempo la lettura poteva rasserenarmi, invogliarmi a leggere ancora di più. Oggi prevale la noia o l’arrabbiatura, tante sono le stronzate a cui si va incontro, per colpa del semplice bisogno di coltivare conoscenze e conoscenza. Meglio forse tornare a “zappare”!   Poi ci sono le eccezioni, capaci di suscitare interesse e attenzione, su cui provo a fare una semplice riflessione.


Il primo testo che mi è capitato di leggere è stato un lungo articolo di Luciano Floridi, un filosofo con cui ho avuto modo di discettare recentemente su Linkedin su un argomento importante: la pasta alla carbonara. Una analogia da lui usata per provare a far comprendere (?) ai rappresentanti della Camera dei deputati italiana cosa sia l’intelligenza artificiale e quanto sia innocua, anche se da trattare con attenzione. Il secondo testo è un post di Otti Vogt sulla intollerabile leggerezza del management

Due letture utili a combattere le tante stronzate in circolazione, in questi giorni la vicenda dei due amanti altolocati che si sono fottuti il matrimonio e la carriera facendosi trovare teneramente abbracciati dalla kiss camera al concerto dei Coldplay (incredibile quante persone abbiano scritto su questa “cazzata” e quante siano andate alla ricerca di un MiPiace con essa). 

L'articolo di Floridi: l'era digitale richiede responsabilità (di chi?)

Il lungo articolo di Floridi su La Lettura è quanto uno si aspetta da un filosofo che si è assunto il ruolo di raccontare a tutti (élite e moltitudini) cosa siano la tecnologia e l’intelligenza artificiale, usando (rigenerando) neologismi e concetti che possano servire a creare una narrazione dall’interno delle “istituzioni” tecnocratiche attuali per aiutare le “masse” a gestire e assorbire “lo stordimento” che deriva da una rivoluzione in costante accelerazione. 

Il racconto è ben pensato e strutturato, neppure tanto filosofico. I termini usati non sembrano scelti a caso, la visione che ne emerge è chiara, anche se poco chiare sono le posizioni del filosofo su temi importanti che potrebbero portare a una critica della tecnologia e del digitale e a una difesa dell’umanità e dell’analogico. Una critica necessaria visto che “è oggi che plasmiamo le fondamenta ancora malleabili della società digitale futura”. Una critica che il filosofo dovrebbe praticare, considerando la pretesa della tecnologia del digitale attuale e dei suoi sacerdoti di farsi carico dell’enunciazione della Verità, aspirando a nuova divinità della Chiesa Evangelica dei Santi degli ultimi giorni, alla ricerca costante di nuovi fedeli da trasformare in sudditi. 

La critica è tanto più necessaria quanto sempre più diffusi sono i processi di automazione che partono dal considerare l’umano non come essere intangibile, irriducibile (lo sono anche la vita, i sentimenti e l’intelligenza), spirituale, ma una semplice macchina priva di corpo, computazionale, calcolabile, classificabile, facilmente clonabile e sostituibile (vero? Cosa pensa il filosofo?).   

Qui non siamo più in presenza di semplice tecnica, siamo dentro un mondo, come direbbe Umberto Galimberti, quello tecnologico e algoritmico, che aspira a diventare logos, con una aspirazione antropologica. Un obiettivo che sembra raggiungibile, se si considerano le tante narrazioni che ci spiegano quanto e come sia possibile e facile raggiungerlo (“venite genti tutte e adorate il Signore”). Il tutto avviene con la complicità di tanti umani disorientati, ma soprattutto divertiti, gratificati, trasformati in merci e semplici prodotti, irretiti e soprattutto manipolati da una narrazione conformistica vincente che racconta futuri utopici mentre si vive dentro distopie già esistenti (precarietà, disuguaglianze, povertà, guerre tecnologiche, panopticon politici, mancanza di lavoro, ecc.) e altre future in emersione. 

Ciò che manca nel testo descrittivo di Floridi è un qualsiasi accenno critico. La descrizione è perfetta e onnicomprensiva, chiara e piacevole alla lettura. Vengono descritte innovazioni e tecnologie, realtà sociali, politiche ed economiche da esse determinate, potenziali effetti e rischi, ma nulla di tutto questo porta il filosofo a dubitare, a porsi e a sollevare delle domande, a elaborare una critica utile a fare ciò che da lui viene suggerito nella parte finale dell’articolo. 

L’impressione è di un buon lavoro divulgativo, utile a celebrare la macchina tecnologica che ha preso il sopravvento sulla macchina umana, ma poco filosofico, anche se si parla di ontologia del digitale, di etica e di morale. Si parla della scomparsa del mondo fisico e di eclisse dell’analogico, di realtà sempre più progettata per il digitale, di spazio ottimizzato per il digitale, di “agenti” che sembrano umani, della delega che noi umani stiamo consegnando alle macchine e ai potentati che le governano, del prevalere del marketing delle grandi aziende sulla realtà, dell’affermarsi dei sistemi statistici su quelli umani, del fatto che a noi umani (ormai disincarnati, digitalizzati) non resta che sapere usare la tecnologia, non ci si scappa, di città invase da telecamere, di corpi come semplici interfacce e fonti di dati, di pesantezza (termine mio) e fisicità delle infrastrutture che stanno devastando (parola mia) il mondo, il clima, il cielo, lo spazio e gli oceani, di sparizione della privacy, di documenti ormai solo digitali, della fusione tra potere tecnologico e politico, ma tutto viene presentato con un approccio pragmatico e realistico (il nuovo realismo della post-modernità,) come a dire: It’s the reality stupid! 

Da tutto questo il filosofo deriva solo un richiamo a tutti a non ignorare quelli che potrebbero essere gli effetti e i rischi per l’analogico oggi secondo lui sotto-protetto (solo?), per l’affermarsi di sistemi di controllo e sorveglianza, per il diffondersi della gig-economy nel mondo con la precarizzazione (mia aggiunta) di massa in atto, per l’emergere di un’oligarchia tecnocratica e digitale intrinsecamente non democratica, ecc. Il richiamo risulta essere retorico, da un filosofo ci si aspetterebbe altro. Lo dico da non filosofo ma come amante di testi di filosofia ed estimatore di filosofi, analitici o continentali che essi siano, che questa pratica ancora esercitano. 

Arrivato al termine dell’articolo e non avendo trovato nulla di nuovo rispetto a quanto già conosco, grazie alla lettura dei tanti libri di autori che frequento, mi sono chiesto: SO WHAT? 

SO WHAT? 

La domanda è capziosa ma si pone da sé perché chi è scettico, critico, potrà anche essere accusato di essere retrogrado, tecnofobo, di non essere in grado di “cogliere il carattere eccezionale e messianico della nostra era” tecnologica ma sente l’importanza di continuare a porsi domande, filosofiche!   

La domanda che pongo qui nasce nella mia testa dalla percezione che le narrazioni dominanti in atto, nelle quali si esercitano molti scienziati, ingegneri e filosofi, abbiano come scopo quello di impedire una comprensione e una riflessione diverse (divergenti) da quelle “imposte”, di ridurre la libertà di critica (“te le do io le soluzioni, ora anche con il sostegno delle IA generative”), di ricercare l’assenso e di rigettare il dissenso, di limitare/condizionare la libertà di scelta, di impedire di continuare a pensare a un vissuto esistenziale, lavorativo, cognitivo, vitale diverso da quello che il mondo digitalizzato ci sta preparando, ma soprattutto di non dire nulla su quanto sarebbe importante insistere e investire nell’apprendimento umano. O quantomeno farlo quanto lo si fa per raccontare la capacità delle macchine di IA attuali di apprendere. 

"quello che caratterizza il modello tecnoliberista è il fatto di imporsi con forza, di soffocare a poco a poco qualsisai alternativa, di plasmare sempre più in profondità i nostri modi di vivere, ma senza dare nell'occhio" (Eric Sadin)

Il post di Otti Vogt: Intolerable lightness of management: Oops - I did it again

Il secondo testo su cui mi sono soffermato in lettura è un post di Otti Vogt da cui ha preso spunto questo scritto, collegandomi alla domenica dell’autore (autore di STULTIFERANVIS) passata a suo dire, a “vagare nel suo flusso social, solo per un momento, solo per respirare”. 

Un attimo che è diventato un vortice risucchiandolo dentro una infinità di stronzate sul management. Una su tutte, The Curiosity Curve™ (La curva™ della curiosità), una nuova metodologia che dovrebbe aiutare i dirigenti d’azienda a verificare il loro stato interiore prima di parlare con un altro essere umano. Una metodologia che, celebrando la curiosità, sembra negare l’incontro dialettico e conflittuale, la verità morale, le conversazioni ad alto rischio sul potere, sulla giustizia e sulla dignità umana, privilegiando conversazioni sullo stato d’animo e sugli aggiornamenti delle soft skill. 

Seguendo le mode del momento ogni dirigente è oggi chiamato a occupare un suo posto in schemi già predefiniti, a diventare complice degli architetti che questi schemi hanno creato, descritto e raccontato, a rifuggire da ogni pensiero critico per limitarsi a chiedersi in quale quadrante ci si trovi e quanto sia funzionale, dentro un apparato disciplinare dal quale sembra svanita ogni velleità o speranza di (s)fuggire. 

La metodologia della curva della felicità è veicolata sui social come Linkedin in forma di filosofia (del bambino la definisce l’autore del post) ma non è più collegata a una crescita personale, bensì alla semplice governamentalità. 

Ciò che interessa non sono tanto virtù morali come curiosità, temperanza, compassione, fiducia, ma il loro utilizzo come semplici strumenti di misurazione finalizzati al controllo. Il tutto con l’aiuto di “una curva” grafica che illustra dove ognuno si trovi in un dato momento. Con gli occhi puntati sulla curva e reduci da poco da corsi su come fare a migliorare la propria posizione su di essa, cosa importa se poi si finge di immedesimarsi nelle migliaia di lavoratori licenziati, anche per colpa di scelte strategiche sbagliate, senza alcun senso etico e reazione morale? 

La critica di Otti Vogt che condivido è la superficializzazione in atto di tematiche, come quella della leadership, che è oggi chiamata a fare i conti con un mondo al collasso, nel quale ci divertiamo a scambiarci messaggini e post Instagram, per raccontarci che tutto va bene (“madama la marchesa”) ma solo perché si è stati ben istruiti dai sacerdoti della psicologia positiva. Su tutto il resto è meglio tacere. Oggi con nuove metodologie emergenti anche il mutismo morale è diventata la scelta perfetta, perché utile da usare. 

We are infantilising leadership—neutralising conflict, pathologising dissent, and reframing injustice as interpersonal misalignment.

Una breve conclusione

Per concludere, due letture interessanti che mi hanno evitato di navigare tra le stronzate dei social ma che non hanno contribuito a rasserenarmi come, di domenica, avrei sperato di fare. Due letture che in ogni caso si prestano a riflessioni condivise, dialogiche ma anche dialettiche e conflittuali, alla ricerca del confronto e della critica costruttiva.


Pubblicato il 22 luglio 2025

Carlo Mazzucchelli

Carlo Mazzucchelli / ⛵⛵ Leggo, scrivo, viaggio, dialogo e mi ritengo fortunato nel poterlo fare – Co-fondatore di STULTIFERANAVIS

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