Da una parte, vi è la prospettiva sostanzialista, che considera l’essere umano definito da una natura originaria, anteriore al linguaggio e alle pratiche sociali. Secondo questo sguardo, l’identità sessuale appartiene alla struttura stessa della persona e non può essere modificata o reinterpretata: essa si riconosce, non si costruisce. È un fondamento che precede l’esperienza, una certezza che conferisce ordine al mondo.
Dall’altra parte, la prospettiva performativa sostiene che l’identità non esiste prima dei gesti, dei linguaggi e delle relazioni che la esprimono. In questa visione, ciò che appare stabile è il risultato di atti ripetuti; non vi è un’essenza da scoprire, ma un processo continuo che produce soggettività socialmente riconoscibili. Il genere, in questo contesto, non è la traduzione di una realtà biologica, ma il campo in cui potere e linguaggio modellano ciò che siamo autorizzati a vedere.
Il conflitto tra queste due posizioni non è un semplice contrasto di opinioni. È un dissenso ontologico: ognuna parte da una definizione differente dell’essere umano. Chi pensa in termini di natura guarda all’origine; chi pensa in termini di performatività guarda alla funzione. Le due prospettive non si confutano, perché parlano lingue diverse e osservano fenomeni differenti. Una interroga ciò che siamo; l’altra interroga il modo in cui diventiamo ciò che siamo.
Negli ultimi anni, alcune filosofie hanno tentato di spostare lo sguardo oltre questa opposizione. Pensatrici come Rosi Braidotti e Karen Barad hanno proposto una concezione relazionale, in cui il corpo non è soltanto sostanza, né semplice costruzione culturale, ma un processo in continua interazione con il mondo. In questa ottica, materia e discorso non si contrappongono, ma si co–costituiscono: il corpo sente, cambia, risignifica. La realtà non appare come fondamento immobile né come arbitrio totale, ma come trama di relazioni.
È una visione che richiede cautela, perché evita tanto l’essenzialismo quanto il relativismo, e invita ad ascoltare ciò che accade nei corpi senza pretendere di ridurlo a concetto. Questa prospettiva ha implicazioni importanti per l’etica, l’educazione e la cultura. Se l’identità è un processo, l’etica non può fondarsi sulla difesa di essenze immutabili: deve invece imparare a riconoscere le fragilità, a sostenere i percorsi, a rispettare le trasformazioni.
L’educazione, a sua volta, dovrebbe offrire strumenti per abitare l’ambiguità, per comprendere la pluralità dei modi di essere, senza imporre forme rigide. Non si tratta di formare identità stabili, ma di accompagnare soggettività in movimento. Anche la cultura viene chiamata a un compito nuovo: diventare un ambiente in cui l’apparizione dell’altro possa accadere senza giustificazione preventiva, in cui la differenza non sia un’anomalia da risolvere, ma una forma della presenza.
In questo quadro, il corpo diventa il luogo in cui la realtà prende forma. Non è un oggetto neutro, ma un’interfaccia sensibile che registra forze, desideri, norme, affetti. Ogni corpo è un nodo in una rete di relazioni, attraversato da significati che si trasformano. La vulnerabilità non è più un difetto da correggere, ma una condizione fondamentale per comprendere l’altro. Chi accetta la propria fragilità è meno incline a negare quella altrui.
La letteratura, in questo contesto, ha un ruolo privilegiato. Essa non pretende di definire. Mostra. Il racconto, il romanzo, la poesia danno voce a ciò che la teoria fatica a trattenere: le esitazioni, i passaggi, i minuti movimenti dell’essere. Quando la filosofia cerca chiarezza, la narrazione permette alla complessità di esistere. Per questo, nella letteratura, l’identità non è mai solo concetto: è corpo, voce, gesto, ritmo, respiro.
Esiste una dimensione dell’esperienza che non si lascia catturare dal pensiero: la si può soltanto attraversare. Forse, in fondo, la questione dell’identità si gioca tutta qui.
L’essere umano non coincide mai del tutto con le proprie definizioni.
Il concetto non è sufficiente, la biologia non esaurisce, il linguaggio non conclude.
Siamo esseri che continuamente si fanno e si disfano, che abitano soglie, che vivono nell’intervallo tra ciò che credono di essere e ciò che ancora possono diventare. Comprendere questo significa rinunciare alla sovranità del concetto e imparare l’arte più difficile: riconoscere l’altro nel suo accadere. Non per giudicarlo, non per giustificarlo, ma semplicemente per accettare che la realtà è più ampia di qualsiasi teoria. E che l’essere, quando finalmente si manifesta, non domanda spiegazioni: colpisce, attraversa, lascia traccia. In quel momento, non si discute. Si vive.