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Questo saggio attraversa la storia della rappresentazione del corpo – dall'Egitto alla Grecia, dal Medioevo al Rinascimento, dal Barocco alle avanguardie, fino all'era degli schermi – seguendo un filo rosso preciso: la progressiva separazione tra corpo vissuto (il corpo sentito dall'interno, esperienza incarnata) e corpo rappresentato (il corpo visto, misurato, codificato dall'esterno).

viviamo stabilmente proiettati nell'immagine, e il corpo reale rischia di apparire come una bozza imperfetta della sua rappresentazione filtrata

Trentamila anni fa, nelle caverne, l'essere umano compì un gesto che avrebbe cambiato per sempre la sua relazione con il proprio corpo: posò la mano sulla parete e la circondò di ocra rossa, proiettando per la prima volta l'esperienza vissuta dall'interno verso l'esterno, nel mondo. Nacque così la prima rappresentazione, il primo "fuori" che dialogava con il "dentro" corporeo.

Questo saggio attraversa la storia della rappresentazione del corpo – dall'Egitto alla Grecia, dal Medioevo al Rinascimento, dal Barocco alle avanguardie, fino all'era degli schermi – seguendo un filo rosso preciso: la progressiva separazione tra corpo vissuto (il corpo sentito dall'interno, esperienza incarnata) e corpo rappresentato (il corpo visto, misurato, codificato dall'esterno).

Quella distanza iniziale – minima ma ineliminabile – si è progressivamente ampliata attraverso i secoli, fino a raggiungere nell'era digitale una condizione paradossale: viviamo stabilmente proiettati nell'immagine, e il corpo reale rischia di apparire come una bozza imperfetta della sua rappresentazione filtrata.

Nota metodologica

Questo scritto è l'esplorazione di un dialogo – quello tra corpo vissuto dall'interno (sentito, esperito in prima persona) e corpo rappresentato dall'esterno (visto, misurato, codificato). Il percorso non pretende di essere esaustivo, né pretende di catturare la complessità totale di ogni periodo storico. Ho scelto opere e autori che ritengo rappresentative del processo che volevo documentare. In ogni epoca storica emerge un linguaggio dominante: il corpo come codice sacro in Egitto, come misura matematica in Grecia, come spettacolo barocco, come merce fotografica. Ma accanto ai linguaggi dominanti persistono sempre pratiche, opere, artisti che resistono, che mantengono viva la tensione opposta. La cultura non è mai monolitica: è campo di battaglia tra forze diverse.Quando parlo di "corpo misurato" in Grecia, non nego l'esistenza del pathos tragico; quando parlo di "corpo negato" nel Medioevo, non ignoro che il cristianesimo è fondato sull'Incarnazione. Questa tensione tra norma e resistenza non è un'anomalia da risolvere: è costitutiva della cultura stessa.

La cultura non è mai monolitica: è campo di battaglia tra forze diverse.

L'obiettivo non è tracciare una linea retta ma riconoscere un pattern ricorrente e interrogare dove ci ha portati. Questo percorso attraversa la tradizione culturale occidentale, dalla caverna preistorica europea all'era digitale globalizzata, senza pretese di universalità. Il concetto di 'corpo vissuto' (corps vécu) che attraversa questo saggio deriva dalla fenomenologia di Maurice Merleau-Ponty (Phénoménologie de la perception, 1945), che distingue tra il corpo come oggetto studiabile dalla scienza (Körper) e il corpo come esperienza vissuta in prima persona (Leib). Ciò che nella filosofia è distinzione concettuale, nella storia dell'arte diventa processo storico: la progressiva separazione tra queste due dimensioni.

Il corpo sentito: la preistoria e l'origine della distanza

Quando l'essere umano preistorico posò la mano sulla parete della caverna e la circondò di ocra rossa, nacque la rappresentazione – e con essa, inevitabilmente, una distanza. Per la prima volta c'era un dentro (il corpo che sente) e un fuori (il segno che mostra). Improvvisamente c'è qualcosa che vede e qualcosa che viene visto, un io e un mondo che si specchiano l'uno nell'altro.

Ma quella prima uscita era ancora profondamente radicata nel corpo. Chi dipinge il bisonte porta nel gesto la memoria muscolare della corsa, la tensione della caccia ancora nelle spalle. Il gesto che traccia la linea sulla roccia porta in sé lo stesso movimento, la stessa energia del corpo in azione. L'arte preistorica nasce dal corpo vissuto e ne conserva la presenza fisica, anche quando diventa segno nel mondo.

Prima di quel gesto, l'essere umano viveva radicato dentro se stesso, come un albero nella terra. Conosceva la propria forza perché era la forza stessa, sentiva i propri sensi perché erano l'unico modo di stare al mondo. Il freddo non era un'informazione sulla temperatura, era il freddo stesso che mordeva la pelle. La fame era lo stomaco che si contraeva, le gambe che perdevano forza. Ogni cosa accadeva dentro, in quella totalità inscindibile che è il corpo vissuto.

Bisonti che corrono ad Altamira, cervi che saltano a Lascaux, mani che si moltiplicano come eco di presenza alla Cueva de las Manos in Argentina (13.000-9.000 anni fa): sono tracce di corpi che ancora abitano pienamente la propria esperienza mentre la proiettano fuori.

Accanto a quelle mani sulle pareti, troviamo le Veneri: la Venere di Willendorf (Austria, 30.000-25.000 a.C.) con i suoi seni enormi e il ventre gravido, la Venere di Lespugue(25.000 a.C.) con i fianchi larghi e le forme abbondanti. Sono corpi vissuti dall'interno, corpi che sembrano celebrare la vita, che nutrono, che generano. 

Per comunità preistoriche il cui orizzonte esistenziale è dominato dalla sopravvivenza collettiva in un ambiente ostile, queste rappresentazioni potrebbero aver incarnato la continuità stessa della vita – ma è interpretazione: non sappiamo con certezza cosa significassero per chi le scolpiva. Non c'è ancora separazione netta tra il corpo e la funzione biologica fondamentale, tra la carne e il significato. Chi scolpisce è ancora dentro quella totalità, sente il peso, la tensione, la forza. Il corpo rappresentato nasce dal corpo vissuto.

Il corpo codificato: l'Egitto e la distanza necessaria

L'Egitto codifica il corpo, lo trasforma in convenzione rappresentativa necessaria alla sopravvivenza oltre la morte. Nelle pitture funerarie – dagli affreschi della tomba di Nebamun (1350 a.C.) alle scene della tomba di Menna a Tebe (1395 a.C.) – il corpo viene costruito secondo precise regole: occhio e busto frontali, testa e gambe di profilo, una composizione impossibile da abitare realmente ma perfetta per essere riconosciuta.

Questa rappresentazione non è arbitraria né puramente estetica: è tecnologia sacra. Secondo la cosmologia egizia, l'essere umano è composto da molteplici elementi: il Ka (la forza vitale), il Ba (l'anima-uccello che può viaggiare tra i mondi), e il corpo fisico che deve restare integro perché queste componenti spirituali possano ritrovarlo. L'arte egizia non rappresenta semplicemente il corpo: lo ri-costruisce come interfaccia tra mondi, come punto di ancoraggio per l'identità che sopravvive alla morte.

Si amplia lo spazio tra il corpo che sente e il corpo che viene mostrato. Il corpo rappresentato non coincide più con il corpo vissuto: è la sua traduzione in un altro ordine di realtà. L'egizio che guarda il proprio ritratto funerario non vi riconosce il proprio aspetto quotidiano, ma la propria identità eterna codificata per gli Dei.

Eppure sarebbe riduttivo vedere l'Egitto solo come astrazione. Nei papiri erotici, nelle scene di banchetto, nelle danze rituali emerge anche una straordinaria fisicità, una celebrazione del corpo vivente. La tensione tra corpo codificato e corpo vissuto attraversa tutta la cultura egizia, non la risolve in un senso unico. Ma il linguaggio dominante è chiaro: il corpo diventa segno che può essere letto, interpretato, riconosciuto. E un segno, per sua natura, non coincide con ciò che significa. Lo spazio tra corpo vissuto e corpo rappresentato si è allargato.

Il corpo misurato: la Grecia e il paradosso della perfezione

nel momento in cui il corpo diventa così studiato, così compreso, diventa anche irraggiungibile.

I Greci trasformano quella distanza in scienza. Ciò che in Egitto era codice sacro diventa in Grecia proporzione matematica, ideale filosofico, norma estetica. Il Doriforo di Policleto (440 a.C.) incarna il canone: ogni parte del corpo sta in rapporto armonico con le altre secondo una formula precisa. Il Discobolo di Mirone (450 a.C.) cattura il momento di massima tensione atletica, ma in una forma così idealizzata che nessun corpo reale potrebbe mai incarnarla completamente.

Protagora afferma che "l'uomo è misura di tutte le cose" (πάντων χρημάτων μέτρον ἄνθρωπος). Secoli dopo, l'architetto romano Vitruvio codificherà le proporzioni del corpo come base dell'architettura. Il corpo diventa misura del mondo, proporzione aurea, perfezione da studiare e replicare.

Ed è precisamente qui che emerge il paradosso: nel momento in cui il corpo diventa così studiato, così compreso, diventa anche irraggiungibile. Nasce lo scarto tra il corpo che siamo e il corpo che dovremmo essere. Il corpo viene guardato da fuori, misurato, giudicato. Abitarlo dall'interno diventa più difficile.

Ma anche qui la realtà resiste alla semplificazione. La Grecia non è solo idealizzazione: i testi medici ippocratici parlano del corpo vissuto, delle sue fragilità. La tragedia mette in scena corpi che soffrono, sanguinano, invecchiano – Edipo si acceca, Filottete porta una ferita purulenta. Il concetto stesso di kalokagathia (καλοκαγαθία, "bello e buono") rivela che i Greci non pensavano il corpo separato dall'anima: la bellezza fisica doveva riflettere la nobiltà interiore. Il pathos tragico nasce proprio da questa integrazione: quando il corpo soffre, soffre l'essere intero.

L'ideale convive con il reale, lo sovrasta ma non lo cancella. Eppure il linguaggio dominante è quello della misura, della norma, dell'ideale. E proprio questa tensione irrisolta diventerà, nei secoli successivi, campo di battaglia morale. La distanza si fa più netta.

Il corpo negato: il Medioevo e la contraddizione costitutiva

Ciò che era misura perfetta diventa ora carne peccaminosa. Il Medioevo porta la dissociazione verso un'altra direzione: il corpo non è più troppo imperfetto rispetto all'ideale (come in Grecia), è intrinsecamente corrotto, nemico, tentazione. San Paolo scrive: "La carne ha desideri contrari allo Spirito" (Galati 5,17). Sant'Agostino teorizza la superiorità dell'anima sul corpo, eredità del platonismo filtrata attraverso il cristianesimo.

Nei mosaici di Ravenna (San Vitale, VI secolo) i corpi si smaterializzano, diventano oro, luce, superficie piatta. Non c'è più volume, peso, fisicità. Le figure sacre fluttuano su fondi dorati, senza ombre, senza gravità. La rappresentazione riduce intenzionalmente il "dentro" corporeo per affermare il "fuori" divino, spirituale.

Eppure – in questo punto emerge il nodo più affascinante – proprio nel momento di massima negazione teorica, il corpo rimane ossessivamente presente. Il cristianesimo è fondato sull'Incarnazione: "E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi" (Giovanni 1,14)¹. Dio stesso ha assunto un corpo, ha avuto fame, sete, ha sudato, sofferto, è morto in quel corpo. Tertulliano scrive: "Caro cardo salutis" – la carne è il cardine della salvezza.

Questa contraddizione produce una cultura che nega e celebra il corpo simultaneamente. I reliquiari conservano ossessivamente frammenti corporei: denti, ossa, capelli di santi. Il Crocifisso di Cimabue (1272-1280) mostra un corpo martirizzato in ogni dettaglio anatomico. Il corpo viene rappresentato mentre viene negato, glorificato attraverso la sofferenza.

Il corpo medievale è un campo di battaglia dove si combatte la guerra tra carne e spirito. In questa lacerazione, il corpo perde definitivamente la propria unità. Non può più essere abitato serenamente dall'interno perché è sempre sotto sorveglianza morale, sempre sospetto. La distanza tra corpo vissuto e corpo rappresentato si trasforma in frattura morale.

Nel testo originale greco, il termine utilizzato è Λόγος (Logos), il quale, oltre a "Parola" o "Verbo", porta il significato filosofico di "Ragione" o "Principio ordinatore", rafforzando il legame tra la dottrina cristiana e l'eredità platonica discussa precedentemente (Sant'Agostino).

Il corpo sezionato: il Rinascimento e il sapere che allontana

Il Rinascimento sembra riportare il corpo al centro, ma è un ritorno ambiguo: il corpo diventa oggetto di indagine scientifica. Leonardo da Vinci disseziona cadaveri a Santa Maria Nuova a Firenze, produce gli straordinari Studi anatomici (1489-1515) dove ogni muscolo, ogni tendine, ogni organo viene disegnato con precisione scientifica. L'Uomo Vitruviano (1490) sintetizza la nuova visione: il corpo umano perfettamente inscritto nel cerchio e nel quadrato, geometria vivente.

Ma cosa significa questa nuova conoscenza? Leonardo apre i corpi per capire come funzionano, traccia mappe dei nervi, studia il cuore come una pompa meccanica. È un sapere straordinario, liberatorio, che strappa il corpo al monopolio della teologia. Eppure è anche un sapere "dall'esterno": anatomia, proporzione, misura. Il corpo viene conosciuto come mai prima, ma questa conoscenza è quella dell'osservatore distaccato, del chirurgo, dello scienziato.

Si cristallizza una distinzione fondamentale tra due modi di conoscere il corpo: il sapere oggettivo dell'anatomia (il Körper di cui parla Merleau-Ponty) e l'esperienza soggettiva del corpo vissuto (il Leib). Posso studiare tutti i muscoli coinvolti nel camminare, ma questo non è la stessa cosa di sentire il peso del corpo che si sposta da un piede all'altro.

Michelangelo spinge questa conoscenza fino ai limiti dell'umano: crea corpi titanici nella Cappella Sistina (1508-1512), il David (1501-1504) monumentale. Sono corpi che dimostrano una comprensione anatomica straordinaria, ogni muscolo è al posto giusto, ogni tendine si tende correttamente. Ma questa stessa perfezione li rende irraggiungibili. Sono più vicini agli Dei che agli esseri umani, ideali da contemplare ma impossibili da abitare.

Anche qui persistono resistenze: i ritratti di Dürer e Rembrandt mostrano rughe, imperfezioni, segni del tempo. C'è una tensione continua tra idealizzazione e realismo. Ma il linguaggio dominante è chiaro: il corpo sta diventando sempre più oggetto di studio e sempre meno luogo di esperienza diretta.

 

Il corpo teatralizzato: il Barocco e lo spettacolo dell'interiorità

Il Barocco porta a compimento la logica rinascimentale ma la rovescia: se il Rinascimento studiava il corpo dall'esterno per capirne la struttura, il Barocco usa quella conoscenza per mettere in scena l'interiorità stessa. Il corpo diventa teatro dell'anima, superficie espressiva dove le emozioni più intime vengono proiettate per essere viste.

Gian Lorenzo Bernini scolpisce l'Estasi di Santa Teresa (1647-1652). Teresa d'Avila aveva descritto nei suoi scritti un'esperienza mistica interiore intensissima, corporea, viscerale – "Vedevo un angelo... con un dardo d'oro la cui punta sembrava di fuoco: lo conficcò più volte nel mio cuore fino alle viscere". Era un'esperienza privata, indicibile, profondamente "dentro".

Bernini traduce questa esperienza in forma visibile. La bocca semiaperta, la testa rovesciata, le pieghe del vestito che sembrano fluide come acqua, l'angelo con il dardo: ogni dettaglio è orchestrato per comunicare l'intensità dell'esperienza mistica. Il corpo in estasi viene mostrato dall'esterno proprio nel momento in cui è più profondamente "dentro" l'esperienza.

Il corpo barocco è sempre per uno sguardo, sempre in scena. Anche quando rappresenta la solitudine o l'intimità, lo fa in forma teatrale, consapevole di essere guardato. Questa non è solo una scelta estetica: è il corpo che si fa politica e propaganda, la gloria del santo o del re in un'epoca di Controriforma e assolutismo.

Eppure, anche qui, la complessità resiste. Artemisia Gentileschi dipinge in Giuditta che decapita Oloferne (1612-1613) corpi che agiscono, scelgono, resistono. La teatralità può essere anche strumento di rivendicazione, non solo di controllo. Ma il linguaggio dominante è chiaro: il corpo è performance, messa in scena orchestrata.

Il corpo nella sua crudezza: il Romanticismo e l'apertura al non-ideale

Il Romanticismo ribalta tutto. Per la prima volta, ogni corpo diventa degno di rappresentazione – non solo l'ideale, non solo il bello, ma anche il deforme, il morente, il cadavere.

Théodore Géricault compie un gesto radicale: per dipingere La zattera della Medusa (1818-1819) va all'obitorio, studia cadaveri in decomposizione, porta pezzi anatomici nel suo atelier. Il dipinto mostra corpi ammassati, alcuni morti, alcuni agonizzanti, carnalità nuda e disperata. Non c'è più l'ordine classico: c'è caos, sofferenza, morte reale studiata dal vero.

Il Romanticismo rivendica il corpo che sente contro il corpo misurato: il dolore, il dramma umano, la passione. È il corpo che sfugge al controllo razionale, che rivendica la propria irriducibilità all'ordine.

E proprio questa apertura totale – questo dichiarare che ogni corpo, anche il più "basso", può essere arte – prepara una rivoluzione ancora più radicale: quella della tecnologia che fisserà il corpo meccanicamente, democratizzando definitivamente la rappresentazione

Il corpo duplicato: la fotografia e l'accelerazione

Con l'invenzione del dagherrotipo da parte di Louis Daguerre (1839) e i primi ritratti di Nadar, qualcosa di radicalmente nuovo accade: il corpo può essere fissato meccanicamente, istantaneamente, senza la mediazione dell'artista. Il doppio tecnologico nasce ed è infinitamente riproducibile.

L'immagine del corpo può ora esistere separatamente dal corpo stesso, può essere posseduta, scambiata, commercializzata, guardata in assenza del corpo originale. La fotografia amplifica la separazione tra corpo vissuto e corpo rappresentato ben oltre quanto fatto dall'arte. Iniziamo a vivere anche attraverso quell'immagine fissa che ci rappresenta: il ritratto fotografico diventa documento d'identità, memoria familiare, prova di esistenza.

Il ritratto fotografico non è più un privilegio aristocratico ma diventa accessibile alla borghesia, poi alle masse. Tutti possono ora avere un doppio, tutti possono guardarsi dall'esterno. Quello che era iniziato come codifica sacra in Egitto, come misura ideale in Grecia, come negazione tormentata nel Medioevo, come conoscenza anatomica nel Rinascimento, come teatralizzazione nel Barocco, diventa ora riproducibilità tecnica di massa.

La separazione tra corpo vissuto e corpo rappresentato non è più questione filosofica o teologica: è diventata industria².

La fotografia erotica e pornografica nasce quasi contemporaneamente al medium stesso: già negli anni Quaranta dell'Ottocento compaiono i primi dagherrotipi di nudi³. L'era capitalista trova nella fotografia lo strumento perfetto per la mercificazione del corpo.

² La riproducibilità tecnica, pur democratizzando l'accesso alla rappresentazione, segna secondo Walter Benjamin (L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936) la perdita dell'aura e apre la via alla mercificazione dell'immagine. Il corpo fotografato diventa merce scambiabile, anticipando la logica del capitale estetico nell'era digitale.

³ Già negli anni Quaranta dell'Ottocento compaiono i primi dagherrotipi di nudi; negli anni Cinquanta la produzione è industrializzata (McCauley, 1994). Il corpo fotografato – soprattutto quello femminile – diventa merce scambiabile su larga scala. La capacità di riprodurre tecnicamente il corpo lo trasforma in capitale: può essere venduto, collezionato, posseduto attraverso l'immagine.

Il corpo frantumato: le avanguardie e il disagio

Le avanguardie del Novecento sentono il problema e lo urlano. Pablo Picasso con Les Demoiselles d'Avignon (1907) frantuma il corpo in piani cubisti. C'è in quella frammentazione una ribellione contro il corpo-oggetto, il corpo-industria, il corpo ridotto a merce scambiabile che la fotografia ha normalizzato. I corpi delle prostitute vengono scomposti, moltiplicati, visti da più angolazioni simultaneamente, come se l'arte cercasse di sottrarli allo sguardo fisso e possessivo, a quella logica di consumo visivo che il capitalismo ha perfezionato.

Edvard Munch e Egon Schiele mostrano due facce dello stesso disagio. In Munch (L'urlo, 1893) i corpi esplodono: si dissolvono nell'ambiente, le linee si fanno onde che travolgono la figura, l'angoscia si proietta fuori in un grido visivo. In Schiele (Autoritratto nudo, 1910) i corpi implodono: si ripiegano su se stessi, spigolosi, contorti, riflettono l'inquietudine di chi non abita più comodamente la propria pelle.

Non sono corpi belli secondo nessun canone, sono corpi che portano su di sé la fragilità, il disagio esistenziale. È ribellione contro la cultura dominante che ha progressivamente espropriato il corpo della sua esperienza diretta. È un grido di protesta contro la riduzione del corpo a oggetto, ma è anche l'ammissione di una difficoltà: il corpo non si lascia più catturare dalle vecchie forme di rappresentazione.

Francis Bacon porta questa lacerazione oltre la guerra. Nei suoi dipinti del dopoguerra – Three Studies for Figures at the Base of a Crucifixion (1944), Study after Velázquez's Portrait of Pope Innocent X (1953), Study for a Portrait (1967) – i corpi si disfano ma non scompaiono. Si contorcono, urlano, si liquefanno su divani di pelle e in stanze claustrofobiche, ma restano ostinatamente carne.

Bacon dipinge dopo Auschwitz, dopo che il corpo è stato ridotto a cenere industriale, e la sua risposta è testarda: il corpo può essere torturato, deformato, ma non può essere completamente cancellato. È carne che resiste, presenza irriducibile anche nella deformazione. I suoi papi urlano dentro gabbie dorate, i suoi nudi si sfaldano ma occupano ancora spazio, peso, gravità.

Non è più il corpo ideale greco, né il corpo misurato rinascimentale, né il corpo teatrale barocco. È il corpo ridotto alla sua materialità più brutale: viscere, muscoli, grasso, ossa. Il corpo che la cultura ha cercato per millenni di trascendere, idealizzare, spiritualizzare, qui viene mostrato nella sua irriducibile carnalità. È disagio puro, ma è anche resistenza.

Marcel Duchamp chiude il cerchio in modo ancora più inquietante. Étant donnés (1946-1966), la sua ultima opera, è una porta di legno chiusa. Chi guarda deve avvicinarsi, spiare attraverso due fori. Dall'altra parte: un corpo femminile nudo, disteso su rami e foglie secche, le gambe divaricate, il volto invisibile, una lampada a gas nella mano alzata. Il corpo è frammento, è oggetto da guardare di nascosto, da consumare attraverso un buco.

È l'opera che anticipa profeticamente lo sguardo digitale: il corpo ridotto a immagine voyeuristica, sempre disponibile, sempre spiabile, mai interamente possedibile ma infinitamente consumabile. Il corpo di Étant donnés non ha volto, non ha identità – ha solo una posizione, una disponibilità allo sguardo. Duchamp costruisce letteralmente il dispositivo dello schermo: una superficie che separa, un buco attraverso cui guardare, un corpo che esiste solo per essere visto.

Trent'anni prima di Instagram, settant'anni prima dei siti pornografici, Duchamp ha capito: il corpo nell'era della riproducibilità tecnica diventa corpo per lo sguardo, corpo eternamente esposto ma mai toccabile, corpo che esiste solo nella distanza della visione.

La frammentazione (Picasso), l'implosione (Schiele), la resistenza carnale (Bacon), la riduzione a oggetto voyeuristico (Duchamp): le avanguardie non propongono soluzioni, mostrano sintomi. Diagnosticano il problema da angolazioni diverse, ma non hanno la cura. La crepa è ormai troppo profonda.

La cesura: corpo e totalitarismo

Tra le avanguardie e la Body Art si colloca una cesura storica fondamentale: la Seconda Guerra Mondiale. I campi di concentramento nazisti mostrano il corpo ridotto a numero, a statistica, a cenere. L'Olocausto rappresenta il punto di massima alienazione del corpo nella storia occidentale: corpi tatuati con numeri identificativi, schedati, spogliati di ogni dignità, gasificati, inceneriti secondo logiche industriali di massa.

Il corpo viene letteralmente trasformato in materiale da processare: capelli diventano tessuti, ceneri diventano fertilizzante, oro dentale viene fuso. Charlotte Salomon dipinge Leben? oder Theater? (1941-42) nei due anni prima di essere deportata e uccisa ad Auschwitz a ventisei anni. David Olère, deportato a Birkenau, è costretto a lavorare nei Sonderkommando: dopo la liberazione documenta ossessivamente i forni crematori, il corpo trasformato in processo industriale. La distanza tra corpo vissuto e corpo oggettificato raggiunge il suo culmine nell'orrore: il corpo non è più nemmeno rappresentazione, è materia prima.

Di fronte a questa atrocità, l'arte del dopoguerra si interroga: come si può ancora rappresentare il corpo dopo Auschwitz? Come si può fare arte quando la rappresentazione stessa è stata complice della disumanizzazione? Jean Dubuffet fonda l'Art Brut (1949): cerca un corpo "grezzo", non mediato dalla cultura che ha prodotto l'orrore. Francis Bacon dipinge corpi torturati, deformati, ma ancora carne viva – ancora presenza che resiste alla riduzione.

La Body Art nasce anche da qui: dalla necessità di riaffermare il corpo come presenza irriducibile, come esperienza vissuta che nessuna rappresentazione può catturare completamente, che nessuna riduzione a numero o oggetto può annullare.

Il corpo rivendicato: la Body Art e il tentativo estremo

In un'epoca di contestazione radicale – la guerra del Vietnam, i movimenti femministi, le lotte per i diritti civili, il Sessantotto – la Body Art degli anni Sessanta e Settanta segna il tentativo più radicale di riportare insieme dentro e fuori. In un momento storico in cui i corpi vengono mobilitati politicamente (corpi che marciano, che occupano, che resistono), alcuni artisti scelgono di fare del proprio corpo il luogo stesso dell'opera, rivendicandolo come territorio di ricerca e libertà. Marina Abramović, Gina Pane, Carolee Schneemann, Vito Acconci non rappresentano il corpo: lo usano.

Yves Klein nelle Antropometrie (1960) segna una transizione cruciale: utilizza modelle nude come "pennelli viventi", i corpi femminili vengono coperti di pigmento blu e poi premuti contro la tela, lasciando impronte, tracce. I corpi non sono più rappresentati dall'esterno: sono nell'opera, materialmente. È un gesto ambiguo – i corpi femminili restano strumentalizzati – ma segna un passaggio fondamentale verso l'uso del corpo come materiale stesso dell'opera.

Il passo successivo lo compie la Body Art vera e propria: il corpo diventa simultaneamente soggetto e oggetto, esperienza e rappresentazione.

In Azione sentimentale (1973), Gina Pane si taglia il braccio con una lametta davanti al pubblico: sta dentro la sensazione del dolore e fuori, consapevole che quel gesto è opera d'arte per chi guarda. Il sangue che esce è sangue vero, il dolore è dolore vero, ma il gesto è anche performance, comunicazione, arte. Dove finisce l'esperienza e inizia la rappresentazione?

Marina Abramović in Rhythm 0 (1974) si espone passivamente per sei ore mentre il pubblico può usare su di lei 72 oggetti, da una rosa a una pistola carica. Rivendica il proprio corpo come territorio di ricerca, esperienza vissuta in prima persona. Carolee Schneemann in Interior Scroll (1975) estrae un rotolo di carta dalla propria vagina e legge un testo sulla creatività: il dentro letteralmente diventa fuori, senza mediazione.

Cindy Sherman nelle serie fotografiche Untitled Film Stills (1977-1980) decostruisce gli stereotipi, mostra come ogni immagine sia costruzione, maschera, proiezione. Judy Chicago con The Dinner Party (1974-79) celebra il corpo da una prospettiva interna, vissuta.

Il corpo smette di essere rappresentato per tornare a essere presenza, ma una presenza paradossale: esposta, vulnerabile, che si ferisce per sentirsi in un mondo che ha anestetizzato ogni sensazione corporea. È il momento in cui dentro e fuori tentano disperatamente di coincidere di nuovo – ma al prezzo del trauma, della ferita, dell'estremo.

Eppure mentre l'arte prova a ricongiungere corpo vissuto e corpo rappresentato attraverso la performance, la cultura di massa sta perfezionando la loro separazione definitiva attraverso la tecnologia digitale.

Il corpo carnale contro il canone: transizione verso il digitale

Orlan nelle Chirurgie-performances (1990-1993) denuncia artisticamente l'assurdità di questa dinamica: si opera chirurgicamente in performance pubbliche trasmesse in diretta, modificando il proprio volto per farlo assomigliare ai canoni dell'arte classica – la fronte della Mona Lisa, il mento della Venere di Botticelli. Era denuncia radicale, critica feroce. Ma quella denuncia è stata sommersa dalla normalizzazione sociale della stessa pratica.

Mentre Orlan decostruiva chirurgicamente i canoni attraverso la provocazione estrema, Jenny Saville negli anni Novanta li affrontava attraverso la pittura, ma con un'urgenza analoga. In opere monumentali come Strategy (1994) e Plan (1993), Saville dipinge corpi femminili visti dal basso, spesso autoritratti, dove la carne si ammassa, si piega, occupa lo spazio con una presenza fisica quasi violenta.

Ciò che rende Saville centrale per questo discorso non è semplicemente la rappresentazione di corpi non conformi ai canoni estetici dominanti, ma il modo in cui questi corpi portano letteralmente su di sé le misure della propria inadeguatezza. In Plan, il corpo nudo dell'artista è segnato da linee bianche – le marcature che il chirurgo estetico traccherebbe sulla pelle per indicare dove tagliare, dove aspirare, dove "correggere". La distanza tra corpo vissuto dall'interno e corpo giudicato dall'esterno è scritta direttamente sulla carne.

Sono corpi che rivendicano il proprio peso, la propria gravità, la propria materialità contro un'epoca – gli anni Novanta dei corpi sempre più standardizzati dalla cultura di massa, dall'estetica "heroin chic" alla chirurgia estetica nascente – che stava perfezionando la normalizzazione dell'impossibile. Saville dipinge dall'interno l'esperienza di abitare un corpo che il mondo guarda come problema da risolvere.

La sua pittura segna un momento di transizione cruciale: siamo già nell'epoca in cui la chirurgia estetica sta diventando pratica diffusa, in cui i corpi vengono quotidianamente confrontati con standard irrealistici, ma non siamo ancora nell'era dei filtri automatici e della condivisione istantanea sui social media. Le linee tracciate sulla carne in Plan anticipano profeticamente i filtri che pochi anni dopo potranno modificare il corpo in tempo reale sullo schermo. La distanza tra corpo reale e corpo ideale, che Saville denuncia attraverso la pittura monumentale, sta per diventare distanza tecnicamente colmabile – o almeno, così promette la tecnologia digitale che sta per esplodere.

Il corpo proiettato: l'era degli schermi

Viviamo nell'epoca di Instagram (2010), TikTok (2016), filtri beauty, chirurgia estetica presentata come routine di cura personale. Le piattaforme social hanno industrializzato la logica del doppio: ogni esperienza corporea può essere immediatamente fotografata, filtrata, condivisa, validata attraverso like e commenti. Il corpo diventa simultaneamente vissuto e rappresentato, ma la rappresentazione tende a colonizzare l'esperienza: si vive per fotografare, si sceglie cosa fare in base a come apparirà nell'immagine.

Uno studio pubblicato su JAMA Facial Plastic Surgery nel 2018 (Rajanala et al.) ha documentato il fenomeno della "Snapchat dysmorphia": persone che portano dal chirurgo le proprie foto filtrate digitalmente, chiedendo di essere operate per assomigliare alla versione modificata di sé. Il corpo reale diventa il problema da correggere per farlo combaciare con l'immagine digitale. La proiezione non è più lo specchio del corpo: è il corpo che deve diventare specchio della proiezione.

Questa inversione segna il punto di massima distanza dal corpo vissuto della preistoria. Non si tratta più di proiettare fuori un'esperienza interna, ma di conformare l'esperienza interna a un modello esterno generato algoritmicamente, validato socialmente attraverso metriche di engagement. Il fenomeno è ancora più complesso quando coinvolge celebrità che a sessant'anni appaiono con corpi apparentemente immutati: quando un corpo evidentemente modificato attraverso chirurgia, trattamenti estetici e editing digitale viene presentato come risultato di "disciplina" e "stile di vita", si crea un modello radicalmente impossibile che genera disagio diffuso.

Ma la tecnologia digitale rivela qui un paradosso costitutivo: la stessa modificabilità infinita dell'immagine che aliena può anche liberare. Per le persone transgender e non-binary, la possibilità di modificare digitalmente il proprio corpo, di vedersi rappresentati secondo la propria identità di genere prima ancora di poter accedere a transizioni mediche, apre spazi di autodeterminazione e riconoscimento. Il filtro che per alcuni è prigione, per altri diventa strumento di esplorazione identitaria. La distanza tra corpo vissuto e corpo rappresentato non è sempre alienante: può essere anche il luogo dove si costruisce un corpo possibile, dove l'immagine anticipa e sostiene l'esperienza. Il digitale non è neutro: è campo di battaglia dove la stessa tecnologia può asservire o emancipare, a seconda di chi la usa e perché.

E poi c'è l'ultima frontiera: il corpo che non esiste affatto. Influencer virtuali generati dall'IA come Lil Miquela o Noonoouri accumulano milioni di follower, pubblicizzano prodotti reali, interagiscono con persone reali. Corpi completamente inventati che abitano lo stesso spazio visivo dei corpi fotografati. I deepfake permettono di creare video perfettamente realistici di persone che non hanno mai detto o fatto ciò che mostrano. Siamo oltre la modificazione del corpo: siamo alla sua completa invenzione algoritmica. Il corpo rappresentato si è definitivamente emancipato dal corpo vissuto – non ha più bisogno che esista un corpo reale da cui partire. Può essere generato dal nulla, pixel dopo pixel, secondo logiche di mercato o desiderio.

la cultura digitale non è monolitica, è terreno di scontro continuo.

Eppure anche qui esistono resistenze: la cultura digitale non è monolitica, è terreno di scontro continuo. Movimenti come il body positivity tentano di riaffermare il corpo vissuto all'interno dello spazio digitale: mostrano cicatrici, smagliature, corpi che invecchiano, che non rispondono ai canoni algoritmici. È la versione civile – e necessariamente meno radicale – dell'urgenza che spingeva Gina Pane a ferirsi per sentirsi.

Ma queste resistenze operano all'interno della stessa logica dell'immagine: sono corpi che devono comunque essere esposti, fotografati, validati attraverso like e condivisioni. La resistenza è reale ma strutturalmente limitata: è un tentativo di riabitare il corpo dall'interno usando strumenti che per loro natura proiettano verso l'esterno. La resistenza avviene negli stessi spazi che hanno creato il problema, resta confinata dentro il dispositivo digitale che ha generato l'alienazione.

La pressione rimane intensa, soprattutto per chi cresce in un ambiente dove la propria immagine è costantemente esposta, giudicata, confrontata. Dove il corpo non è mai semplicemente vissuto ma sempre anche rappresentato, sempre in scena.

 

Conclusione: la distanza si è fatta abisso

Siamo partiti dalla mano che tocca la roccia ruvida della caverna: un gesto in cui il sentire e il vedere coincidevano perfettamente, in cui l'Io premeva contro il Mondo per affermare la propria esistenza.

Siamo arrivati, trentamila anni dopo, al dito che scorre sul vetro liscio dello schermo. Un gesto in cui tocchiamo una superficie fredda per manipolare immagini che non esistono, corpi che non respirano, esperienze che non abbiamo vissuto.

La sfida del XXI secolo non sarà tecnologica, ma ontologica: come tornare ad abitare il corpo? Forse la prossima vera avanguardia non sarà visiva, ma sensoriale.

Forse la vera ribellione, oggi, consiste nel chiudere gli occhi, sottrarsi allo specchio nero dello schermo e tornare, anche solo per un istante, a sentire il freddo che morde la pelle, il peso della gravità, il battito del cuore. Tornare a essere quel "dentro" che non ha bisogno di un "fuori" per sapere di esistere.


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Pubblicato il 03 dicembre 2025

Giuliana Renzella

Giuliana Renzella / Art Education Specialist | Inclusive Learning Expert | Developmental Counselor