“Nel mondo ipocrita e bigotto in cui viviamo, le parole fanno più paura dei fatti.” - Marc Augé, Che fine ha fatto il futuro. Dai non luoghi al nontempo, Eléuthera, Milano 2020, Pag. 106
.
“La mostrificazione della parola è l’ultimo dono avvelenato che la nostra decadente società si è concessa.” - Nicla Vassallo Intervista al Corriere della Sera, 27 luglio 2023
.
“Spesso le parole sono solo pietre inerti, indumenti consunti e laceri. Possono anche essere erbacce, portatori di infezioni nocive, assi marce che non reggerebbero nemmeno il peso di una formica, figuriamoci la vita umana. Eppure, le parole sono una delle poche cose di cui disponiamo davvero, quando tutto sembra prendersi gioco di noi. Tienilo a mente. E tieni a mente anche una cosa che nessuno capisce: le parole più insignificanti e improbabili possono caricarsi inaspettatamente di un pesante fardello, e condurre la vita in salvo, oltre burroni vertiginosi.” - Jón Kalman Stefánsson, La tristezza degli angeli – Iperborea, Milano 2012
.
“La sostituzione crescente del linguaggio umano da parte dell’automa rende possibile l’emergere del grande nulla come intelligenza artificiale.” - Berardi Franco Bifo Il terzo inconscio, Nottetempo, Milano 2022, Pag. 345
.
“Noi pensiamo parlando. Un’idea senza parola o modo di esprimerla, si sfugge, o ci erra nel pensiero come indefinita e mal nota a noi medesimi che l’abbiamo concepita. Colla parola prende corpo e quasi forma visibile, e sensibile, e circoscritta.”– Giacomo Leopardi
Parole, Nostroverso e Metaverso
Nel Nostroverso anche le parole hanno un corpo, il linguaggio ha forma materica e corporea. Il corpo si fa abitare dalle parole, da un testo, mentre lo si recita, lo si sviluppa dentro una narrazione o una conversazione, un dialogo o un racconto. Il Metaverso suggerisce l’oblio del Nostroverso e dei corpi che lo abitano. Impone un dialogo disossato dalle sue funzionalità e modalità, non ha bisogno di pensiero, tanto meno di parole che, per definizione, sono sempre ambigue, ricche di sfumature, polisemiche, costruite sui piedi di un bipede umano che si è evoluto imparando a parlare mentre al tempo stesso camminava, dentro contesti ambientali e storici nei quali il corpo è sempre situato.
Il corpo si fa abitare dalle parole, da un testo, mentre lo si recita, lo si sviluppa dentro una narrazione o una conversazione, un dialogo o un racconto.
Il Metaverso alla Zuckerberg sarà pure tridimensionale ma sempre binario, nel suo imporre scelte tra un sì e un no, nel non tenere conto della complessità che sempre caratterizza il reale del Nostroverso, il suo raccontare la vita come flusso continuo di parole. Il Metaverso parla la neolingua rassicurante del già tutto concordato e definito, trasformata in strumento pubblicitario di comunicazione o di propaganda, privata di ogni ambiguità anche per favorire i processi consumeristici sui quali si regge. Il Nostroverso è sprovveduto, non specializzato, caotico e disordinato, usa una lingua per dargli un ordine e per resistere alla sua regolamentazione computazionale e algoritmica, non si accontenta più di parole che girano a vuoto o di spazi nei quali le parole sembrano verbalmente straripare, come quelle dei social. Dentro il Nostroverso le parole e il linguaggio si alimentano del toccare, del manipolare e del tastare, del tatto in generale (mentre tocco, mi percepisco toccato).
Nella società delle piattaforme il linguaggio, semplificato e mummificato dentro concetti, memi e acronimi (spesso in lingua inglese), sembra servire principalmente a fare la cronaca delle nostre vite, istante dopo istante, a navigare la nostra epoca fatta di applicazioni social, di profili digitali parlanti, le cui identità poco rispecchiano il vissuto reale delle persone che li hanno creati. A parole tutti siamo alla ricerca di felicità e gratificazioni, nella realtà percepiamo di essere intrappolati negli automatismi di macchine, lineari nei loro funzionamenti, “equivoche” nelle loro intenzioni e nei loro obiettivi, alle quali abbiamo dato una delega di responsabilità in bianco. Per questo incapaci di soddisfare i reali bisogni che caratterizzano la vita reale, di noi che ancora siamo umani.
Siamo diventati incapaci di allargare lo sguardo, di cambiare il linguaggio, per usarlo in attività analitiche e razionali utili a conoscere e comprendere meglio il mondo
Il linguaggio potrebbe servire a elaborare una critica, a sviluppare una conoscenza adeguata alle circostanze, a interrogarsi ponendosi le domande giuste, ma oggi nessuno o quasi vuole scendere in profondità, apprendere, comprendere e agire. Ci accontentiamo di chiacchierare in “digitalese”, di parlare, di raccontare come ipnotizzati, attraverso formule stereotipate e una lingua preformattata, i piccoli mondi nei quali ci siamo rinchiusi. Siamo diventati incapaci di allargare lo sguardo, di cambiare il linguaggio a cui ci siamo abituati, per usarlo in attività di analisi e razionali che potrebbero servire a conoscere e comprendere meglio il mondo digitalizzato del quale siamo diventati semplici utilizzatori. In questo modo il nostro linguaggio, neppure censurato tanto è diventato innocuo, non aiuta l’agire, non dà fastidio, è impotente, si conforma e si adegua al suo predominante e autocompiaciuto presente, si limita a comunicare, non si traduce in azioni.
Dentro il Nostroverso il linguaggio dovrebbe essere usato per mettere in rilievo l’importanza e la dignità dell’uomo. Due aspetti fondamentali del vivere umano, diluiti e forse perduti in forma autodistruttiva dentro il mondo virtuale delle piattaforme online e dei loro metaversi. Da ciò deriva uno snaturamento senza limiti, dominato dalla velocità e dalla smania di prestazione, che si manifesta anche nell’uso traviato del linguaggio che facciamo. Il linguaggio è diventato semplice strumento di chiacchiera narrativa, di interazioni veloci e superficiali, tra profili digitali, oggi anche con Bot, intelligenze artificiali come ChatGPT e Brad. Le parole usate online sono state confiscate da algoritmi che ne promuovono la proliferazione, con il solo intento di generare dati e informazioni utili a generare profitti in favore di società tecnologiche, che si vantano di avere costruito e fornito gli strumenti che permettono a tutti di esprimersi, comunicare e relazionarsi online.
Le parole usate online sono state confiscate da algoritmi che ne promuovono la proliferazione, con il solo intento di generare dati e informazioni
Tutti ormai fanno fatica a capire, udire e ascoltare, a comprendere ciò che ci si dice, a scoprire i segreti delle parole. La difficoltà è linguistica, sensoriale, anche emotiva e conoscitiva, impedisce ogni discernimento morale o intellettuale ma anche il semplice ragionamento. Il rumore elettronico è fisico e diffuso, anche cognitivo, fatto di parole manipolate, tanta propaganda, narrazioni marketing e promozionali, false verità, surplus cognitivo e informativo, assenza di silenzio ed eccesso di stimolazioni. Il nostro cervello pigro, portatore di pensieri lenti e veloci, deve confrontarsi con l’accelerazione continua, oggi assimilabile alla velocità assoluta di Paul Virilio, imposta dal mezzo tecnologico e dal modo con cui esso viene utilizzato. La velocità che era caratteristica culturale delle macchine così come la massificazione lo è stata per i mass-media, oggi è diventata velocità massificata. Lo smartphone è individuale ma ci spinge ad accelerare, a velocizzare pensieri e azioni, a parlare per abbreviazioni e semplificazioni.
La velocità che era caratteristica culturale delle macchine così come la massificazione lo è stata per i mass-media, oggi è diventata velocità massificata.
Parole e immagini
Il rumore che silenzia e toglie valore alle parole è anche quello delle immagini, dei simboli, degli emoji. Per molti le immagini sono diventate parole correnti, leggibili e comprensibili come lo sono le migliaia di parole contenute in un dizionario. Le immagini però non sono parole, le stanno sostituendo, il loro messaggio rischia di essere indeterminato e vago, ma sono abili nell’attirare l’attenzione di chi le guarda, ad alimentare la distrazione generale, disorientandoci tutti. Il contesto in cui le parole sono usate è sempre più digitale e disincarnato, ludico e gratificante, ben diverso da quello naturale e ostile che percepiamo in modo incarnato nelle tante crisi in atto nel mondo reale. Un contesto nel quale la parola andrebbe fatta risalire al suo significato latino di “tangere”, toccare, più propriamente toccare dall’interno, ma che si preferisce lasciare circolare come entità separata dal tatto, da non confondere con quello aptico con cui comunichiamo attraverso lo schermo di un dispositivo. Il mondo digitale è più di una realtà virtuale o simulata, si è fatto atmosfera, piattaforma e apparato. Al suo interno le parole lottano per emergere, sovrastate come sono da immagini performative e capaci di vitalità, oggetti iconici ed emoji che “ci guardano”, come ha ben raccontato Horst Bredekamp. Per farsi sentire bisogna urlare, il rumore di fondo ambientale è costante, come lo è il ronzio diurno e notturno sempre operativo dei numerosi dispositivi usati, diventati strumenti di iper-consumismo dell’Homo consumericus e delle sue felicità paradossali (Gilles Lipovetsky).
Per farsi sentire bisogna urlare, il rumore di fondo ambientale è costante, come lo è il ronzio diurno e notturno sempre operativo dei numerosi dispositivi usati
Questa realtà dominata dalle immagini è connotata dalla povertà del linguaggio e dal numero limitato di parole conosciute e usate, in genere quelle che si sentono in TV, nei canali in streaming e sulle piattaforme social. Siamo sempre connessi come Neuromanti, che non possono fare a meno della loro consolle-smartphone, ma sono incapaci di vivere nel mondo reale fatto di parole incarnate. Siamo sommersi da immagini fantasmatiche che ci avvolgono dentro un mondo fantasma, percepito come amichevole e abitato da amici, ma confezionato da altri, abilissimo nel modificare la nostra percezione, nel coinvolgerci con le sue interpretazioni e narrazioni, che rendono superflue e insignificanti le nostre. Questo mondo simulato e fantasma condiziona il nostro modo di guardare alla realtà e di (ap)percepire cosa stia succedendo, cambia il nostro linguaggio con cui la raccontiamo, le parole che usiamo per farlo.
Riflettere sul linguaggio è diventato urgente, non più procrastinabile
Riflettere sul linguaggio, sulle sue forme, sui suoi contenuti e le sue parole è diventato urgente, per capire noi stessi, gli altri a cui siamo sempre legati e dalle cui parole spesso dipendiamo, per traslocare la nostra dimora dall’onlife alla realtà tangibile ed esistenziale al suo esterno. La comprensione che ne deriverebbe potrebbe aiutare a riflettere sulla nostra condizione di internauti non ancora completamente robotizzati, alla ricerca costante di essere capiti e compresi, grazie alle interpretazioni che del nostro esprimersi, scrivere o parlare danno i nostri diretti o indiretti interlocutori. Cosa non semplice, esercizio reso complicato dal fatto che nel linguaggio si sperimenta sempre il limite che ogni parola impone, non solo semantico, di ascolto o interpretativo. Sempre dipendente da ciò che non si dice ma viene compreso come se fosse stato detto. Da questo limite nasce molta della disinformazione e misinformazione che caratterizzano la nostra società dell’informazione e il capitalismo delle piattaforme. E serve a poco la ricerca attenta delle parole giuste da usare. Il linguaggio si tradurrà sempre in enunciati differenti, sempre si presterà a non essere del tutto compreso, proprio come a non essere mai compreso è l’essere stesso.
L’essere che fa da riferimento è quello incarnato del Nostroverso, dotato di corpo, volto e sguardo, impegnato in scambi di parole, conversazioni, dialoghi e conflitti dialettici, nei quali lo sguardo con il suo linguaggio non verbale, l’udito in termini di ascolto e comprensione, ma anche l’olfatto, il meno considerato dei nostri sensi, giocano tutti un ruolo fondamentale. In questo contesto la parola è quella parlata, veicolata dalla voce e segnata dalla sua tonalità, dal suo volume e dalla sua punteggiatura, dal ritmo e dalle sue componenti non verbali (postura del corpo, movimenti, posizione, linguaggio del corpo) e paraverbali (pause, risate, sorrisi, silenzi, espressioni sonore, ecc.). È una parola sempre pronta a tradire e a essere tradita che può tendere le braccia ma in realtà agitare gli artigli, usando “la dolcezza del suono cerimonioso delle parole[1]” per ingannare l’udito, che spesso “non ha il coraggio di correggere, perché non ha il coraggio di sopportare di esser corretta[2]”.
Le parole, insieme alle loro forme, ai loro significati e stilemi hanno perso valore, subiscono torsioni continue,
Non si può non comunicare scriveva Paul Watzlawick ma il linguaggio è sempre una trappola pericolosa. Lo è ancor più in una realtà come quella attuale nella quale le parole, dai significati ambigui per definizione, sono inflazionate, saccheggiate, declinate a piacimento come si vuole, mai pe(n)sate a sufficienza, usate in modo ripetitivo e per abitudine, raramente in modo creativo e immaginifico. Le parole, insieme alle loro forme, ai loro significati e stilemi hanno perso valore, subiscono torsioni continue, limitate in numero e significati, regolate nel loro utilizzo, funzione e finalità, da meccanismi e algoritmi che sembrano non lasciare alcun spazio all’interpretazione, che fanno sembrare tutto come già svelato, determinato o determinabile ma ne delimitano anche i contorni, gli ambiti e le modalità di utilizzo. Sono parole scelte senza riflettere sul loro significato semantico preciso, adottate da altri piuttosto che apprese attraverso processi di educazione e di apprendimento, come quelli che accompagnano ogni bambino nel suo imparare a leggere e a parlare.
Il valore perduto delle parole
Il valore perduto delle parole è conseguenza di un’unanimità composta da moltitudini di persone ormai abituate a conversare in modo livellato, massificato e conformistico, politicamente corretto e intellettualmente afasico. Un conversare afono, imprigionato dentro la lingua e le parole usate, poco interessato a intendere e a farsi intendere. Incapace di gettare ponti, di favorire la comprensione reciproca perché fondato sulla ricerca del semplice convenire e sulla impreparazione, forse il rifiuto, a riconoscere di avere torto. Ne è stata una dimostrazione plastica tutta la conversazione online sui temi dei Novax, durante la pandemia/infodemia non ancora superata, così come il confronto mediale sui temi cari al movimento. L’assenza di forme dialogiche di confronto ha creato fraintendimenti, irrigidimenti delle posizioni, incomprensioni che hanno portato allo scontro, verbale prima ancora che politico, impedendo una vera comprensione delle ragioni espresse dai vari fronti del contendere[3]. “Un comprendere altrimenti, a partire dalle alterità dell’individuo”, di ogni singolo individuo che non vuole essere interpretato ma capito, accettato nella sua diversità di opinioni e differenza. Un comprendere attraverso cui passa la comprensione del proprio Sé, passaggio obbligatorio per la ricerca, nella differenza e nella difficoltà del comprendersi reciprocamente, di punti comuni su cui orientare dialogo, azioni e orizzonti da esplorare.
L’assenza di forme e di pratiche dialogiche di confronto ha creato fraintendimenti, irrigidimenti delle posizioni, incomprensioni
La comprensione non deve solo essere rivolta al singolo ma anche alle moltitudini intese come molteplicità di singolarità. Il riferimento alle moltitudini non è casuale. Nella società massificata consumistica attuale, dominata dal potere delle merci e dei prodotti, dalla pervasività della pubblicità, dal ruolo dei media e dalla consegna diffusa di prodotti a domicilio, le cosiddette masse, che per Elias Canetti erano sinonimo di potere, non sono altro che la sommatoria di singoli individui, semplici moltitudini che, senza alcuna concentrazione, il potere lo hanno perso, anche se, nell’agire quasi sincronizzato dei cinguettii e dei MiPiace che le caratterizzano, pensano di continuare ad averlo[4]. Le moltitudini tecnologiche attuali hanno invalidato le aspettative e le interpretazioni ottimistiche di Antonio Negri e Michael Hardt che nel loro libro Moltitudine del 2004 celebravano la moltitudine come spazio comune per la comunicazione, la cooperazione e la collaborazione. Le moltitudini molteplici e multicolore che hanno sostituito le masse, grazie alla Rete e alle sue tecnologie non si sono trasformate in realtà solidali, cooperative o collaborative, fanno fatica a generare nuove forme di soggettività, hanno anche perso la capacità di parola, di farsi sentire, di cambiare lo storytelling e di dare senso al mondo con parole nuove, portatrici di nuovi valori.
Comprendere le parole
Su tutto domina oggi incontrastata la difficoltà, anche politica, di comprensione, l’illusorietà dei concetti veicolati dalle parole con cui descriviamo i contesti che abitiamo e l’incapacità a rivelare l’infinita ricchezza di senso, di cui ogni singolo individuo è portatore. La comprensione che passa dal linguaggio e dalle parole deve fare i conti con la realtà del parlare e del dialogare corrente. Da qui si deve partire per riflettere sul ruolo che le parole hanno assunto negli sforzi che facciamo per interpretare la realtà dei mondi che frequentiamo. La costante riduzione del numero di parole usate, la loro insistente manipolazione, racconta l’indebolimento culturale e intellettuale attuale, ma anche la crisi della nostra democrazia e la sparizione di una “solidarietà etica e sociale”. Se persino i politici ricorrono sempre più a semplici cinguettii, emoji, se parlano per slogan o dichiarazioni preconfezionate, preparate dai loro uffici stampa o da Bestie social al comando della loro comunicazione, per stare dentro i 30 secondi televisivi assegnati a ogni dichiarazione televisiva, significa che il discorso politico si è inaridito, semplificato, separato dalla realtà, fattosi violento e canagliesco, è diventato addirittura inesistente. Come tale è diventato incapace di favorire quella circolazione di idee e di opinioni che sempre è alla base di ogni vera democrazia.
La comprensione che passa dal linguaggio e dalle parole deve fare i conti con la realtà del parlare e del dialogare corrente.
Assistiamo da tempo, anche prima della rivoluzione tecnologica, al tramonto della cultura alfabetica, a una crescente afasia, a un impoverimento della lingua e della sua ricchezza semantica, a una “epidemia pestilenziale” che ha cambiato le relazioni umane alterando l’uso della parola. Ben prima dell’arrivo delle piattaforme digitali, ben prima della diffusione di uno strumento di documentazione di massa (nell’accezione del filosofo Maurizio Ferraris) come lo smartphone, ben prima della proliferazione di false notizie e verità alternative. L’epidemia pestilenziale è un concetto usato da Italo Calvino nelle sue Lezioni Americane (1985/1986), pubblicate postume nel 1988, per descrivere il diffondersi di una peste del linguaggio in grado di svuotare di densità e forza conoscitiva ogni parola:
“Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva […] che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime […], a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze”.
Un testo, quello di Calvino, che andrebbe oggi letto e riletto attentamente, evitando la lettura superficiale tipica del navigare e dello scorrere veloce dentro il surplus informativo che ci accompagna in ogni momento della nostra vita quotidiana. Il testo andrebbe proposto ai nativi digitali, dovrebbe entrare tra le letture che gli insegnanti potrebbero usare nelle loro attività educative, finalizzandole non solo a istruire e informare ma a formare una testa “ben fatta”, capace di pensare autonomamente e criticamente. Ormai abituati a letture veloci di testi provenienti da fonti informative ritenute familiari e quindi preferibili per abitudine e pigrizia, ci priviamo della capacità della cosiddetta “lettura profonda” (Maryanne Wolf, sostenitrice del cervello che deve imparare a leggere), la sola che potrebbe permetterci di apprezzare i significati di un testo, di andare alla radice delle parole che lo compongono, di aprirsi a nuove prospettive di lettura cercando di cogliere le emozioni dell’autore o dell’autrice e, così facendo, anche le proprie.
L'epidemia pestilenziale e cultura alfabetica
Siamo testimoni e complici di una “epidemia pestilenziale” che sta portando al tramonto della cultura alfabetica, a una crescente afasia, a un impoverimento della lingua e della sua ricchezza semantica
L’epidemia citata da Calvino assomiglia a una profezia che si è auto-avverata, per effetto della diffusione di tecnologie digitali che hanno cambiato il nostro modo di leggere e le scelte di ciò che leggiamo, il nostro modo di pensare, di informarci e di relazionarci agli altri. Una conseguenza di questo cambiamento in atto è un linguaggio appiattito, una difficoltà crescente di comprensione, parole sempre più usate in modo approssimativo, casuale, distratto e sbadato. Con queste parole dobbiamo tutti confrontarci, dentro le tante realtà virtuali che abitiamo, realtà strettamente interconnesse a quelle fattuali e incarnate che popolano la nostra vita sociale e politica, le nostre attività individuali e collettive offline. Le parole, che hanno colonizzato la cosiddetta molto decantata onlife, condizionano i nostri atti linguistici, insieme a loro determinano effetti concreti nella vita di ogni giorno di ogni individuo. Per esempio, i significati prevalenti, oggi assegnati a parole come “migranti” (da molti associati a clandestini), “confini”, “frontiere”, “popolo”, “sovranità”, ecc. determinano nei fatti variabili ed effetti concreti di inclusione e/o esclusione, di felicità e infelicità, di opportunità e di negazione del futuro.
L’epidemia da Covid-19 ha evidenziato la verità della metafora di Nassim Taleb, autore del Cigno Nero, che racconta di esseri umani assimilabili a tacchini che passano la giornata a ingrassare dentro la loro gabbia, illudendosi che la loro vita futura sarà garantita e scorrerà tranquilla, ignari che il Thaksgiving è in arrivo. Il coronavirus ha fatto dimenticare altre pestilenze in formazione, che non hanno ancora trovato alcuna forma di vaccino ma che continuano a essere percepite come non mortali perché i loro effetti sono sconosciuti o diluiti nel tempo. Il loro lento progredire conferma ciò che pensava Gramsci quando definiva la crisi come un interregno nel quale il vecchio muore e il nuovo non può ancora nascere. I fenomeni morbosi che in questo interregno si manifestano, nell’era corrente, si palesano anche nell’uso del linguaggio e in quello truffaldino delle parole. È così che parole, come quelle citate sopra ma anche quelle ricorrenti durante tutta la pandemia di due lunghissimi anni contagiosi, hanno finito per impoverirsi di significato, assumere significati diversi da quelli che l’etimologia, la semantica e la loro storia avevano a esse assegnato.
Il valore perduto delle parole ha finito per generare incertezza e aumentare la criticità delle situazioni vissute, per impedire chiarezza, esattezza e precisione nella comunicazione mediale,
Il valore perduto delle parole ha finito per generare incertezza e aumentare la criticità delle situazioni vissute, per impedire chiarezza, esattezza e precisione nella comunicazione mediale, infine per alimentare false credenze e opinioni che oggi si sono consolidate in orientamenti culturali ed atteggiamenti politici. Molte parole oggi usate provocano in molti un grande fastidio, perché espressione di crescente intolleranza e di pulsioni negative. Suggeriscono a tutti l’urgenza di rispolverare i loro significati profondi, per riaffermare la loro forza originaria e immediatezza, di sfruttare ogni momento, anche dialettico, di incontro in modo da favorire nuove interpretazioni e nuovi significati. Per usare una terminologia che ha dato il titolo al mio ultimo libro Oltrepassare[5]: intrecci di parole tra etica e tecnologia, le parole con cui oggi abitiamo i numerosi universi (piattaforme. metaversi e non solo) paralleli oggi disponibili devono essere oltrepassate, insieme ai mondi e le cornici (brainframes) che rappresentano, oggi digitali e tecnologici. Oltrepassare è sia un esercizio difensivo sia di senso, un modo di resistere a piattaforme e realtà simulate che agiscono da enti di intermediazione in tutte le nostre attività e azioni edificando intorno a noi un mondo a cui siamo ormai obbligati a partecipare.
Le parole non sono di per sé povere di significati, subiscono una variabilità semantica che rendono instabile la relazione tra significante e i suoi molteplici esiti semantici, che sempre si manifestano in ogni dialogo tra persone che parlano di uno stesso argomento. Le parole sono per loro natura polisemiche, mai assimilabili a singoli concetti, spesso generate per semplice analogia, sempre espressione di una pluralità di accezioni, in particolare quelle più usate. Nessuna parola è un monolite eterno, tutte hanno una loro storia, una loro forza, non solo etimologica. Sembrano il risultato di una caccia al tesoro nascosto in cui tutti sono coinvolti, tante creature viventi sempre in movimento, capaci di portarci al bene così come al male, all’ingiuria e all’accusa, alla verità così come al suo contrario, alla gentilezza così come alla cattiveria e alla malvagità. Le parole hanno un ruolo diverso nella nostra vita intellettuale, nel loro essere semplicemente pronunciate, lette o scritte, sono entità vive, vivificanti, mutevoli ed eterne al tempo stesso. Cambia il loro significato[6], non il ruolo che hanno nel raccontare i cambiamenti e le regressioni, le innovazioni e le novità, la società e il mondo, l’individuo e la collettività. I racconti e le narrazioni sono condizionati dal fatto che le parole non sono gli oggetti a cui danno un nome, non sono i fatti che le parole, per come sono usate, spesso deformano e spettacolarizzano, manipolandoli, interpretandoli ed a volte, annullandoli. Tutto ciò è testimoniato dall’uso che delle parole viene fatto in tutti i talk show e gli spettacoli di intrattenimento informativo che hanno occupato da anni tutti i media televisivi contribuendo a una martellante manipolazione semantica delle parole ma soprattutto della realtà.
Le parole hanno un ruolo diverso nella nostra vita intellettuale, nel loro essere semplicemente pronunciate, lette o scritte, sono entità vive, vivificanti, mutevoli ed eterne al tempo stesso.
Le parole possono essere usate per dire la nuda verità anche se nella realtà attuale è diventato difficilissimo, quasi impossibile farlo. Non tanto perché il Web e le piattaforme social siano diventate una cascata di parole che pretendono di dire la verità mentendo, ma perché viviamo tempi nei quali le parole sono usate, da chi ha il potere o è un personaggio pubblico, in modi non propriamente veritieri. Lo ha spiegato molto bene Enrico Capodaglio nel suo Palinsesto che in un capitolo sulla nuda verità parla di parole oggi usate:
“per mentire, per truffare, per complimentare con iperboli senza senso, per nascondere le intenzioni, per esprimere il contrario di quello che si pensa, per divertire, per giocare, per far ridere, per orientare le idee, per suscitare sentimenti per sconosciuti che fingono di soffrire, per creare adoratori di semidei presunti, per eccitare l’entusiasmo, per suscitare applausi, per illudere, per fare false promesse, per attirare in una trappola, per simulare buoni sentimenti, per farsi compiangere, per rendersi simpatici, per ricattare, per congiurare, per mercanteggiare, per fare sesso, per umiliare, per escludere, per crearsi clienti, per godere la propria vitalità”.
Oggi le parole riempiono gli spazi del Web ma non perdono la loro forza e bellezza, neppure dentro uno storytelling effimero, dalle trame e dalle sceneggiature prevedibili e omologate, contrassegnato da molto rumore di fondo (non solo il ronzio elettronico degli schermi e delle notifiche di WhatsApp) e tanta superficialità. A essere protagonisti di questo storytelling siamo tutti noi, come se vivere fosse parlare, lasciando liberamente fluire dalla propria mente pensieri e parole. Come se, tanto per parlare di parole, vivere fosse sinonimo di essere o di esistere. Tutti parlano e tutti vivono, bisogna poi però saper parlare, usare con cura le parole, saper esistere.
Parafrasando Vito Mancuso, si vive stando dentro la catena alimentare della vita, si esiste (e-sistere) perché si è capaci di venir fuori (ex-sistere), di collocarsi fuori il nostro involucro esistenziale per migliorarci, per comportarci da umani e diventare umani pienamente. Imparare a parlare bene, saper scegliere le parole necessarie, le migliori che servono, prestare attenzione e cura ai loro significati e all’effetto che esse possono avere sulle persone a cui sono rivolte, siano esse scritte o parlate, tutto questo è un modo di esistere, di essere. Non basta pensarlo in astratto, concettualmente, ma bisogna praticarlo abitando il Nostroverso così come altri mondi digitali, confrontandosi senza paura con il linguaggio abbrutito contemporaneo, contrastarlo con pratiche esistenziali concrete e/o filosofiche. Fortunatamente, anche nella realtà attuale ci sono narrazioni che alle parole danno la dovuta importanza, non contengono parole al vento essendo usate con cura, amore e attenzione, per farsi ascoltare, per produrre conoscenza, promuovere comportamenti virtuosi e morali, capaci di comunicare, incidere nella realtà, aiutare gli altri.
Imparare a parlare bene, saper scegliere le parole necessarie, le migliori che servono, prestare attenzione e cura ai loro significati e all’effetto che esse possono avere sulle persone, tutto questo è un modo di esistere, di essere.
Le parole sono oggi diventate strumento resiliente di resistenza contro i metaversi in formazione, contro l’appiattimento conformistico in atto, usate allo scopo di custodire ciò che esse rappresentano. Le parole servono per tenere viva la memoria e l’immaginazione, per porre domande frequenti e impertinenti, per raccontare la realtà, pur in maniera semplice e sempre come percepita, per quello che è, sorvegliandola e custodendola, facendola risuonare in modo nuovo, alternativo, diverso, proiettandola in scenari futuri che ancora non esistono ma che si può contribuire a costruire, anche con le parole, rendendoli reali, incarnate. Le parole sono eticamente importanti perché l’etica obbliga a definire bene le parole, a essere precisi nei significati a cui associarle, a andare oltre il linguaggio e il suo utilizzo nella comunicazione quotidiana, prendendo coscienza della sua componente pragmatica, in termini di responsabilità, di effetti e conseguenze scatenate.
L’approccio etico è tanto più importante in un’epoca di crisi sistemiche e profonde come quella attuale. Testimoni di populismi vari e delle loro narrazioni che brutalizzano realtà e futuro, maltrattano, seviziano e violentano le parole, usandole come semplici contenitori da riempire a proprio piacimento, costruendo asserzioni vuote di significati e non vere, discorsi senza senso, bisogna convincersi che le parole sono importanti, meritano tutta la nostra cura, la nostra attenzione e considerazione. L’una e le altre a fondamento di un impegno, quasi un obbligo etico civile, alla verità e alla correttezza nei confronti delle persone a cui ci si rivolge parlando.
La veridicità delle parole, il loro uso per raccontare con esattezza eventi e situazioni è fondamentale per decifrare la realtà. La brutalizzazione della lingua al contrario non fa che anticipare altre forme di potenziali bestialità future, che le parole abusate dalle tante Bestie[7] in circolazione preparano (cosa sarebbe successo se al tempo della vaccinazione contro la polio ci fossero stati i social network?), in forma di avvelenamento cianurico lento ma inesorabile, fatto di tante piccole gocce venefiche, che sui tempi lunghi possono diventare mortali. La pericolosità delle parole avvelenate sta nell’effetto di una mitridatizzazione al contrario. La pratica, suggeritagli dal suo medico, permise a Mitridate, re del Ponto dal quale è derivato il termine mitridatismo per riferirsi alla immunizzazione nei confronti di sostanze tossiche, di salvarsi la vita. Vita alla quale Mitridate poi pose fine, aiutato da altri, attraverso la spada. Una sorte che potrebbe toccare a chi, come alcuni personaggi politici, delle parole hanno fatto e fanno strazio continuo. Oggi la mitriditizzazione opera come una sorta di atrofizzazione della coscienza, la sua incarcerazione e manipolazione, la sua sottomissione a chi il veleno a piccole dosi le propina.
L’avvelenamento è lento, inesorabile e continuo, basti pensare alle innumerevoli pubblicità che fanno spudoratamente e ingannevolmente green washing. Non è causato da un medico curante ma da entità altre che agiscono con finalità non necessariamente finalizzate alla salute del paziente. L’esposizione prolungata a parole tossiche genera insensibilità nei confronti di avvelenamenti futuri, ma anche effetti collaterali che si manifestano in forma di impassibilità, di indifferenza e di cinismo, di freddezza e di imperturbabilità. Tante reazioni tra loro assimilabili che portano all’asservimento consensuale, perché dettato dalla dipendenza. Proprio per questo è diventato necessario e urgente tenere sempre presente che le parole, parlate e scritte, condizionano il modo stesso con cui noi vediamo la realtà e da essa sono condizionate. Ne sono esempi eclatanti le parole usate, dai politici e dai media, per raccontare il fenomeno delle (im)migrazioni in atto. Tutti abbiamo sentito parlare di invasione, occupazione, sostituzione etnica. Tutte parole che richiamano concetti, significati e semantiche ben precise ma lontane dai fenomeni che con esse vengono descritti. Sempre che non ci si voglia fermare alla superficie bisogna interrogarsi sulla storia di ogni parola per poi contestualizzarla nella realtà e nelle pratiche linguistiche del momento.
Non fermarsi alla superficie significa diffidare di parole logore e stereotipate, di frasi fatte e banali, che recingono e definiscono, nel loro essere asservite a una ideologia o a una visione del mondo imposta da una narrazione asfissiante, nel suo essere conformista e omologata ai memi predominanti del momento. Andare oltre la superficie porta a comprendere fino in fondo il ruolo che le parole possono avere nella vita di ognuno di noi, non solo relazionale ma anche personale. Le parole sono senza confini, non nascono per caso anche se spesso a caso sono usate, come quelle adoperate dalle legioni di imbecilli a cui Umberto Eco ha regalato il suo ultimo strale mediatico prima della sua morte ("todos los que habitan el planeta, incluyendo los locos y los idiotas, tienen derecho a la palabra pública..." – intervista a El Mundo). Imbecilli che richiamano gli zii ‘cretinosi’ riferiti a Lombroso di Leonardo Sciascia definiti come “quelli che partecipano della cretineria mostrando di far uso degli strumenti dell’intelligenza[8]”.
Le parole sono originate da concetti che nella nostra mente sono stati portati all’esistenza da “una lunga associazione di analogie create a livello inconscio nel corso di molti anni […] e che poi questi concetti alimentano per tutto il resto della vita[9] ”. Proprio perché le parole nascono dai concetti, la ricchezza a esse associate è illimitata e incommensurabile. È anche indefinita, non assimilabile a quella limitata che pur traspare, per ogni parola, dai dizionari che le parole analizzano e contengono. Una ricchezza raramente sfruttata nell’uso quotidiano che le persone fanno delle parole, i cui significati solo eccezionalmente vengono messi in discussione. Oggi ancor più di ieri, considerando come e quanto le parole online viaggino ormai in forma di semplici memi. Parole-memi dalla forte capacità e versatilità espressiva, se veicolate da immagini (spesso immagini più testo), ma la cui genericità elevata ne penalizza contenuti semantici e significati, suggerendo interpretazioni univoche del messaggio di cui il meme è portatore.
Ma le parole non hanno interpretazioni univoche, non quelle sofisticate ma neppure quelle ordinarie con cui diamo esistenza a oggetti, eventi, situazioni e azioni irrilevanti. Bisogna sempre misurarsi con le nostre interazioni con una realtà complessa e sempre complicata, molteplice e caotica, spesso abitata da altri come noi, mai uguali a noi e sempre diversi. Diversi anche dai tutti uguali che abitano gli universi paralleli digitali e ben descritti dal filosofo Byung-Chul Han. Non viviamo mai esperienze uniche, siamo sempre immersi in situazioni che si sovrappongono e si influenzano tra di loro, mescolandosi: intrecci di parole conducono a intrecci di esistenza, nodi di commistione etica, linguistica e tecnologica. Le nostre parole nascono da questo caos, dalle mille sollecitazioni da esso ricevute che innescano meccanismi nei quali proviamo a dare un senso, anche con le parole, alle situazioni che viviamo, alle emozioni che le accompagnano, ai pensieri che si formano e alle azioni che ne derivano.
Dentro situazioni tra loro simili ed esperienze nelle quali siamo costantemente impegnati a dare senso alle cose e alle parole, il dialogo tra persone, per seguire il pensiero di Lévinas, nasce in primo luogo dentro un Nostroverso incarnato, emerge dalla presenza intesa come incontro con un volto umano, che richiama ogni individuo nella sua identità e singolarità ad alzare lo sguardo dal proprio ombelico, ad aprirsi all'alterità. Ha origine dalla voce umana, poi dalla comunicazione dei messaggi attraverso le parole parlate, in presenza di un volto. Il volto che nel pensiero di Lévinas agisce come apertura alla dimensione ulteriore del reale, formato da parole di “carne” per altra “carne”, che prendono forma tra delicatezza e forza e dentro dimensioni nelle quali il nostro Sé si lascia incontrare (riempire) e (ri)conoscere.
Nel Nostroverso le parole assumono un significato particolare come strumenti di comunicazione e relazione con l’Altro, di libertà, e (com)partecipazione. L’una e l’altra espressione della possibilità positiva di contrastare la violenza prevaricatrice, che tanto caratterizza oggi il dialogo privato e pubblico, assumendo una responsabilità etica (essere responsabili di, essere custodi di) nei confronti dell’Altro ma anche di sé stessi (“Quando pensi a te, Pensa anche un po' per me”). Assumersi questa responsabilità facilita l’ascolto, la comprensione, l’accoglienza del diverso da noi (all’origine come scriveva Hegel della nostra stessa autocoscienza[10]), anche nel linguaggio e nelle parole usate, crea il contesto ideale per la condivisione.
Non quella con cui siamo ormai abituati a descrivere semplici funzionalità algoritmiche online, ma quella che nasce dalla prossimità, dalla prossemica, dal (con)tatto e dalla presenza. Una condivisione che prima ancora delle parole fa uso della reciprocità dei movimenti dell’afferrare e del lasciare andare tipici della mano, dell’abbraccio dello sguardo e delle braccia, di carezze, di conversazioni, di contrasti e confronti, di collaborazioni e commerci.[11] Una condivisione che poi trova anche nelle parole una sua espressione fatta di senso, significati, analogie, (dis)ordine dentro il caos della vita quotidiana.
Le parole sono importanti anche nella pratica del dialogo, inteso come strumento di conoscenza, non solo delle tematiche trattate ma anche degli interlocutori coinvolti. Meno come strumento usato per prevaricare o provare la propria abilità dialettica per ergersi a vincitori su altri considerati vinti. Pratica questa oggi facilmente riscontrabile abitando le piattaforme di social networking online e che evidenzia la difficoltà al dialogo socratico ma anche Zen, fatto di domande con l’intento di mettere alla prova le idee dell’altro, confutandole, dialettizzandole, non per avere la meglio ma per conoscere, approfondire, apprendere. Anche imparando a usare meglio e con precisione le giuste parole. Sempre con un approccio umanistico, umano.
Non tutte le parole, che emergono nella mente o vengono evocate inconsciamente, sono parole dotate di senso e capaci di portare ordine nel caos. A causa della tecno-lingua, sempre più assimilabile alla Neolingua di Orwell, da molti oggi introiettata come unica lingua possibile, le parole sono diventate semplici etichette, sequenze lineari di simboli astratti, di lettere e di caratteri stampati o di suoni, che danno forma a una “lingua di plastica”[12]. Sono parole incapaci di tradurre la ricchezza pluridimensionale dei concetti, parole che comunque danno a chi le usa l’impressione di identificarsi perfettamente con quello che voleva dire. Ma ciò che si voleva dire poteva essere detto con parole diverse, parole migliori, parole che, per dirla con Ivano Dionigi[13], allungano la vita, quella mortale reale che si vive dentro il Nostroverso.
Tutt’altra cosa dall’effetto prodotto dalle innumerevoli parole violente, violate, sconciate, umiliate, usate a sproposito, ecologicamente inquinanti, sporche e pericolose che abitano la cosiddetta infosfera e alimentano le molteplici forme di populismi digitali da social. Da tempo si assiste “al tramonto di parole uniche, inalterabili e immodificabili, che non riusciamo più a pronunciare come abbiamo fatto per secoli” e al depauperamento di significato di parole importanti come amicizia, comunità, socialità, condivisione, interazione, relazione e molte altre che io associo all’agire umanista o umano. Tante parole tra loro simili per ricchezza di significato, orizzonti di senso, ruolo e importanza. Il depauperamento semantico, che le interessa da tempo, evidenzia come la parola senza pensiero sia un suono vuoto, una parola morta, e che va di pari passo con quella che il cardinale Gianfranco Ravasi ha chiamato “anoressia del pensiero contemporaneo che produce una ipertrofia della chiacchiera che è la parola degenerata”.
Nell’era connessa e globalizzata che ci è dato testimoniare e sperimentare, i mezzi di comunicazione sono così potenti e diffusi da rendere a tutti possibile accedere a una quantità di informazioni come mai era successo nella historia passata e recente. Al surplus informativo a cui si è esposti tuttavia non è associato un aumento della comprensione (compehendere - accogliere nella mente, nell’intelletto, afferrare il senso di qualche cosa, stabilire una relazione tra più idee o fatti) e della conoscenza. Non afferrando il senso di ciò in cui siamo immersi («Salve ragazzi! Com’è l’acqua oggi?») finiamo per credere che il senso da dare alle cose sia quello assegnato a esse in modo computazionale dalle intelligenze artificiali, che governano gli algoritmi delle piattaforme da molti frequentate, che ne determinano l’uso comune che ne viene fatto. Una assegnazione impossibile al di fuori di entità di senso (Homo sentiens) come noi siamo, entità composte da corporeità ed emozioni, desideri e affettività, storie personali e relazioni con gli altri, non esportabili su semplici macchine capaci solo di funzionare ma non di esistere, di esserci e di sentire. Macchine che per di più non possiedono la complessità neuronale del nostro cervello e non sono facilmente scomponibili in semplici meccanismi o elementi spacchettabili come se fossero componenti elettronici di un qualsiasi dispositivo tecnologico.
La realtà ci sfugge da ogni parte, pensiamo di sapere di più ma in realtà capiamo sempre meno, abbiamo infinite informazioni ma scarse sempre più conoscenze. Uno strumento come Internet, così ricco di possibilità e opportunità, sta producendo un nichilismo culturale pernicioso, che apre le porte alle false notizie, alle narrazioni inventate e alla facile, ingenua e colpevole creduloneria. La manipolazione mediale e politica è accompagnata dalla manomissione costante e pervasiva delle parole, che genera disinformazione crescente e misinformazione. Usate in modo improprio le parole diventano strumenti potenti per edulcorare la realtà, per manipolarla e nasconderla o per ricoprirla di una spessa polvere che rende impossibile riconoscerne la sua artificialità e provenienza. Tutto ciò ha effetti concreti sulla lingua che parliamo e sull’uso che ne facciamo, soprattutto sulla vita concreta delle persone. Si parla sempre più come si mangia (nessun riferimento a Ludwig Feuerbach) con ricadute sia lessicali sia sintattiche ma ancor più semantiche che si manifestano in “costrutti semplificati, frasi nucleari, paratassi spinta nei testi più meditati oppure di periodare ipertrofico e inconcluso, disordinato e sempre riformulato in quelli improvvisati[14]”. L’impoverimento crescente del linguaggio usato, si manifesta in termini lessicali (povertà di parole usate, vocaboli utilizzati in modo improprio, distorto o inappropriato), morfologici (struttura grammaticale della frase e delle parole) e semantico (si dice una cosa volendo dirne un’altra), ma anche sintattici (struttura della frase, concatenazione e funzione delle varie parti del discorso) e ortografici (sparizione della punteggiatura, delle maiuscole, accenti, ecc.), oltre alla crescente sgrammaticatura e diffusa difficoltà nell’uso di quelle sottigliezze linguistiche che permettono di elaborare e formulare un pensiero complesso. A tutto questo va aggiunta la crescente difficoltà alla lettura e l’aumento dell'analfabetismo funzionale che in Italia (dati del 2020, fonte OCSE) è attestato al 47%.
Il depauperamento del linguaggio ha molte origini ma nasce dalla cattiva salute di cui godono le parole, ormai ridotte a semplici comparse dentro un chiacchiericcio, in forma di cicaleccio incontenibile e felicitante, generalizzato e superficiale, che impedisce il rigore e il collegamento con la realtà vissuta, sia essa virtuale e online o fattuale e offline. Senza parole come si fa a elaborare e articolare pensiero complesso, capace di raccontare la diversità, la pluralità e l'eterogeneità del mondo, della realtà e delle nostre esistenze? Assistiamo tutti a un decadimento della capacità di parlare, all’uso del linguaggio come mero strumento di comunicazione. Ma quanti ne sono responsabilmente consapevoli? Si assiste anche a un decadimento delle idee e alla sparizione di quella battaglia delle idee che secondo Karl Popper costituisce la sostanza della civiltà occidentale. La sparizione è determinata dalle troppe persone in giro che semplicemente parlano, chiacchierano, esprimono opinioni su tutto scambiate per idee generate dalla loro mente, fanno ma non agiscono, non esercitano scelte, condividono quelle degli altri. Senza idee vengono meno le azioni, si cementifica l’immaginazione che dovrebbe al contrario fluire come lava dei vulcani islandesi o della Kamchatka.
Tutti hanno imparato a comunicare e ad argomentare attraverso i mille meccanismi e le molteplici funzionalità dello strumento tecnologico, ma il linguaggio, ormai fatto di parole elettroniche, ha perso la sua capacità di appropriarsi delle cose del mondo, di trasformare la realtà. Che poi sarebbe un modo per appropriarsi di sé stessi, anche attraverso lo scambio e l’interazione fisica con l’Altro. Di questa realtà si parla senza interruzione, ma spesso senza un’adeguata conoscenza e proprietà, senza saper ascoltare, neppure sé stessi. Si parla tanto, si comunica molto, si chiacchiera sempre e in continuazione, ma senza veramente parlare, conversare, dialogare. Senza saper cogliere le possibilità di sviluppo che le parole offrono per incidere nella vita di tutti i giorni, nella realtà di esseri viventi con il loro bisogno esistenziale di relazioni sociali incarnate, ben al di là di ciò che semplicemente si pensa o si dice.
L’incapacità non è riferita solo alle parole che trovano espressione nella voce, oggi non si coglie neppure l’importanza dell’assenza di parole, del silenzio che questa assenza accompagna. Non si coglie perché online il silenzio non può esistere. Non si comprende che senza silenzio, sempre immersi nel brusio sfrigolante di schermi surriscaldati, si perdono i suoni del mondo, del Nostroverso, i rumori da noi prodotti e quelli causati dalle vite degli altri. Dove manca il rumore, dove la parola è assente, subentra l’ascolto. In assenza di silenzio non si riesce a prestare attenzione alle vibrazioni che ogni rumore o suono, anche della voce o di una parola, può generare e alle reazioni emozionali che suscitano in noi. Senza silenzio è impossibile persino sapere che cosa esso sia, conoscerne la voce e la presenza, sperimentarne le capacità nascoste, paragonabili a quelle dei caricatori elettrici oggi usati per mantenere sempre in carica i nostri smartphone.
La comunicazione digitale obbliga all’interazione perenne, sempre veloce e quasi mai ragionata, a volte neppure guidata dal pensiero. Il silenzio che ci serve è quello vivo della comunicazione non verbale, del corpo, dello sguardo parlante ed espressivo, delle mani sulla spalla o che si stringono, dello stare in compagnia con l’Altro, che non obbliga a ricorrere alle parole per comunicare, comprendere e capirsi. Il tempo è sempre più coniugato al presente, sembra scomparso l’uso del congiuntivo, del condizionale e dell’imperfetto, delle forme composte del futuro e del participio passato. È come se, anche linguisticamente, ci si fosse dimenticati del passato, di ciò che ci lega all’antico e si fosse al tempo stesso diventati incapaci di proiettarsi nel futuro (“[…] viviamo in un’epoca che afferma l’ideologia del presente, dove il passato diventa spettacolo, mentre nessuno parla più del futuro […][15]”). In carenza di parole, strumenti generativi e potenti in grado di aprire ogni tipo di porta, scompare il pensiero, senza pensieri non esiste pensiero critico (“Il pensiero contiene la possibilità della situazione che esso pensa. Ciò che è pensabile è anche possibile.”[16]). Senza pensiero critico non c’è libertà, anche interiore, forse neppure democrazia.
Il mondo è pieno di parole, non solo quelle che troviamo nei libri che leggiamo, ma anche le parole che abitano tutta la nostra vita e le nostre relazioni, parole che spesso stanno al confine della lingua ufficiale o delle altre lingue che utilizziamo. Riflettere sulle parole e sui mondi che rappresentano, comunicano e raccontano, sulla loro distorsione semantica e degenerazione, sulla loro sparizione (parole italiane sostituite da anglicismi[17] come follower, influencer, smartworking, transformation, blastare, da to blast, ecc., il volto che esprime lo stato d’animo sostituito dalle facce di Facebook, semplici interfacce digitali in forma di profilo), è un modo per difendere la libertà di pensiero dentro un Nostroverso che è plurale, meticciato e multilinguistico per definizione. Riflettere sulle parole è una maniera per sostenere l’elaborazione di pensiero critico e complesso, fatto di capacità di selezionare, dubitare e scegliere, per ridare senso, significato e dignità valoriale a parole che negli anni si sono trasformate in cadaveri, in contenitori vuoti o di parte.
Libertà è una di queste parole cadaveriche, diventata tale per i significati a essa associati in questo periodo pandemico di infodemia, di No-Vax e No-Green Pass. Quando una parola così ricca di significati finisce per essere semanticamente (ab)usata per sostenere opinioni contrapposte, nobilitanti così come ripugnanti, significa che quella parola è moribonda, non significa più nulla. In una condizione simile anche la libertà dell’internauta è sempre più costretta e limitata, quindi contraddittoria e negata. Ridotta in modo utilitaristico alla libertà di (iper)consumare, è declinata in modo manipolatorio nella trasparenza di ambienti digitali nei quali l’unica vera trasparenza è quella dell’utente che produce dati e informazioni commercialmente utilizzabili e usate da altri per trasformarlo in semplice merce e consumatore. Nel suo essere prigioniero del suo cellulare, termine che non a caso richiama etimologicamente e semanticamente il cellulare che si usa per la custodia di detenuti in trasferimento dal carcere al tribunale[18]. Una prigione forse destinata a migliorare nelle sue forme architettoniche grazie al Metaverso di Meta ma che non muterà le sorti di coloro che vi saranno imprigionati. Con esiti potenzialmente distopici che si intravedono già nell’uso che della parola Metaverso fatto da Zuckerberg nell’annunciare la sua nuova creatura. Non è un caso che i molti impegnati da anni nella realizzazione di tecnologie di Metaverso Open abbiano chiesto interventi statali perché: “The problem isn’t just that Mark Zuckerberg is unfit to be the unelected, perpetual lifestyle czar of 3 billion people — it’s that no one should have that job.[19]”
Ridare senso alle parole, riflettere sui loro significati polisemici e ricchezza è un modo per ridiventare padroni della propria lingua, per superare la loro attuale inadeguatezza nel raccontare la realtà, ma anche per inventarne di nuove (insieme a nuovi concetti, nuove categorie e classificazioni, meglio innovative “costellazioni e correlazioni di concetti[20]” lontani da ogni riduzionismo) perché i tempi che viviamo sono pieni di rivolgimenti, sono formidabili e imprevedibili, pieni di crisi in formazione, eccezionali e incredibili al tempo stesso, soprattutto inconsueti, incomprensibili e alieni ai più. Scegliere di dedicare più tempo e attenzione al Nostroverso è già andare verso un altrove diverso da quello a cui tutti sembriamo oggi giù inevitabilmente destinati. Può aiutare ad andare oltre le parole nel loro uso corrente, alla ricerca dei loro significati veri, legati alle loro radici e storie, situati e contestualizzati nella realtà turbolenta presente, resa crudele dalla pandemia e dalle altre crisi esistenti, nelle narrazioni traditrici che le caratterizzano.
Ridare senso alle parole è un esercizio individuale, non può essere demandato a stregoni, guru e para-guru, maghi e influencer, medium, sciamani e ciarlatani vari come quelli numerosi che si (auto)celebrano online. È una responsabilità di tutti. Una forma di resistenza al conformismo dilagante che deve essere fatto da soli, non in isolamento ma comunitariamente, sempre in compagnia di altri compagni di viaggio con i quali condividere la difficoltà dell’esperienza e del viaggio da compiere, e particolare la ricerca di senso così come di nuovi livelli di coscienza. In questo esercizio alcune parole richiamano più di altre attenzione e cura. Sono parole il cui valore semantico è anche etico. Parole spesso utilizzate a sproposito e fuori luogo, che tutti dovrebbero adottare in modo cosciente, consapevole e responsabile perché rappresentano un bene comune e possono cambiare la realtà oltre che la vita, personale e relazionale, individuale e collettiva di molti.
Le parole sono tutte importanti ma alcune lo sono più di altre, tutte vanno esplorate, oltrepassate, alla ricerca di ciò che, per ogni parola, non sapevamo di sapere, spesso per quanto superficialmente le usiamo, le scriviamo (oggi in particolare sulle piattaforme social) e le ascoltiamo. Queste parole tutte associabili al Nostroverso sono etiche, valgono più della loro semplice etimologia e dei loro significati, contano per la loro storia e per la loro capacità generatrice, per l’orizzonte di senso al quale rinviano e che alimentano, per gli scenari futuri a cui danno forma. Bisogna agire per cambiarne la prospettiva e immaginarne (costruirne) di nuove, per ricondurle a gesti e narrazioni, sempre nella consapevolezza che la totalità e la ricchezza del loro significato continueranno sempre a sfuggirci.
La definizione di queste parole come etiche nasce dal loro significato dentro un contesto, qui associato al Nostroverso, nel quale la ricerca del proprio benessere non si esprime in pratiche per il wellbeing e la wellness individuale, ma si lega strettamente alla sollecitudine verso l’Altro.
Sono parole utili a prefigurare un ethos sociale, fondato su istituzioni giuste, sulla libertà, sulla saggezza (phronesis) e sull’esperienza etica. Sono parole che fanno riferimento a virtù sociali, sono incarnate (“l’uomo è colui che parla”), strettamente connesse con gli orizzonti di valori personali, all’ethos, alle strutture e alle istituzioni nelle quali ogni individuo è inserito e, nel suo ruolo di cittadino, conduce la sua esistenza personale e collettiva, la sua esperienza pratica quotidiana.
Sono parole testarde, ricche di memoria, positivamente antiche ma mai antiquate, fatte per resistere a un presente che a molti appare intollerabile perché non concede scappatoie se non quella di accettarlo. Un presente di cui molti sembrano al contrario innamorati dimenticandosi che il presente è un tempo crudele che non risparmia nessuno, neppure i più giovani della generazione Millennial. Non potendo scappare non rimane che resistere. La resistenza è fatta anche di parole, che parlano di socialità, che gettano ponti, che accompagnano gesti accoglienti e gentili, che alimentano la memoria e continuino a farci viaggiare verso isole che non ci sono (“Seconda stella a destra, questo è il cammino - E poi dritto fino al mattino - Poi la strada la trovi da te - Porta all'isola che non c'è[21]”), e che non si dovrebbero volere solo per sé.
Sono parole note a tutti anche se da molti oggi disattese (E ti prendono in giro se continui a cercarla - Ma non darti per vinto, perché - Chi ci ha già rinunciato e ti ride alle spalle - Forse è ancora più pazzo di te”), che attengono ai comportamenti e alle abitudini, al costume e al modo di agire, parole all’apparenza sovrapponibili ma ognuna con una sua propria caratura valoriale, profondità, qualità e spessore. Molte con una valenza implicita di anticonformismo, dis-omologazione, determinato dalla conoscenza della realtà, dalla consapevolezza che non tutte le abitudini e le narrazioni correnti debbano essere assunte come tali, ma anzi possano e debbano essere eticamente e responsabilmente oggetto di critica e di resistenza. La loro carica (auto)critica deriva dalla capacità soggettiva riflessiva e valutativa, dall’attenzione dedicata alla cura del sé, che è poi anche cura degli altri da sé.
Sono parole alla pari, senza bisogno di essere prioritizzate anche se due di esse, bene (mai assoluto ma sempre relativo rispetto a ciò che è male) e virtù, alla base della saggezza, meritano di essere menzionate per prime.
Sono parole normali, di (ab)uso comune, che contano pur nella loro ambivalenza etica, ed estetica. Parole che sentono il bisogno di essere abbracciate e accarezzate, rivalutate, restituite alla vita anche per contribuire a vivificare dialoghi, discorsi, narrazioni, pensieri, emozioni e azioni.
Le parole che compongono il linguaggio etico suggeriscono una maniera e una coscienza di esistere autenticamente nella "dimensione dell'altrimenti", che si traducono in comportamenti umani (“rimaniamo umani[22]”), riferimenti valoriali solidi e precisi, disponibilità generosa alla relazione e alla cooperazione, molta tenacia, pacatezza e coraggio, capacità di elaborare pensiero critico, non omologato ma creativo e alternativo, molta forza di volontà perché i tempi sono difficili, caotici e confusi, tempestosi, percepiti da tutti come incerti, sull’orlo del caos.
Sono parole come: amore, amicizia, benevolenza[23], collaborazione, comunità, compassione (sentire per, diversa da empatia, sentire con), comprensione, (tecno)consapevolezza, cultura, democrazia, dono, educazione, equità, etica (intesa come preoccupazione per sé stessi, per gli altri e per le istituzioni di cui si è parte[24]) gentilezza, generosità, gratuità, giustizia, fiducia, felicità (nell’ambito del nostro libro intesa come cura, essere per l’Altro), informazione, libertà, onestà, ospitalità, partecipazione, prudenza, reciprocità, responsabilità, relazione, resistenza, rispetto, sapienza, scelta, solidarietà, sollecitudine, temperanza, tolleranza, umanità e altre ancora. I tratti distintivi di queste parole fanno riferimento a qualità e virtù interiori individuali di cui si sente la mancanza e una diffusa assenza. Da manifestare socialmente in forma di resistenza a pratiche, abitudini, visioni del mondo ed etiche comportamentali contemporanee, all’origine dello star male attuale. Questi tratti distintivi li ha elencati in modo esaustivo Duccio Demetrio nel suo bellissimo libro (anche per le immagini che lo accompagnano) All’antica. Una maniera di esistere[25]: “[...] l’affidabilità, la credibilità, la coerenza, la fermezza non autoritaria ma autorevole, la forza di carattere, l’ottimismo della volontà e della ragione, la riservatezza, la discrezione, la generosità, la nobiltà d’animo, la cura degli altri”.
Tante parole, che si aggiungono ad altre parole, che si richiamano tutte l’una con l’altra, che stanno bene insieme, come le api dentro uno sciame, danzando e comunicandosi significati all’apparenza simili, ma in realtà pieni di sfumature, espressione di riflessioni, desideri e sentimenti diversi. Tutte parole oggi oscurate, tradite, semplificate e banalizzate dai media, dalla politica (sarebbe meglio dire dai politici che ci meritiamo), dall’uso abitudinario di moltitudini di persone intrappolate cognitivamente e semanticamente dentro gabbie tecno-linguistiche e cognitive, tutte impegnate a cinguettare segni e significati sempre uguali e ripetitivi. Parole che hanno attraversato secoli arricchendosi di nuovi concetti e nuove sfumature, accumulando complessità, allargando i confini semantici e polisemici, di apertura verso l’Altro, sono oggi ridotte a semplici elementi disgiunti che impediscono la comprensione della totalità, in qualche caso la offuscano. Da parole sono diventate tanti piccoli emoji, moltitudini di memi che circolano sull’onda dei trending topics della settimana, fanno da testo a promozioni e pubblicità continue, servono a influencer vari per tenere alto il livello della loro visibilità e presa sul pubblico che li ascolta e li celebra.
Le parole scelte per comporre il Nostroverso sono parole dai significati completi, lontani dalle improvvisazioni terminologiche e semantiche a cui ci hanno abituato gli strumenti del Web e le piattaforme tecnologiche sulle quali, mentre ci si parla, si interagisce come se in fondo non ci si parlasse veramente. Un parlarsi comunque impossibile a farsi, vista la virtualità dello scambio, sempre però possibile e verificabile dentro un abbraccio, un tenersi stretti tra innamorati, uno scambio di sguardi da vicino, un guardarsi negli occhi. Lo scambio fuori dal virtuale non ha bisogno di tempo reale, non necessita di immediatezza, vive sulla durata, anche immaginata e desiderata, di eventi che maturano e si manifestano nella loro carica trasformativa ed emergenziale, sempre dentro avvenimenti più vasti che li contengono e li raccontano, obbligando a soffermarsi per cogliere ciò che di solito non si è riusciti a osservare, seguire e capire.
La comunicazione online al contrario è veloce, binaria, sincronizzata, non prevede tempi differiti né ritardi, brucia ogni cosa, senza tempo e senza spazio, nell’attimo fuggente dell’evento. Un evento divertimento diventato ormai, nella sua ritualità, ripetitività e fabbricazione a catena, stereotipo di sé stesso, strumento mediale per catturare l’attenzione e l’interesse, per alimentare distrazione e rubare tempo all’informazione, alla conoscenza e alla comprensione. Con l’effetto di far sparire intere categorie di parole e di svilirne altre, impedendo così di comprendere meglio la realtà, le sue trasformazioni invisibili e silenziose. Sapere è utile, capire e afferrare con la mente è necessario alla conoscenza, ma il comprendere, che spesso risulta impossibile come ha ben spiegato Primo Levi nel suo libro, Se questo è un uomo, è fondamentale, perché unisce la riflessione alle emozioni, aiutando il cuore e a trasformare ogni esperienza. Esperienza che nel contesto di questo libro è sempre incarnata, situata e contestualizzata dentro uno spazio fattuale, diverso da ogni sua simulazione digitale, pur nella consapevolezza di vivere dentro il Tecnocene come esseri ibridati tecnologicamente e forse già in trasformazione verso una realtà postumanista e transumanista.
Note
[1] Montaigne: Saggi, Edizioni Giunti/Bompiani, 2019, Pag. 863
[2] Ibid Pag 863
[3] “Le manifestazioni No Vax sono organizzate da persone che parlano di libertà, ma si rendono schiave delle proprie idee non mettendole in discussione. Gli antivaccinisti non scendono in piazza per manifestare un’opinione diversa, ma corrono il rischio di diffondere il virus diventando un pericolo per gli altri: i dati dei contagi del Friuli-Venezia Giulia lo dimostrano. È un fenomeno che deriva ancora una volta dal collasso della nostra cultura e della nostra scuola, non più in grado di formare menti critiche. È il prodotto della mancanza di buona educazione e di dialogo: elementi in assenza dei quali si resta bulli che si nutrono di informazioni infondate”. Umberto Galimberti
[4] Il riferimento è al capolavoro di Elias Canetti Massa e potere, Adelphi, Milano
[5] Scritto con Nausica Manzi
[6] “[…] la parola significato si può definire così: il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio” Ludwig Wittgenstein
[7] Il riferimento è al team di social media manager che affiancano il leader della Lega, Salvini, nelle sue attività di comunicazione social
[8] Leonardo Sciascia, Processo per violenza in Il mare color del vino
[9] Douglas Hofstadter e Emmanuel Sander: Superfici ed essenza. L’analogia come cuore pulsante del pensiero - Codice Edizioni, Milano 2015
[10] “L’autocoscienza è in sé e per sé in quanto e perché è in sé e per sé per un’altra: ossia essa è soltanto come qualcosa di riconosciuto” - Hegel, Fenomenologia dello spirito, traduzione di E.de Negri, 1963, Pag. 153, vol.1
[11] E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell'essenza
[12] Ornella Castellani Pollidori: La lingua di plastica. Vezzi e malvezzi dell’italiano – Editore Morano, Napoli 1995
[13] Ivano Dionigi, Parole che allungano la vita. Pensieri per il nostro tempo - Edizioni Cortina, 2020
[14] Vittorio Coletti, accademico della Crusca. La frase è contenuta in un suo articolo sull’Italiano della politica pubblicato sul sito dell’Accademia della Crusca
[15] Marc Augé, Cuori allo schermo, vincere la solitudine dell’uomo digitale – Piemme, Milano 2018
[16] Ludwig Wittgenstein
[17] Quando si parla di anglicismi tutti dovrebbero riflettere sulla quantità di parole che rientrano in questa categoria e delle quali non si ha più alcuna percezione della loro provenienza straniera. Ne è un esempio la parola sport (da cui sportivo, sportivamente). Ma l’elenco è lungo: marketing, hobby, party, bar, film, baby, e-mail, manager, partner, convention, wi-fi, backstage, auditing, endorsement, fake news, leggings, sexting, cyborg, ecc.
[18] L’esempio è stato fatto dallo psicologo Luciano De Gregorio
[19] Cory Doctorow
[20] Edgar Morin
[21] Edoardo Bennato, L’isola che non c’è
[22] Lo slogan di Vittorio (Vik) Arrigoni, attivista rapito e ucciso in Palestina
[23] Edgar Morin: “La benevolenza permette di considerare gli altri non solo per i loro difetti e le loro mancanze, ma anche per le loro qualità, nello stesso tempo nelle loro intenzioni e nelle loro azioni”.
[24] Il riferimento è alla concezione dell’etica di Paul Ricoeur
[25] Duccio Demetrio, All’antica- Una maniera di esistere, Raffaello Cortina Editore, Milano 2021, Pag. 23