Go down

I tempi sono quello che sono. Possiamo rimanere sulla terra in attesa delle rovine di cui saremo partecipi, forse anche complici. Chi coltiva ancora la speranza può sempre mettersi in mare, prendere il largo, con una nave dei folli, un’Arca, un vascello con cui evitare il naufragio, che non riguarderà i natanti in mare, ma coloro che sono rimasti a terra.


Il testo del titolo potrebbe essere latino, ma forse è lingua volgare, una lingua che rende la frase molto più significativa. Racconta meglio la percezione e la preoccupazione di moltitudini (le plebi di un tempo) di persone che sentono di vivere tempi complicati, densi di difficoltà e di angoscia, e non solo per l’aumento delle bollette. 

Il nostro mondo è nei guai, lo pensano ottimisti e pessimisti, cinici e indifferenti, tutti, viste le circostanze e gli eventi che si trovano a vivere, spesso senza comprenderne le cause e gli effetti, la realtà superficiale o quella più profonda, il suo grado di verità o di falsità. Una prima conseguenza è la perdita di orientamento, della fiducia nel senso del progresso, che tanto ha caratterizzato la nostra era (post)moderna e che oggi non basta più a sostenere una narrazione del mondo per come viene vissuto, da molti in condizioni di semplice sopravvivenza. 

La sensazione condivisa da molti è che siamo alla fine di un mondo, quello che abbiamo conosciuto finora, un mondo inteso come totalità, che oggi ci obbliga a cambiare narrazione, le nostre prospettive e visioni del futuro. Lo smarrimento che ne deriva è alienante, può uccidere la lucidità perché è come se si percepisse l’inutilità di quanto fatto fin qui per trasformare in meglio il nostro mondo. Operazione non riuscita pare, considerando le rovine (non solo quelle di Gaza) nelle quali ci si trova oggi ad abitare, con le quali conviviamo e coesistiamo, e che condividiamo con altri. 

La realtà che è stata liquida per molti anni (Baumam e non solo), oggi si è solidificata, si è fatta spessa, toglie il respiro. A solidificarsi è anche l’aria, sempre più piena di particelle inquinanti e diventata soffocante, surriscaldata com’è da milioni di hard disk, cavi sotterranei e miliardi di dispositivi sempre accesi, inquinata da polveri sottili e da una urbanizzazione crescente che sta trasformando il mondo abitato. 

Tutto sembra condurre a un senso di vertigine (di vuoto) su un abisso nel quale è sprofondato il nostro eterno presente, facendoci sentire l’isolamento che ne deriva, ma facendoci anche sperimentare quanto siamo esposti a futuri pieni di incognite e pericoli, di cui siamo noi stessi creatori e produttori. È una vertigine che non trova spazio nelle narrazioni di cui ci nutriamo ogni giorno per sentirci coinvolti e vivi. La si potrebbe raccontare a partire da esperienze personali, dal vissuto, ma si fa fatica a trovare le parole, a dare loro i significati che servono, a recuperare il senso, ormai andato perduto nei lessici consolidati con cui ci si trova ogni giorno a confrontarsi. 

Le risorse disponibili per affrontare la realtà del momento sono percepite come limitate, scarse. Scarsa è anche la risorsa del pensiero, la risorsa che più di altre dovremmo usare per comprendere quello che sta succedendo, per sostenere il volere e l’agire, per alimentare un movimento vivo del pensiero, non piegato al “wokismo” di turno, ma capace di produrre visioni alternative, contro-memorie, capaci di crescere “con e contro il suo tempo”. 

Il mondo è globalizzato ma le differenze rimangono, in particolare quella tra Occidente e mondo non Occidentale. Chi vive nel mondo Occidentale è traumatizzato e impotente, sa di vivere tempi di profonda crisi, a causa della guerra (la pace ormai vissuta come un’utopia), della crisi climatica inarrestabile, di leadership inadeguate e scadenti, disuguaglianze e povertà crescenti, mancanza di solidarietà, ma soprattutto per il declino demografico, morale ed economico, e la senescenza diffusa che caratterizzano tutte le società occidentali. 

L’elemento emergente degli ultimi tempi è la ferocia. È un sentimento che si affianca alla rabbia soppressa, che abita oggi moltissime persone e che, quando viene liberata, si manifesta spesso in forma violenta e feroce, immotivata ma espressa a tinte forti, con conseguenze tragiche. Rabbia e ferocia si manifestano all’improvviso, rompono schemi, ogni forma di pensiero critico e di analisi, non trovano sollievo nelle parole che da tempo vivono confinate dentro un linguaggio iperveloce, accelerato, semplificato, contratto nelle forme e inadeguato nei contenuti. 

Ogni giorno che passa molti si stanno convincendo che siamo andati oltre la post-democrazia. Siamo sempre più in assenza di democrazia. Un’assenza ben riassunta dal politologo americano Robert Kagan che in una intervista a una domanda che lo interrogava su quanto sta succedendo negli Stati Uniti dopo l’elezione di Trump ha risposto che “Il capitalismo ha deciso di poter fare a meno della democrazia " (tradotto: Il capitalismo non ha bisogno della democrazia per prosperare e fare profitti). Prenderne atto è un modo per acquisire la consapevolezza che serve all’azione finalizzata a difendere valori, pratiche, beni comuni, istituzioni che della democrazia hanno fatto parte, sostenendola.

Quella che stiamo affrontando è una crisi esistenziale che deve convivere con molteplici altre crisi in costante emersione, alcune delle quali percepite come letali: una pandemia diffusa di odio e di divisioni in aumento, il contagio della paura, seguita o originatrice della disperazione (non riguarda solo gli abitanti dell’Ucraina o quelli di quel che rimane di Gaza), innalzamento delle temperature e dei mari, la scomparsa dei beni comuni espropriati dal dio mercato e dalle divinità del denaro e del profitto. Ciò che servirebbe sarebbe un cambiamento di prospettiva, di visione, di paradigma, ma affaticati e accecati come siamo è difficile che ciò possa succedere, se non per merito di “uomini di buona volontà”. 

Il cambio di paradigma necessario non suggerisce di aumentare gli investimenti in risorse utili ad andare sulla Luna o su Marte, ma a pensare a come fare a rigenerare (co-creare dice Vandana Shiva) la terra nella quale viviamo e che è da sempre un organismo vivente autopoietico, responsabile del nostro essere vivi su di essa. Una responsabilità alla quale non ne corrisponde una nostra, visto quanto siamo impegnati a coltivare una cultura utilitarista, di guadagno e dello star bene a breve tempo, estrattivista come se le risorse del pianeta fossero inesauribili. La parola chiave è (ri)generazione. Lo è a maggior ragione considerando quanta noncuranza susciti in persone che passano il loro tempo a celebrare le sorti “progressive” delle intelligenze artificiali generative. Alla generatività dei modelli LLM delle macchine dedichiamo così tanto tempo da non disporne più per riflettere che di altre generazioni e rigenerazioni avremmo bisogno, tutte alternative a quelle macchiniche e meccaniche delle macchine. 

“I semi non sono macchine. Le piante non sono macchine, Gli animali non sono macchine. Non siamo macchine. Le nostre menti non sono macchine. (Vandana Shiva)

Le intelligenze artificiali generative, grazie ai loro potenti algoritmi e abilità retorica,  nella narrazione corrente sono destinate a dominare il mondo, Potranno forse favorire la ricchezza di molti (pochi in percentuale) ma non potranno mai rigenerare la vita perché la rigenerazione di cui abbiamo bisogno è ontologica ed epistemologica, non tecnologica. Ci serve una rivoluzione nell’agire e nel pensare, una rivoluzione per la quale nessuna ChatGPT sarà mai in grado di fornire gli strumenti e le risposte necessarie. 

“Quando l’ultimo albero sarà tagliato, l’ultimo pesce mangiato e l’ultimo ruscello avvelenato, vi renderete conto che non potete mangiare il denaro” (una profezia degli indiani Cree) 

Viviamo tempi di rovine ma celebriamo la “disruption” come forza di cambiamento e innovazione, a prescindere dagli effetti negativi e dalle conseguenze sociali che può generare. Ciò che conta è progredire, innovare, come se progresso e innovazione fossero le parole magiche su cui investire per il nostro futuro di umani sulla terra. E se invece ci interrogassimo criticamente sul valore effettivo di una “disruption” che tanti danni sta creando, dentro la fase attuale di capitalismo neoliberista, estrattivista, tecnologico e tecnocratico che stiamo vivendo? L’interrogarsi rimane scelta di pochi coraggiosi che, grazie al loro pensiero critico, trovano ancora la forza di opporsi a quello che ormai è diventato il linguaggio dominante e comune (koinè). Resistono alle narrazioni conformiste del tempo evidenziando come dietro parole all’apparenza neutrali come disruption ci sia e si coltivi l’indifferenza per tutto ciò che non sia collegato al profitto e al progresso. Che poi sono un progresso e un profitto solo per pochi, mai solidale e partecipato, spesso anche senza qualità. Bisognerebbe cambiare le narrazioni ma per farlo bisogna uscire dalle forme che la narrazione ha assunto nei nostri tempi tecnologici e diventare una narrazione esistenziale e umana, filosofica e psicanalitica, soprattutto politica. Adeguarsi alla narrazione sulla disruption porta al nichilismo. 

Le rovine a cui ci stiamo abituando non sono archeologiche. Non lo sono perché il rischio è che non abbiano turisti che le visiteranno. Molte delle rovine a venire poi saranno sottomarine, a causa dell’innalzamento del mare che farà sparire isole, città e forse civiltà. Nulla da meravigliarsi, tutte le civiltà prima o poi vanno in rovina. È successo all’Impero Romano, sembra stia succedendo anche all’Impero Americano. Affermare questo non significa essere apocalittici, semplice realismo. Bisogna farsene una ragione. 

Chi coltiva ancora la speranza comunque può mettersi in mare, prendere il largo, con una nave dei folli, un’Arca, un vascello con cui evitare il naufragio, che non riguarderà i natanti in mare, ma coloro che sono rimasti a terra. 


 

 Bibliografia

Michael Marder, Giovanbattista Tusa, Tempo Incognito, Mimesis, 2024 

 

Pubblicato il 02 marzo 2025

Carlo Mazzucchelli

Carlo Mazzucchelli / ⛵⛵ Leggo, scrivo, viaggio, dialogo e mi ritengo fortunato nel poterlo fare – Co-fondatore di STULTIFERANAVIS

c.mazzucchelli@libero.it http://www.solotablet.it