Il reale non è un dato. È una versione. E solo decidendo quali versioni consideriamo stabili possiamo dire di avere una visione. E, forse, un mondo. L’ontologia, in questo senso, non è una branca della filosofia: è una pratica collettiva e quotidiana. Si manifesta nei modi in cui decidiamo cosa è importante, cosa ignoriamo, cosa rendiamo visibile. Come nelle comunità open source, dove ogni contributo è negoziato pubblicamente e ogni scelta è reversibile, anche nella vita reale esistono meccanismi di selezione, approvazione, conflitto.
La cultura cyberpunk lo aveva intuito: la realtà è un’interfaccia instabile, un campo semantico in costante riconfigurazione. Progettare – un piano strategico, una norma sociale, una forma di vita – significa agire su quella instabilità. Ogni lista di priorità è una dichiarazione implicita su ciò che conta. Ogni struttura di accesso e autorizzazione è una mappa invisibile del potere.
Parlare di ontologia è oggi un atto punk: non perché rifiuti l’ordine, ma perché ne espone la contingenza, ne sovverte la pretesa di naturalità. Chi progetta – e in fondo ogni soggetto progettante lo è – decide ciò che è reale: quali fenomeni registrare, quali dati trattare, quali voci ascoltare.
Yuk Hui propone di sostituire alla causalità lineare un pensiero della ricorsività: ogni versione è retroazione, ogni presenza è storicamente mediata. La realtà non è data, ma processata. Questa idea si riflette anche nel pensiero del rumeno Mircea Florian, che già negli anni '30 parlava di "divenire determinato": un’ontologia che riconosce il carattere storico e rinegoziabile delle forme logiche.
Kant ci offre il telaio teorico: nulla appare come oggetto se non è inserito in una sintesi condivisa. Ogni progettazione implica una visione, ma la visione non è mai neutra. Filtra, orienta, seleziona. Le anomalie, gli esclusi, i residui sono ciò che davvero ci interroga: non tanto ciò che il progetto accoglie, ma ciò che esso lascia fuori.
Ogni ambiente cooperativo – che sia una redazione, un laboratorio, un collettivo – è una macchina ontologica: costruisce ciò che ha diritto di cittadinanza nel discorso. Le sue metriche, i suoi linguaggi, i suoi artefatti sono forme di governo simbolico. Ogni atto organizzativo è anche un atto metafisico.
Per questo serve una responsabilità nuova: comprendere che ogni decisione operativa è anche una scelta sulla realtà. Non si tratta di aggiungere uno strato teorico alle pratiche quotidiane, ma di svelare che quelle pratiche *sono già* ontologia. Ogni struttura organizzativa – anche quella più agile, distribuita, decentralizzata – incorpora un’idea del mondo.
E allora forse bisogna tornare anche alla tradizione italiana. In Franco Berardi – Bifo – si trova un’intuizione potente: che ogni architettura cognitiva è anche una forma di gestione del desiderio, una modulazione del possibile. E che l’ontologia non è mai neutra: è sempre una scelta estetico-politica.
Pensare ontologicamente oggi significa rendere visibili le regole non dette, i criteri impliciti, le soglie cognitive che ci abitano. Significa non adattarsi per adattarsi, ma interrogarsi continuamente su cosa valga la pena accogliere nella nostra visione del reale. È questa la radicalità di un’ontologia punk: sapere che ogni configurazione è provvisoria, e che ogni configurazione può essere riscritta.
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## Bibliografia essenziale
- Immanuel Kant, *Critica della ragion pura*, trad. it. G. Gentile, G. Lombardo Radice, Laterza.
- Yuk Hui, *Recursivity and Contingency*, Rowman & Littlefield, 2019.
- Mircea Florian, *Recesivitatea ca structură a lumii*, Editura Ştiinţifică, Bucureşti, 1974.
- Richard J. Evans, \"The Apperception Engine\", in *Machine Learning and Human Cognition*, De Gruyter, 2022.
- Béatrice Longuenesse, *Kant and the Capacity to Judge*, Princeton University Press, 1998.
- Franco Berardi (Bifo), *Futurabilità. La crisi dell’anticipazione*, Nero Edizioni, 2017.