Go down

Viviamo l’era delle macchine, della tecnolog-IA, della palude digitale. Ci sentiamo immersi in questa realtà, sempre coinvolti, in realtà vi siamo dentro, esistenzialmente impantanati. Ne deriva un senso di immobilità (si corre rimanendo sullo stesso posto), bloccati dentro un presente continuo che ha catturato la nostra attenzione, ci ha intorpidito la mente, bloccandoci dentro bolle cognitive, mettendoci al servizio di algoritmi che ci impediscono di pensare (doomscrolling), di fare delle scelte, di coltivare pensiero e immaginazione.


L’impantanamento si riferisce alla realtà. Non sappiamo più cosa sia e quanto coincida con le narrazioni che la raccontano e la rappresentano, neppure con quelle che ci raccontiamo da noi stessi. Tutti però sentiamo per intero il suo peso materiale, dobbiamo combattere con la sua melma appiccicosa tipica delle sabbie mobili, sperimentiamo la resistenza che esercita, assimilabile a quella di un abito troppo stretto che non si vede l’ora di arrivare a casa per toglierselo. 

Siamo impantanati nella realtà materiale ma anche in quella virtuale e online. La prima dovrebbe continuare ad avere la priorità, perché è riferita alla nostra (materiale) sopravvivenza. La seconda che, con la nostra complicità, si può vantare di avere sostituito la prima, ci imbriglia con la sua complessità reticolare e tentacolare, le sue molteplici trappole, non molto diverse dalle sabbie mobili, ma più pericolose perché numerose e imprevedibili, che ci stanno abituando a vivere in uno stato di continua allerta (le sabbie mobili sono ovunque), di insicurezza, ansie e di incertezza.

Impantanati e imbrigliati siamo diventati fatalisti, percepiamo di essere senza prospettive e più lo siamo più scegliamo la realtà online, perché forse ci appare come la realtà (una placenta calca che ci accoglie) alla quale è più facile adattarsi, conformarsi, omologarsi. La scelta facile non ci esime dal cadere in nuove trappole, ma soprattutto ci impedisce di comprendere quanto proprio essa sia responsabile della piena realizzazione della fatalità e del nostro fatalismo, che ci raccontiamo esistenzialmente come diventati parte integrante delle nostre vite presentiste e sempre online.

“Uscire dalla palude significa anche sfuggire al presente perpeuo del tecnocapitalismo che cancella ogni alternativa, rompere con i futuri prefabbricati della modernità basato sulla certezza del progresso” (Jerome Baschet) 

Il fatalismo ci porta a credere di essere condannati a vivere nel mondo nel quale ci troviamo a vivere (il realismo capitalista ben descritto da Mark Fisher). Un mondo nel quale è venuta meno la scala sociale, la precarietà e la povertà sono in costante aumento, il lavoro ben pagato è diventato un sogno o una illusione per molti, si è malati di (iper)consumismo, si è sposata la logica competitiva perché prima degli altri viene il proprio individualismo (narcisismo) e la propria soggettività (egoista), si è instillato in molti la paura di perdere benefici e vantaggi, posizioni e rendite, nella convinzione che non ci sarà più posto per tutti. In una parola ci si sente condannati a un mondo senza alternative possibili.

L’impantanamento, non da tutti percepito (e se nella realtà fossimo impantanati da sempre, essendo questa la condizione umana?), si porta appresso l’idea di essere bloccati ma anche di stagnazione, di impossibilità a cambiare. Questo nonostante si viva immersi e bombardati da mille stimoli, notizie, notifiche, soprattutto sempre dentro un surplus informativo che forse è anche all’origine del sentirsi impantanati. Uno degli effetti di questo surplus è anche cognitivo, è l’accresciuta difficoltà a prendere una distanza critica dalla realtà vissuta, sia essa online o fattuale. Immersi nelle sabbie mobili della realtà facciamo fatica a coglierne la realtà (la realtà della realtà, il Reale della realtà), persino a comprenderla in modo da poterla mettere in discussione (una cartina da tornasole è la difficoltà che abbiamo a distinguere la realtà online da quella fattuale).

Il sentirci impantanati ci sta portando a pensare che non rimane che adattarsi, agire in modo conforme al “così fan tutti” della logica implacabile di adeguamento a una realtà che deve essere fatta propria così come è. Questo modo di pensare è quello che ci impedisce di continuare a credere (sperare) che una alternativa continui a esistere, di costruire pensiero e narrazioni alternativi al pensiero omologato dominante. Sperare, credere è un modo per rifiutarsi di inchinarsi alla invincibilità e inevitabilità di una fase storica dell’attuale (tecno)capitalismo (un termine che bisogna ritornare a utilizzare per elaborarne una critica), caratterizzata da crisi emergenti continue e da trasformazioni radicali in atto, che possono aprire la strada ad alternative possibili e a utopie concrete future. Possibilmente riconciliate con le idee del bene comune, pensate a partire da una critica del presente, elaborata a partire dalle contraddizioni interne e dai limiti obiettivi che la realtà attuale ci presenta a ogni passo. Limiti individuali, soggettivi, sociali, economici e politici. 

Il sentirci impantanati ci sta portando a pensare che non rimane che adattarsi, agire in modo conforme al “così fan tutti” della logica implacabile di adeguamento a una realtà che deve essere fatta propria così come è.

A essere impantanati sono siamo solo noi, è il mondo nella sua interezza. Come altro descrivere un mondo nel quale dominano incontrastati modelli e politiche economiche capitalistiche distruttive? La distruttività è quella estrattiva, ambientale, ma anche quella collegabile alla vita delle persone e degli esseri viventi e non viventi che popolano il pianeta Terra. La distruzione dell’ambiente va di pari passo con la distruzione dei legami sociali (chi può ancora credere che social sia sociale e socialità? Non siamo stufi di relazioni puramente mercantili, consumistiche?), della soggettività, che si manifesta nel collasso del sentimento del sé. Non è un caso che cresca il malessere sociale, lo stare male, aumentano le patologie psichiche e la sensazione di vuoto, legata alla solitudine, all’ansia (anche da prestazione e produttivistica), al sentimento di espropriazione vissuta da molti come non più accettabile e neppure comprensibile.

In questo contesto in poco tempo abbiamo imparato a cercare risposte, soluzioni, alternative, dialogando con le numerose intelligenze artificiali che stanno rapidamente colonizzando e dando forma a nuove realtà. Non riceviamo le risposte che servono per soddisfare i nostri bisogni o desideri, ma dopo aver dialogato ci possiamo dire di aver provato a elaborare possibili alternative e a farcelo bastare. Ne deriva una dissociazione grande, razionale e anche emotiva. Non potrebbe essere diversamente visto che le IA attuali poggiano sulle stesse logiche che sono all’origine della realtà attuale che ci fa star male. Logiche come quella del denaro, del profitto, e commerciale. Uno strumento computazionale ci sta portando ad arrenderci alla logica strumentale di una macchina e a rinunciare alla nostra intangibilità e unicità di esseri umani. L’accettazione di questa logica si porta appresso una resa, un impantanamento ancora più grande, che porta alla disumanizzazione perché vede moltitudini di persone al servizio di una macchina di IA, delle sue logiche e funzionalità.

ormai passiamo più tempo con le IA che con gli altri: da loro non riceviamo le risposte che servono per soddisfare i nostri bisogni o desideri, ma dopo aver dialogato ci possiamo dire di aver provato a farci bastare le risposte e le soluzioni che abbiamo ottenuto 

L’ironia di tutto questo è che anche le IA generative che usiamo sono impantanate. Le loro sabbie mobili si chiamano allucinazioni. Tutti abbiamo allucinazioni ma quelle delle IA si distinguono per la produzione linguistica di “risposte” che risultano insensate dal punto di vista umano. L’impantanamento deriva dal fatto che, mentre l’umano è in grado di riconoscere un errore, la macchina IA non lo è. “L’allucinazione della macchina è una disfunzione statistica: una correlazione probabilistica che produce output linguisticamente plausibili ma semanticamente vuoti, senza alcuna capacità di riconoscere autonomamente l’errore. [Le allucinazioni delle macchine IA] sono artefatti computazionali che richiedono verifiche esterne ” (Giorgio Griziotti). L’ironia sta nel fatto che la realtà impantanata (dati, informazioni, ecc.) da cui i Chatbot IA producono i loro output non fa altro che produrre nuove realtà già impantanate in partenza, perché semplicemente allucinatorie, nasate su semplici calcoli statistici.

Se questa è la realtà delle IA (quello per cui sono state programmate) del momento (tutto ciò che producono è allucinazione!) ci si potrebbe interrogare se e quanto sia voluto, determinato, pensato per impantanare ancora di più la realtà fattuale e digitale degli umani, in attesa della singolarità delle macchine. Le IA generative in fondo sono stupide nel loro funzionamento, sicuramente intelligenti nei loro obiettivi (ad esempio espropriare e incorporare le capacità cognitive) da realizzare, con la complicità di moltitudine di persone che finiscono per servirle accettando di apprendere, decidere e vivere come da loro suggerito. Ovviamente delegando ed evitando qualsiasi critica, tantomeno la ricerca di possibili alternative.

cosa ci rimane da fare? e se ricorressimo alla nostra immaginazione, al nostro pensiero critico e alla collaborazione con gli altri?

A questo punto se tutto e tutti sono impantanati, per non limitarsi ad accettare e a prendere atto, per non lasciarci vivere (morire) cosa ci rimane da fare? La soluzione più semplice è la resa, una scelta che molti hanno con superficialità e leggerezza già fatto. In alternativa, persa da parte di molti la capacità di elaborare una riflessione critica e de-coincidente capace di contrapporre alla realtà attuale valide trasformazioni e metamorfosi, si potrebbe tornare a far ricorso alla immaginazione umana, il che implica usare un po’ meno le IA che di immaginazione dimostrano di avere in abbondanza, tanto che stanno colonizzando anche il nostro immaginario.

L’impaludamento, l’insabbiamento, l’impantanamento ci suggeriscono di cercare un modo per uscire dalla palude e aprire nuovi possibili, darsi nuove possibilità. La prima liberazione passa cercando di uscire dalla palude del pensiero, oggi sempre più omologato, riempito di convinzioni stereotipate che ci hanno intrappolato impedendoci di rompere gli schemi esistenti e scoprire nuove prospettive che poi significa nuovi modi di pensare, nel pensiero di Francois Jullien, di agire scartando (ecart). Lo scarto è un movimento di allontanamento che permette di superare il presente (l’impaludamento) per trovare nuovi possibili, aprirsi a nuove possibilità prima non considerate, neppure immaginate.

L’impaludamento, l’insabbiamento, l’impantanamento ci suggeriscono di cercare un modo per uscire dalla palude e aprire nuovi possibili

La ricerca di alternative passa attraverso il ritorno a pensare e all’uso dell’immaginazione. Il (tornare a) pensare è in primo luogo un farmaco (in tutti i sensi e significati di pharmacon) utile ad affrontare il malessere nel quale ci si potrebbe trovare. Serve a riflettere cosa significhi essere, esistere, vivere, senza alternative, smettere di pensare che ci possa essere un futuro, l’inutilità di lasciarsi andare alla nostalgia, l’errore di conformarsi e ripetersi coattivamente, lasciarsi ingabbiare dal disincanto e rinunciare a qualsiasi illusione, sogno, immaginazione. L’immaginazione è strumento potente per non capitolare. 

"La nostra generazione non è 'immersa' nella tecnologia, è 'impantanata'. Il movimento è costante, ma la direzione è incerta e il progresso illusorio."

L’immaginazione individuale ci può aiutare a uscire dalle trappole che hanno generato il pessimismo da resa ultima di Mark Fisher per il quale è il mercato, il capitale, il potere, (e io aggiungerei anche) la tecnologia e l’IA, a immaginare per noi, a farci credere di desiderare qualcosa mentre stiamo soltanto eseguendo un ordine, un comando estraneo a noi. Senza immaginazione siamo in trappola, siamo portati a credere che dalla caverna non si esca più, che non ci sia alcun filo di Arianna per lasciare il labirinto multicursale nel quale ci ritroviamo imprigionati con moderni Minotauri, di non poter trarre vantaggio da alcuna forma di resistenza e dissenso che viene rapidamente e facilmente assorbito.

Sentirsi in trappola è già ammettere la sconfitta, l’accettazione del principio di realtà, la rinuncia a sognare, a immaginare mondi possibili. Non accettare di essere stati sconfitti suggerisce di riflettere criticamente sui nostri modi (abitudinari) di comprendere e svelare la realtà. Oggi a prevalere è lo sguardo, quello posato per ore dallo schermo di qualche dispositivo, che ci fa da specchio, cornice, filtro verso la realtà che sta ai bordi, al suo esterno. Non si guarda più quello che sta fuori dallo schermo, si finisce per fidarsi solo di ciò che si vede, sempre più spesso attraverso uno schermo. 

La prima azione da compiere terminata la riflessione potrebbe essere la rivalutazione di altri sensi, capaci di riportarci a sentire, anche emotivamente, la realtà, nella sua essenza di impantanamento. Nel momento in cui questo passaggio dalla vista agli altri sensi avvenisse con successo si potrebbe cominciare a scartare, a dissociarci, a distanziarci da come siamo abituati a percepire e a pensare la realtà. Da ciò potrebbero nascere scelte, comportamenti impulsivi, umani, de-coincidenti, capaci di far immaginare come fare per uscire dalle sabbie mobili, per tentare il ritorno sulla terra ferma, la realtà fuori dall’impaludamento, tutta da (ri)scoprire ex-novo.


 

StultiferaBiblio

Pubblicato il 15 dicembre 2025

Carlo Mazzucchelli

Carlo Mazzucchelli / ⛵⛵ Leggo, scrivo, viaggio, dialogo e mi ritengo fortunato nel poterlo fare – Co-fondatore di STULTIFERANAVIS

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