Introduzione
I cinque brevi saggi qui raccolti affrontano, da prospettive differenti ma convergenti, la tensione costitutiva tra nichilismo e democrazia, mettendo in luce come la crisi della politica contemporanea non sia un accidente, bensì un tratto strutturale della modernità avanzata. La disaffezione verso la politica, al centro del primo saggio, non si esaurisce in un fenomeno sociologico o elettorale, ma rivela il progressivo svuotamento del legame comunitario e la difficoltà a pensare la dimensione collettiva come spazio di senso condiviso. Al tempo stesso, la critica a questa disaffezione, analizzata nel secondo scritto, appare come condizione preliminare per qualunque analisi della crisi democratica, riprendendo il gesto marxiano dello smascheramento delle illusioni che impediscono un agire emancipativo.
la crisi della politica contemporanea non è un accidente, bensì un tratto strutturale della modernità avanzata
A questa diagnosi si intreccia la consapevolezza del carattere ambiguo e performativo della rappresentanza politica, oggetto del terzo saggio, che oscilla tra liturgia e spettacolo, tra trasparenza proclamata e opacità effettiva, generando il sospetto che la democrazia sia “sopravvalutata” e dunque sostituibile da altre forme di legittimazione. In questo scenario, l’estetica della paura, trattata nel penultimo scritto, e la logica dell’accelerazione sociale alimentano pulsioni reazionarie che traggono forza dal disorientamento collettivo e dall’incapacità delle istituzioni di dare risposte. L’horror diventa così un laboratorio simbolico per comprendere l’attrazione verso visioni catastrofiche e soluzioni autoritarie.
Infine, nell’ultima parte, la storia della democrazia viene ripercorsa come storia della sua crisi permanente: un ciclo ininterrotto di promesse emancipative e di derive degenerative, in cui la fragilità del principio rappresentativo si manifesta già alle origini. Ne emerge un quadro unitario: il nichilismo contemporaneo non coincide con il vuoto di senso, ma con l’impossibilità di immaginare alternative, con la riduzione della democrazia a forma senza sostanza, sospesa tra il rischio della sua dissoluzione e la necessità di reinventarla.
il nichilismo contemporaneo non coincide con il vuoto di senso, ma con l’impossibilità di immaginare alternative, con la riduzione della democrazia a forma senza sostanza,
Abstract
La raccolta indaga il nesso tra nichilismo e crisi della democrazia attraverso cinque prospettive complementari. Il primo saggio analizza la disaffezione politica come sintomo di un indebolimento della partecipazione e del legame comunitario, problematizzando il rapporto tra governanti e governati. Il secondo individua nella critica a tale disaffezione la condizione preliminare di ogni analisi politica, collocandola in continuità con la tradizione marxiana della critica delle illusioni ideologiche. Il terzo esplora la dimensione spettacolare della rappresentanza, mostrando come la democrazia contemporanea si configuri come liturgia estetizzata, in bilico tra legittimazione e disincanto. Il quarto approfondisce l’emergere di un immaginario reazionario alimentato dall’estetica della paura e dall’accelerazione sociale, che rendono plausibile la deriva populista e la fascinazione per soluzioni autoritarie. L’ultimo, infine, ripercorre la storia della democrazia come storia della sua crisi intrinseca, segnata fin dalle origini da tensioni strutturali tra partecipazione popolare e degenerazione demagogica.
L’insieme dei contributi mostra come il nichilismo politico contemporaneo non sia riducibile a mera apatia o perdita di valori, ma vada compreso come condizione storica in cui la democrazia appare al tempo stesso inevitabile e inadeguata. Ciò apre un interrogativo urgente: se la democrazia coincide con la propria crisi, quali spazi restano per la sua reinvenzione?
A - La - presunta - disaffezione nei confronti della politica e le sue conseguenze
Viviamo un tempo dove è tangibile una disaffezione nei confronti della politica. L’affluenza alle urne mostra un’emorragia lenta ma costante, l’anemia politica è ormai manifesta nel pallore cadaverico diffuso. Il motivo ricorrente che appiattisce il discorso sulla res pubblica è la netta quanto diffusa presa di distanza tra la classe dirigente che compone il legislativo e l'esecutivo e il resto della popolazione: la prima viene vista come responsabile della produzione e riproduzione di una caoticità insolubile, burocartica e legislativa, che determina il presente e i giorni a venire, i secondi vittime innocenti e soggetti di uno sfruttamento costante che li relega a essere contemporaneamente gli unici a lavorare e a pagare i conti.
Da qui si muovono le istanze che chiedono un ridimensionamento drastico dei costi della politica, l'imposizione di rigide regole che impediscano il rinnovamento dei mandati e l'eliminazione drastica di tutte quelle garanzie civili che permettono, formalmente e sostanzialmente, di fare politica liberamente e senza l'influenza di poteri esterni, dai vitalizzi alle leggi che tutelano il legislatore dalla magistratura e che così facendo garantiscono quella divisione dei poteri che a scuola ci hanno insegnato essere la base del sistema democratico.
Ciò che si pronuncia classe politica non è forse che si scriva democrazia? E a chi giova in fin dei conti il depotenziamento dei pilastri su cui si basa la democrazia rappresentativa e parlamentare e con questa le sue garanzie? La risposta non sarà una parola, un colpevole, un manovratore nascosto. Ci duole, fin da subito, dover sfatare il desiderio di chi si appresta a proseguire la lettura di trovare una risposta semplice a una domanda complessa. Quello che segue sarà piuttosto il tentativo di individuare alcuni bersagli critici e di fornire gli strumenti con cui costruire le lenti per vedere con maggiore chiarezza all'interno della complessa nebulosa che forma il momento storico che stiamo vivendo. Quella complessità che spesso appare, o ci piace vedere, come il sogno patinato di un'utopia realizzata.
Che cos'è la dimensione politica? Secondo la famosa definizione di Parsons contenuta nel suo Sistema sociale del 1951 la politica è
«l’insieme delle azioni e delle istituzioni sociali che hanno lo scopo di dirigere la collettività verso gli scopi condivisi dai membri. Lo scopo è la costruzione di una comunità che con i suoi valori sia in grado di sopravvivere ai singoli».
Tutto questo implica l’esistenza di una comunità. È ancora possibile pensare in questi termini? In questo senso, lo Stato, i governi, le istituzioni, i sindacati, i partiti ecc. attraverso le loro strutture tendono a compattare dinamicamente, o piuttosto a incrinare, un sistema politico? A differenza del passato dove la riflessione ruotava attorno al concetto di sovranità, nel Novecento la discussione sulla politica si è sempre di più concentrata attorno all'ampiezza della partecipazione. Questo perché l'affermarsi della modernità e dei sui principi razionali hanno escluso un principio di sovranità che sia esterno al corpo politico. D'altra parte il concetto di politica è strettamente connesso con quello di potere come rapporto tra due soggetti in cui uno impone all'altro la sua volontà.
Il Novecento è stato probabilmente il secolo che più di ogni altro ha ampliato la dimensione politica dell’individuo. Poi tutto è cambiato. Siamo in una situazione simile a quella che all'indomani della Prima guerra mondiale era stata denominata “vittoria mutilata”. Le conseguenze di quella situazione le conosciamo bene ma quello era un mondo pieno di politica. Siamo convinti che la disaffezione alla politica corrisponda un’assenza di desiderio politico? Siamo certi che questo non possa riemergere improvvisamente tramite l’azione, che per forza di cose sarà necessariamente violenta e inaspettata?
Il Novecento è stato probabilmente il secolo che più di ogni altro ha ampliato la dimensione politica dell’individuo. Poi tutto è cambiato.
B - La critica alla disaffezione politica è la premessa di ogni critica
Sembra un remake in chiave postmoderna oppure un remix fuori tempo massimo. I più riconosceranno la natura delle note originali che fanno da architrave al cambio di ritmo e attualizzano il tema. Altri, più sensibili alla letteratura di genere, paragoneranno il gioco a quello fatto dal “dottor in niente” Guy Debord nel suo La società dello spettacolo, un libello noto per essere stato definito come il libro “più citato e meno letto del secondo Novecento”. Per altri sarà solo un incipit ad effetto.
Quelle parole vogliono essere tutt'altro che un gioco, ma assumono la forma del Joker nel senso che ha quella parola per Batman, qualcuno che non può essere sconfitto se non al prezzo di svelare chi siamo veramente, di gettare la maschera e di rimanere nudi di fronte alla nostre paure e alle nostre responsabilità.
Il copyright a cui si ispira il remix/remake è di Karl Marx ed è datato 1844 e tratto dalla Critica della filosofia del diritto di Hegel, l'introduzione a un libro che non è mai stato scritto. In questo incipit che non ha avuto il seguito per cui era stato pensato si trovano alcune delle massime del filosofo tedesco, che per la cronaca al tempo aveva ventisei anni, più note al grande pubblico. Tra queste vi è la definizione di «religione come oppio dei popoli». Un paragone di per sé ambiguo: la sostanza distillata dal papavero ha infatti sempre destato il dubbio se il suo effetto sia davvero sedativo o se piuttosto il medicamento lavori sulla coscienza impedendo al paziente di ricordare il dolore provato e impedendo di averne memoria. L'oblio come cura dei propri fantasmi, ma che non preserva dalle nevrosi.
È proprio in quanto oppio, nel suo doppio significato, che la religione diventa l'oggetto che sta al principio della critica: principio inteso come ciò che è prematuro dal punto di vista temporale ma che allo stesso tempo è germe da cui si sviluppa tutto il resto, e che può essere debellato solo allora, prima che diventi troppo grande per ingaggiarlo a duello senza uscirne con le ossa rotte.
La religione è in questi termini per Marx «il gemito della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, e insieme lo spirito di una condizione priva di spiritualità». La religione è il sintomo che si prova di fronte a un spazio-tempo che ha smesso di sperare nel cambiamento e che ha rimandato ogni gioia in un kronos altro, in uno luogo otre la temporalità. In questo senso si pone l'urgenza di «una critica della religione come premessa di ogni critica»: solo riportando al tempo presente la speranza e la lotta è possibile costruire un futuro prossimo degno di essere oggetto di desiderio e di soddisfazione.
quale deve essere il principio su cui concentrare il fuoco della critica. A nostro modo di vedere il target è necessariamente la disaffezione politica.
Oggi, al tempo della secolarizzazione, quando, almeno in occidente, la religione viene relegata a una mera dimensione interiore, guardata con la superiorità di una risata beffarda dalla vittoria della razionalità e della tecnica che genera avatar tanto banali quanto pervasivi, oppure vista con sospetto e fonte di emarginazione a causa della deriva fondamentalista di alcune sue frange radicali, occorre chiedersi quale deve essere il principio su cui concentrare il fuoco della critica. A nostro modo di vedere il target è necessariamente la disaffezione politica.
La frustrazione politica, al pari della religione ai tempi di Marx, è il sintomo di uno stato di minorità: la conseguenza diretta di un attacco alla democrazia. Ma chi è il responsabile di questa castrazione collettiva? Che cosa ci ha resi impotenti?
Queste domande sono esattamente il prodotto dell'impotenza stessa: sono la voce flebile del venir meno della forza vitale che ha mosso la storia nella direzione dell'emancipazione. Sono il risultato terminale del sistema di potere che ha costruito l'ordine del discorso ideologico e totalitario in cui siamo immersi.
Per comprendere le cose dobbiamo partire dal presupposto che la democrazia è l'eccezione e non la regola, è un particolare e non l’universale, è frutto della contingenza. In altre parole: poteva andare diversamente e un altro mondo è possibile. Forse ha più senso interrogarsi su cosa ha permesso la nascita e la vita della democrazia, piuttosto che stupirsi di come questa si sia lentamente dissolta come neve al sole quando le previsioni meteo più accreditate parlavano di una nuova glaciazione denominata fine della storia.
dobbiamo partire dal presupposto che la democrazia è l'eccezione e non la regola, è un particolare e non l’universale, è frutto della contingenza.
C - La democrazia è sopravvalutata – Senza le condizioni per la rappresentanza, resta solo rappresentazione
Il nostro sogno è ambientato all'interno di uno spazio istituzionale: siamo presenti a una scena madre, stiamo partecipando a una funzione, a una liturgia – un termine chiave per comprendere il potere come ci indica l'etimologia greca di λειτουργία, composto di λήιτον «il luogo degli affari pubblici» e ἔργον «opera».
Siamo tra il pubblico, non vicinissimi al fulcro della cerimonia ma abbastanza da scorgere in maniera distinta quello che succede: la persona che abbiamo di fronte ha una mano alzata e l'altra posata sulla Bibbia e ripete le formule pronunciate dall'officiante. Le prime parole che sentiamo hanno a che fare con l'accettazione di un impegno «senza alcuna riserva mentale e intenzione allusiva».
Poi tutto cambia e ci ritroviamo inaspettatamente sul palcoscenico dell'evento, tra l'officiante e l'uomo con la mano alzata, ma qualcosa ci sconvolge, al di là della vicinanza al potere, ed è il livello su cui stiamo. È come se fossimo tornati bambini, oppure inginocchiati o forse meglio ridimensionati, fattosi piccoli come le figure dei committenti – coloro che commissionano e pagano l'opera – nei dipinti medioevali. E come i timorati di quel periodo di mezzo ci poniamo subito sotto la Bibbia, che ci cinge come il mantello della Madonna della Misericordia dipinta da Piero della Francesca nel 1450, e da li ci vediamo rivolgere lo sguardo da parte di chi sta sopra di noi. Timorati e timorosi ricambiamo lo sguardo, veniamo allora rassicurati e raggelati da una confidenza: «Sono a un solo passo dalla presidenza e non un singolo voto è favorevole al mio nome: la democrazia è sopravvalutata».
Al successivo stacco di montaggio siamo nuovamente tra gli altri presenti ma più vicini rispetto all'esordio, abbiamo guadagnato terreno e siamo tornati alla nostra altezza di adulti. Da qui possiamo osservare la fine del giuramento e sentire chiaramente la promessa «di adempiere bene e fedelmente ai doveri previsti dalla carica che mi accingo ad assumere, con l'aiuto di Dio». «Congratulazioni Signor Vicepresidente» risponde l'officiante mentre i presenti applaudono tiepidi. Il neo Vicepresidente ringrazia e conclude: «D'accodo, ora torniamo a governare il Paese». Ci svegliamo.
La scena è un sogno collettivo, o meglio un'allucinazione di massa, come quelle che vengono provate da più persone che hanno concorso a una tragedia o hanno condiviso forti emozioni, ed è tratta dalla seconda stagione di House of Cards, la serie targata Netflix che narra la scalata al potere esecutivo americano da parte di Frank Underwood, interpretato da Kevin Spacey. Queste immagini sono come un sogno, perché in fondo il cinema, soprattutto quello che ha successo, e proprio qui sta il motivo del suo successo, funziona esattamente come un sogno, e sono collettive perché tutti sappiamo esattamente di cosa stiamo parlando, anche se non siamo in grado di mettere completamente a fuoco l'obiettivo. Ma ciò che più caratterizza questo quadro è il suo essere perverso e osceno: anche secondo i detti popolari i sogni sono desideri, ma come sosteneva Schopenhauer possiamo forse fare quello che vogliamo ma di certo non abbiamo il potere di desiderare quello che vogliamo. I nostri desideri ci privano forse delle libertà?
Cerchiamo allora di interpretare correttamente i nostri desideri inconsci e di tradurre il sogno, le immagini in un discorso razionale che ci dica con maggiore chiarezza chi siamo e chi vorremmo essere: quali sono i nostri desideri perversi.
La parte iniziale del sogno ci pone da subito in una situazione ambigua: siamo presenti, in mezzo alla piccola folla che partecipa alla cerimonia, concorriamo alla messa del potere, vediamo il palcoscenico di quello che succede e che nella nostra situazione di pubblico siamo rassicurati della legittimità di quello che sta avvenendo, tutto segue le regole. In primis la trasparenza. È tutto in streaming.
Vi è poi la forza del cerimoniale che santifica nella sua formulazione, trasforma, dà vita e senso a ciò che prima non lo aveva. E noi siamo li, ciò che accade è reale, davanti ai nostri occhi. Siamo noi a essere dalla parte del kingmaker, a dare legittimità al potere. Non è un caso se il verbo usato per il lavoro degli attori, “rappresentare“, ha la medesima radice del termine che designa i politici, “rappresentanti“, e se la struttura architettonica dei parlamenti riprende quella degli antichi anfiteatri. Possiamo stare tranquilli, è la norma.
Poi tutto cambia, ci accorgiamo che la nostra posizione è un'altra: siamo in basso, più vicini ma molto più in basso. La breve distanza ci permette di mettere a fuoco la situazione, di vedere con più chiarezza, non tanto cosa sta succedendo ma piuttosto chi siamo realmente in quanto spettatori. Guardiamo dal basso verso l'alto posizionati sotto il tetto minaccioso della Bibbia e della mano che si impone sopra la nostra testa. Siamo tornati bambini e ci si parla dall'alto verso il basso. Questo stato di minorità ci consente però di avere una confidenza:«la democrazia è sopravvalutata».
La verità ci rende a suo modo adulti: ci ritroviamo di nuovo all'altezza dei grandi, a pochi metri dal vicepresidente, anche se spostati di lato e da qui ascoltiamo sgomenti la conclusione della cerimonia. Oramai è troppo tardi, siamo a pochi metri dall'incarnazione del potere che beffardo ringrazia. Ma in fondo è sempre stato così: ai ringraziamenti segue la frase più sincera di tutto il sogno, quella slegata da ogni formalità, il ritorno all'ordine: la festa è finita, «ora torniamo a governare il Paese».
Ci svegliamo sudati, eccitati e spaventati allo stesso tempo. Una frase rimbomba nei nostri pensieri: la democrazia è sopravvalutata. Ci giriamo dall'altra parte e attendiamo con disprezzo il suono della sveglia.
Questo sogno, o più probabilmente di incubo dovremmo parlare, con quelle parole sulla democrazia poste a pietra angolare rappresenta un'ottima chiave per accendere la luce sulla camera di tortura della società contemporanea, il luogo dove vediamo all'opera il nodo che stringe alla gola la dimensione politica dell'individuo e riducendo a un disperato singhiozzo i suoi rapporti con il potere. È ancora da vedere se il nodo sarà stretto a tal punto da spezzare la carotide e decretare la morte del condannato.
La forza di queste parole sta soprattuto nella loro perversione: ci provocano quell'inspiegabile desiderio di attrazione e repulsione che ci capita di sentire di fronte ai nostri desideri più inconfessabili. Come distesi sul lettino dell'analista, stremati dalle nevrosi, cerchiamo di capire allora a cosa rimandano le manifestazioni del nostro inconscio politico e quale sia il desiderio latente che abbiamo rimosso. Chiediamoci perché ci piacciono così tanto queste parole e non vediamo l'ora di trovare un buon motivo per pronunciarle a qualcuno che ingenuamente pensa il contrario.
Il fascino perverso di quelle parole sta nella loro ambiguità.
Sono perverse nel senso freudiano del termine in quanto deviano dal generare un frutto e nonostante ciò ci fanno provare piacere. All'interno della discussione politica lo scontro è il canone per eccellenza, la storia lo insegna. Sia che si voglia mantenere il potere sopprimendo l'avversario e le sue legittime critiche, sia che si svoglia sconvolgere l'assetto alla sua base rivoluzionandolo – dalle armi della critica alla critica delle armi.
Qui invece non c'è nessuno scontro, ed è questo il problema: anestetizzati dall'ideologia della pace ad ogni costo ci rifiutiamo di vedere. Le regole sono violate fin dalle origini ma qualcosa è cambiato: anche se fino al momento prima potevamo fingere di non saperlo, vivere nell'incoscienza morale data dall'ignoranza, ora veniamo informati che è così. In questo modo perdiamo la verginità etica e partecipiamo al delitto – al diritto. Ma si sa: durante un suicidio, chi uccide non corrisponde del tutto a chi è ucciso.
L'estetica di House of Cards ricorda quella del Batman di Christopher Nolan: noi spettatori sappiamo benissimo, come il commissario Gordon che si accingere a tenere un discorso pubblico – di nuovo su un palco e noi di nuovo tra il pubblico -, che Batman non è l'assassino di Harvey Dent, bensì è quest'ultimo il responsabile dei crimini che hanno sconvolto la comunità. Nonostante ciò sia limpido e cristallino preferiamo entrambi la menzogna. Optiamo per la narrazione, volta a salvare le leggi promulgate dal procuratore-assassino. Le istituzioni sono corrotte, non c'è spazio per i puri. E allora è meglio la menzogna alla denuncia che significherebbe caos e riorganizzazione.
Anche il vicepresidente Underwood di House of Cards è un assassino, lo sappiamo bene, ma scegliamo di abbassarci, di inginocchiarci e di tornare ad assistere al teatro del potere da un posto che garantisce una migliore visione, godere di una narrazione con standard qualitativi e estetici quasi senza eguali. Ma fino a dove è possibile un'estetica senza etica? Fino a quando riusciremo a sopravvivere nella nostra schizofrenia, nella nostra ambiguità: a perseverare nella non azione?
Siamo ambigui tanto quanto lo sono le parole che pronuncia Underwood, termini che valgono in un senso e nel suo contrario. La democrazia è sopravvalutata da parte di chi crede di avere il potere di dare l'investitura, e soprattutto di mantenere il diritto di ritirala. Non è forse in ciò che consiste in fondo la democrazia: nella possibilità di valutare costantemente il tenutario del potere, il quale si muove sapendo che ogni sua azione sarà oggetto di giudizio e possibile condanna da parte dell'emissario? La democrazia è sopravvalutata da parte del potere che non nutre nessuna fiducia nel corpo elettorale e che nella storia, e ora più che mai, si dimostra incapace di essere all'altezza della sfida.
Le diverse determinazioni dell'esistenza umana costituiscono possibilità che l'uomo può liberamente scegliere e non scegliere, tanto più quelle politiche che pervadono la nostra vita quotidiana, anche se ci sforziamo di essere antipolitici e tentiamo di ridurci a meri consumatori. Nonostante i nostri tentativi, in ogni momento della vita siamo chiamati a scegliere tra possibilità diverse, questa totale apertura verso il possibile costituisce il carattere fondamentale dell’esistenza. Proprio il concetto di esistenza come possibilità sta al centro della filosofia, non a caso definita esistenzialista, di Soren Kierkegaard. Il filosofo danese distingue tre condizioni o possibilità esistenziali fondamentali alle quali dà il nome di stadi, questi possono essere infatti considerati come momenti successivi dello sviluppo individuale, anche se tra l'uno e l'altro non vi è nessuna forma di automatismo, bensì un “salto” che può essere colmato soltanto con la libera scelta del singolo.
L’impressione qui è che siamo tutti congelati al primo stadio, quello estetico.
L’impressione qui è che siamo tutti congelati al primo stadio, quello estetico. Ne è una prova evidente che il termine estetica e il verbo estetizzare permeano quotidianamente la nostra esistenza connaturando il nostro narcisismo di bassa lega composto da una dose crescente di selfie e social. In Kierkegaard lo stadio estetico è incarnato dalla figura del seduttore, che dedica la sua esistenza alla conquista dell'animo femminile per puro piacere della conquista stessa: il personaggio che meglio lo rappresenta è il Don Giovanni di Mozart. La musica infatti è la più sensuale delle arti, poiché in essa l'espressione è immediata. Analogamente il seduttore vive nell'immediatezza: egli non compie mai una scelta definitiva, la sua filosofia è il carpe diem. La sua vita è una successione ininterrotta di istanti indipendenti gli uni dagli altri, l'unica costante nella sua vita è la ricerca del nuovo e il rifiuto della ripetizione, considerata come principio fatale di noia.
Un'altra possibilità di vita estetica è quella di Giovanni il seduttore, protagonista de Il diario del seduttore. In questo caso Kierkegaard descrive, a differenza di Giovanni, un esteta riflesso, in cui prevale la riflessione, il calcolo, il programma. Lo scopo di Giovanni non è più il raggiungimento della passione, ma la consapevolezza dell'arte di sedurre, la capacità di produrre il «capolavoro classico della seduzione». Ma in fondo Kierkegaard rappresenta Giovanni come un uomo corrotto, afferma che il suo è uno stato di malattia, dichiara che la sua è una lucida follia, sottolinea che andrà in contro a un castigo estetico che lo destinerà all'infelicità. Proprio a causa dell'assenza di un punto unificatore dell'esistenza, l'esito finale dello stadio estetico è infatti necessariamente la disperazione, la presa di coscienza dell'assoluta vanità di ogni cosa.
La disperazione può essere però considerata in due modi: come una forma raffinata di divertimento, oppure può spingere a compiere un salto verso un genere di vita superiore, in questo secondo caso il singolo perviene allo stadio etico.
L'impressione è che che come Giovanni anche noi ci troviamo a un bivio: il barcamenarci in una folle disperazione di cui neghiamo lo spazio alla coscienza o la dolorosa presa d'atto del problema e la decisone di scegliere. Rimane il terzo stadio, quello religioso, quello della sospensione dell'etica e delle azioni che non possono essere giudicate e per cui ci rimettiamo solamente a Dio. Quella è un'altra storia, una storia a tratti insanguinata che purtroppo conosciamo bene in questo tempo devastato e vile.
ci troviamo tutti a un bivio: il barcamenarci in una folle disperazione di cui neghiamo lo spazio alla coscienza o la dolorosa presa d'atto del problema e la decisone di scegliere
D - Horror e desiderio reazionario - È più facile immaginare la fine del mondo che la fine della democrazia liberale
L'orrore ci mette di fronte a un dono che non abbiamo richiesto: quello che nella tradizione classica è la vita, oggi per noi è il capitalismo e la sua rappresentazione - la democrazia liberale. Se prima si trattava dell'impossibilità dei vivi di sfuggire alla vita, qui oggi si tratta dell'impossibilità dei cittadini di sfuggire al liberalismo. Come teorizza Thomas Ligotti a proposito del genere horror: se vivere è mentire, allora raccontare la verità sulle bugie della vita sarà una bugia sublimata. Tale bugia è la cosa più vicina alla verità.
Ne La cospirazione contro la razza umana Ligotti ci spinge a riflettere sul tema del dono della vita: qualcosa che non abbiamo richiesto e che tramite un ricatto ideologico ci obbliga alla gratitudine. Un po' come il mondo che abbiamo di fronte. Il problema è l'eccedenza di coscienza, ci si salva limitando la coscienza. La vita è una truffa che se vogliamo continuare a vivere dobbiamo mantenere tale. Qui sta il meccanismo di difesa. Che cosa centra tutto questo con l’estetica nichilista, antidemocratica e ultrareazionaria che caratterizza i nostri tempi? Di certo siamo di fronte a nodo cruciale: le innegabili condizioni materiali di difficoltà sistemica e l'incapacità della politica di gestire la crisi permanente che autogenera per legittimarsi riportano in auge un pensiero reazionario, lo rendono attuale e condiviso, lo alimentano in un circolo vizioso e nichilista. Un manifesto evidente di questo gioco a somma zero è la renaissance attualizzata al ribasso dell'estetica della paura.
Un esempio che ci può aiutare a comprendere come funziona la paura e quali conseguenza abbia sulla stabilità della vita comunitaria ci viene dato dal cinema horror. Storicamente questo genere riemerge con particolare enfasi nei momenti di crisi alimentato dall'ansia collettiva: è stato così per il cinema espressionista tedesco ai tempi di Weimar, decodificato nel seminale Da Caligari a Hitler, un saggio di sociologia del cinema dove Sigrif Kracauer mette in relazione la crisi del primo dopoguerra tedesco e l'estetica del cinema espressionista in cui ravvisa i segni del totalitarismo a venire. Un discorso simile è possibile farlo per la Francia occupata e l'atmosfera di male diffuso che aleggia nei film di quel periodo come nelle pellicole di Henri-Georges Clouzot. Così per la Hollywood del secondo dopoguerra in cui si aggirava l'incubo del maccartismo, per l'Italia degli anni Settanta nei cui anfratti si progettavano golpe e strategie oscure tiravano i fili del potere, e infine nell'immaginario cinematografico degli anni Ottanta quando l'AIDS faceva da controaltare al boom economico della speculazione.
L'analisi di questo prodotto di consumo ci permette quindi di osservare i meccanismi attraverso i quali la paura si dipana all'interno del tessuto sociale, ma anche individuare quale ideologia si nasconde dietro alla forma immagine che ne è il veicolo. Negli ultimi anni il genere horror è stato il veicolo di un'estetica originale che ha ottenuto un discreto successo di pubblico e ha prodotto anche alcuni film degni di essere ricordati.
Prendiamo per esempio The Witch del regista statunitense Robert Eggers. La pellicola, datata 2015, ha avuto un discreto successo di critica e pubblico ed è stata distribuita in Italia nel 2016, anche a seguito del riconoscimento ottenuto al Sundance Film Festival. I protagonisti sono una famiglia di coloni inglesi che nel XVII secolo, forti della loro fede puritana, lottano strenuamente per sopravvivere nelle difficili condizioni che caratterizzano il nuovo mondo. La vicenda si apre con la cacciata della famiglia dalla comunità a causa delle accuse di eresia rivolte nei confronti del capo famiglia. I sette protagonisti - oltre al padre e alla madre, la figlia adolescente, un ragazzo di poco più giovane, un coppia di gemelli e un neonato - si vedono chiudere dietro di loro le porte della comunità e sono costretti ad avventurarsi verso i confini della frontiera e qui stabilirsi in una fattoria. La nuova residenza è una sorta di buco nero da cui è impossibile uscire e che inghiotte ogni possibilità di fuga come in un maelstrom: dietro di loro il passato, l'Inghilterra e la città colonica da cui sono stati cacciati, davanti la foresta, un limes fisico e metafisico oscuro e fitto di rovi di cui non si conosce il contenuto ma se ne intuisce il pericolo.
La vicenda prende una svolta tragica quando il neonato scompare misteriosamente: il padre dà la responsabilità a un lupo, che né lo spettatore né i protagonisti vedono mai, mentre i gemelli affermano che sia stata una strega, la cui presenza è più volte evocata da immagini furtive che penetrano nel buio del bosco.
Il senso di colpa, che ha origine nel puritanesimo dei protagonisti diviene tangibile dopo il tragico evento e spinge i due figli più grandi a comprendere prima, e poi a trovare un rimedio a qualcosa che non riescono ad accettare. È proprio l'incapacità di comprendere il male e di giustificarlo che fa perdere le coordinate inizialmente ai ragazzi e in seguito all'intera famiglia. Il male è inspiegabile agli occhi del figlio che domanda continuamente al padre come Dio possa permettere al neonato innocente di andare all'inferno, in quanto quest’ultimo non era stato ancora battezzato. L'incapacità del padre di rispondere al pesante quesito si trasforma nella considerazione che il peccato originale ha sede nell’arroganza del logos che vuole comprendere il mistero folle di Dio. Occorre allora mettersi all'opera e oltraggiare la regola, attraversare il confine del bosco: ma come dopo ogni attraversamento al ritorno non si è più la stessa cosa. Come nel mito di Platone, colui che si è liberato dalle catene e ha visto la vera natura del mondo non viene creduto e rischia la morte da parte di chi non può ammettere che ci sia una realtà differente da quella in cui si è stati educati. Ma a differenza di Platone l'uscita dal recinto non comporta la scoperta della luce ma la caduta nelle tenebre.
La situazione è più complessa e perversa di quanto le semplici spiegazioni la possano fare apparire. Siamo di fronte a un incubo simile a quello rappresentato nel film – quello della ragazza contaminata.
Proviamo a ribaltare la narrazione nella dimensione politica del presente. Se da una parte si è spinti a pensare che una critica al sistema politico e ai suoi attori, incapaci di affrontare le questioni chiave, siano il segnale di una buona salute dell'opinione pubblica che in questo modo si mostra combattiva, dall'altra si compie l'errore di leggere il crescente disinteresse verso la politica, nel modo tradizionale in cui è inteso il termine come “potere” e “violenza originaria dell’ordine”, coincida con la perdita di interesse verso questa sfera e che di conseguenza nessuno lo voglia o ne faccia uso.
La crisi e l'incapacità dei governi di spegnerne il fuoco diventa l'argomento che alimenta un'ideologia reazionaria giustificata come unica via che contrasti l’esclusione da quella presunta comunità di cui si dovrebbe essere parti per diritto ma che è stata contaminata dal nuovo.
Se da una parte la modernità ha promesso l'emancipazione, tramite la drastica riduzione di regole e sanzioni, dall'altra ha relegato il soggetto tardo moderno in un regime invisibile e apparentemente depoliticizzato. Ciò è stato reso possibile da quella che il sociologo tedesco Hartmut Rosa definisce la “logica dell'accelerazione sociale”. Nonostante la loro evidente attualità, gli studi sull'accelerazione sociale non ricevono particolari attenzioni. Queste ricerche rappresentano invece una delle più interessanti chiavi di lettura per comprendere le dinamiche della res publica e gli ostacoli alla costruzione di una comunità integrata.
Il primo tassello che si mette solitamente in relazione con l'accelerazione sociale è quello relativo allo sviluppo tecnologico. A dispetto della consuetudine, e a seguito di un'analisi più attenta, appare però che la tecnologia non è causa ma conseguenza. Si tratta di una contraddizione strutturale: la tecnologia nasce storicamente per sostituire l'uomo nel lavoro e creare così del “tempo libero”. Come possiamo osservare ogni giorno, nella maggior parte dei casi, la possibilità aperta dalla tecnologia il tempo ce lo “ruba”, mantenendo attiva la connessione a quel mondo sociale-competitivo che a sua volta spinge sul pedale dell'acceleratore.
Ma per quale motivo non interrompiamo questo circolo vizioso? Probabilmente l'origine del meccanismo è più profondo di quanto appaia. In una società secolare le aspirazioni e i desideri si concentrano necessariamente nella vita terrena, e una “esistenza degna” corrisponde a una vita ricca di esperienze: conoscenze, viaggi, pratiche culturali e sportive. L'accelerazione sembra la soluzione che garantisce un continuo rinnovarsi delle esperienze. In questi termini alcuni studiosi arrivano a sostenere che l'accelerazione prende il posto di quella che era la promessa religiosa della vita eterna.
Quello che differenzia radicalmente questa assicurazione secolare è la totale mancanza una visone escatologica. La Storia viene data per finita, l'utopia liberal-democratica-capitalista ci viene narrata come sostanzialmente realizzata, l'unica possibilità è allora quella di una stasi iper accelerata. Di conseguenza il soggetto, manchevole di una teoria che dia senso alla sua esistenza, perde le coordinate e non si sente più a casa nella società in cui vive. Si perde nel turbine della velocità e ne deriva l'impossibilità di inserirsi nella vita sociale, di trovare spazio, di integrarsi. In questo caso Rosa utilizza il concetto di alienazione: la condizione che nasce dal desiderio di un'autonomia che non si può avere ma che viene costantemente ripromessa al costo di essere più performanti e competitivi.
La prima conseguenza di questo sistema è il ridimensionamento della dimensione politica. Il tempo della riflessione che determina la decisione diminuisce per via dei sempre più repentini cambiamenti. La politica perde di vista l'obiettivo di migliorare la vita dei cittadini e si concentra unicamente nel rendere competitivo lo Stato e le riforme sono ridotte a necessari adattamenti. Le cose cambiano ma non si sviluppano e la politica vive un'alternanza senza alternativa.
La perdita di autonomia della sfera politica è in stretta relazione con la drammatica situazione del singolo. Più di un secolo fa, Soren Kierkegaard spiegava come il soggetto condannato alla filosofia del carpe diem senta la necessità di operare una scelta etica che lo liberi dalla condanna di cambiare continuamente pelle. Se, come abbiamo visto, la logica dell'accelerazione sociale impedisce una scelta etica stabile, comprendiamo come la possibilità religiosa venga sempre maggiormente presa in considerazione. Il filosofo danese sottolineava anche il rischio rappresentato dal “salto nel buio” che deve necessariamente compiere il fedele, qualcuno che, deluso dal mondo, risponde ormai unicamente a dio e per cui nessuna regola morale ha più valore, come mostra il caso di Abramo disposto al sacrificio di suo figlio Isacco.
Ad oggi, riteniamo il discorso tanto attuale quanto complesso. La necessità di uno studio attento dell'accelerazione temporale può mostrarsi un tassello fondamentale per comprendere quelle dinamiche sociali – quali il populismo e la radicalizzazione - che fatichiamo a cartografare e di fronte a cui spesso ci sentiamo persi.
E - La storia della democrazia è la storia della sua crisi
Questa è la storia di un loop. Comprenderne le origini ci può permettere di pensare la sua interruzione.
Quella della democrazia è la storia di una ambiguità: sostanziale e formale. Prima dell’elaborazione del concetto moderno di libertà politica — che secondo Guicciardini si realizza quando la legge prevale su chi tenta di violarla — gli antichi consideravano la perdita della libertà soltanto come conseguenza della sottomissione a popoli stranieri. Allo stesso modo, la partecipazione popolare alla designazione del potere era guardata con diffidenza. Nel Libro dei Giudici, contenuto nell'Antico Testamento e che è tradizionalmente collocato tra il VI e il V secolo a. C., si afferma che occorre diffidare del voto popolare in quanto tende a elevare a potere supremo il giudizio dei peggiori, perché i migliori non si degnano di partecipare alla competizione. Si narra qui la vicenda figurata del popolo degli alberi che volendo darsi un re avevano proposto il trono all'olivo, alla vite e al fico ma questi avevano rifiutato in quanto troppo occupati a produrre buoni frutti per l'uomo. La conseguenza fu allora quella di dare il potere al rovo che una volta al vertice del sistema finì per minacciare di appiccare il fuoco a tutte le altre piante se non lo avessero obbedito.
Il cambio di paradigma avvenne nella Grecia del VI secolo e fu formalizzato dalla costituzione di Solone. Il Consiglio dei maggiorenti lasciò il posto all'assemblea dei cittadini domiciliati nel territorio della città alla quale venne dato il potere di approvare le leggi, la nomina dei funzionari e la facoltà diplomatica di firmare trattati di pace e di dichiarare guerra. Durante questa alba gloriosa della democrazia l'assemblea divenne il luogo dove i cittadini si distinguevano e facevano carriera politica grazie al loro ingegno, all'arte oratoria e ai servizi resi alla poleis. La visione idilliaca di questo stato però doveva fare i conti con le disparità sociali che mettevano a rischio il sistema che si fondava sulla certezza che la maggior parte dei cittadini non potesse sperare che il proprio miglioramento sociale passasse attraverso una rivoluzione e una guerra civile. A questo scopo i ricchi formavano delle associazioni segrete di mutuo soccorso, le eterie, attraverso le quali elargivano beni ai bisognosi e allo stesso tempo compravano i voti dei poveri tenendoli fuori dalle cariche pubbliche.
La storia della democrazia è fin dalle origini la storia della sua critica, della sua messa in discussione, della messa in luce della sua oscena nudità. Nel IV secolo Aristofane ne formula una delle sue critiche più spietate. Nei Cavalieri attacca Cleone, un volgare cuoiaio che per un certo periodo ha esercitato una certa influenza sulla città di Atene. Per sconfiggere Cleone, appoggiato dal popolo, i cavalieri protagonisti si rivolgono a un salsicciaio che, più volgare e bugiardo del primo, riesce a sottrarre il favore del popolo a Cleone e a prendere il potere attraverso una pratica democratica.
La questione del potere democratico lo ritroviamo nelle riflessioni dei due maggiori pensatori dell’antichità, Platone e Aristotele. Il primo, nella Politica, mostra che il vero fine di chi guida il popolo è garantire la felicità e la moralità della città, prima ancora della ricchezza e della potenza. Nella Repubblica Platone continua su questa strada sottolineando la necessità che il cittadino sia spogliato di qualunque sentimento egoistico e dimostri di essere disposto a sacrificarsi per la res pubblica. Infine nelle Leggi sottolinea la necessità di fondere il modello monarchico – dove la legittimità del potere viene dall'alto – con quello democratico – dove sorge dal basso. Questa compenetrazione garantirebbe il rispetto della misura, un concetto cardine per tutto il pensiero antico, in particolare per quanto riguarda l'amministrazione e la politica.
È nota la definizione secondo cui, per Aristotele, l'uomo è un animale politico. Con queste parole il filosofo intende sostenere che la perfezione di cui la natura ha dotato l'uomo è raggiungibile solamente attraverso la costituzione della società: l'uomo isolato dovrebbe essere un dio per conservare le sue qualità, non essendo tale regredirebbe necessariamente a uno stato bestiale.
Per Aristotele la condizione che garantisce una vita sociale produttiva risiede nella proprietà privata – che Platone, al contrario, mirava ad abolire, seppur non integralmente – poiché essa assicura beneficio ai singoli e, di riflesso, alla collettività. L'unica forma condannata è la speculazione dove l'arricchimento del singolo non giova alla collettività. Ancora in disaccordo con Platone, Aristotele giustifica la schiavitù in quanto la natura ha creato delle differenze qualitative – non tutti sono forti o intelligenti allo stesso modo – e queste vanno accettate e rispettate.
Rispetto alla democrazia popolare Aristotele mostra i suoi dubbi: in particolare giudica fanciullesco il metodo utilizzato dai cretesi per eleggere i magistrati e che avveniva in base alla quantità di applausi che suscitava nella folla il nome dei candidati. In breve, secondo Aristotele, e in questo il filosofo concorda con molte delle posizioni sostenute dalla scienza politica del suo tempo, il governante non va giudicato in base al modo attraverso cui raggiunge il potere ma in base all'utilizzo che ne fa: buono se indirizzato ai più, cattivo se semplicemente votato al proprio tornaconto.
Dopo secoli di trasformazioni, la riflessione sulla democrazia si sposta ben oltre le categorie dell’antichità. Tra età moderna e contemporanea, le nuove dinamiche economiche, sociali e culturali ridefiniscono radicalmente il rapporto tra individuo e potere politico, aprendo scenari inediti e complessi. Lo sviluppo seguito alla seconda rivoluzione industriale modifica alla radice il rapporto tra Stato e cittadino e produce insanabili contraddizioni sistemiche.
Così il Novecento è il secolo della democrazia ma anche quello dei totalitarismi. Questo radicale contrasto è spiegabile attraverso lo sviluppo e della società di massa da una parte e il declino delle strutture politico-statali e giuridico-filosofiche ottocentesche dall'altra. L'interazione di questi fattori ha contribuito all'affermazione della democrazia parlamentare ma allo stesso tempo ne ha reso fragili le fondamenta, non ancora sostenute da una coscienza politica in grado di reggere l'urto del cambio di paradigma succeduto al primo conflitto mondiale e alla rivoluzione russa. In termini filosofici, è venuto meno un apparato concettuale che permettesse di riflettere sull'agire politico in rapporto alla partecipazione di massa.
La società di massa nasce nella Parigi di fine Ottocento, quella che Walter Benjamin definisce la «capitale del XIX secolo», luogo simbolo di quel diffuso senso di ottimismo ed euforia che portò ad autoproclamare il proprio tempo belle époque. Il termine fa riferimento al diffondersi, soprattutto all'interno dell'emergente classe borghese, di un clima di spensieratezza e fiducia nel progresso tecnico e industriale e che coincide con la crisi dei valori ottocenteschi e con la ricerca di una nuova identità. Alla base della ripresa economica e di questo diffuso ottimismo c’è soprattutto il consolidarsi del consumo, una novità resa possibile dalla grande produzione industriale, dall'aumento dei salari e dal ricorso alla pubblicità come strumento nuovo per stimolare la crescita dei consumi nella crescente classe media. La belle époque nasconde però un lato oscuro: il benessere si basa infatti sullo sfruttamento del lavoro, sia nelle fabbriche continentali che nelle colonie extraeuropee: un modello di produzione che viene propagandato attraverso un'ideologia patriottica e intollerante nei confronti di proletari, stranieri e minoranze etniche. Questa ideologia sta alla base di quel complesso fenomeno che prende il nome di imperialismo e che sarà una delle principali cause della prima guerra mondiale.
Alla fine del conflitto, nel 1918, nulla sarà più come prima. Gli anni di guerra distruggono il sistema economico e produttivo europeo gettando il continente in clima di profonda crisi e denudando il mito di un progresso fatto di pace e prosperità. Una crisi profonda travolge tanto i vinti, umiliati dagli accordi di pace di Versailles e impossibilitati alla ripresa economica a causa delle spese di riparazione, quanto alcuni paesi vincitori – nel caso dell'Italia si parla di una “vittoria mutilata”.
Dal punto di vista strettamente istituzionale gli sconvolgimenti che seguono la Prima guerra mondiale appaiono epocali già da un singolo dato: se prima del conflitto le repubbliche in Europa erano tre alla fine, nel 1918, sono ben tredici. Il crollo e lo smembramento degli imperi di Russia, Austria-Ungheria, Germania e Turchia e gli accordi di pace di Parigi coincidono con l'affermazione della democrazia parlamentare in tutta Europa.
Tutto questo però ha breve durata: da un lato la Rivoluzione russa e lo spettro comunista, dall’altro la crisi economica seguita al crollo americano, portano gli stati europei, casi a parte quelli settentrionali, a un lento quanto inesorabile spostamento a destra, che presagisce l'avvento di una serie di dittature di stampo fascista. Già dalla metà degli anni Venti alcuni illustri studiosi parlano apertamente di «crisi della democrazia europea» mettendo in dubbio che questo sia il sistema politico più adatto al continente.
Il problema nasce a monte, nella stesura delle costituzioni su cui si fondano i nuovi stati nati a seguito del conflitto. Queste si ispirano alle carte fondamentali del liberalismo francese, americano e inglese che oltre a essere frutto di un paradigma storico differente, l'illuminismo settecentesco, fanno capo al desiderio di subordinare la politica al diritto, razionalizzando il potere e cercando una perfezione formale che non tiene conto di istanze reali quali la crisi economica, i conflitti sociali e le conseguenze dei trattati di pace siglati a Parigi.
Le nuove costituzioni si fondano sui concetti di democrazia, di nazione e di repubblica mostrando una forte sfiducia nei confronti dell'esecutivo e concentrando il potere sull'organo legislativo, il parlamento. Dopo la Prima guerra mondiale, soprattutto con l’introduzione dei sistemi elettorali proporzionali, il parlamento diventa il terreno di crescita delle tensioni sociali ed economiche. La sua struttura frammentata riproduce al suo interno divisioni di classe, etniche e religiose, difficilmente conciliabili con l’idea di una nazione unitaria. In questo contesto i partiti politici invece di agire nell'interesse del paese e del bene comune, diventano sempre più intermediari dei vari interessi di parte: sono infatti soprattutto votati allo scontro e all’esclusione del dialogo, perciò minano le fondamenta teoriche del liberalismo e del parlamentarismo su cui si basano le costituzioni. In questo senso alcuni studiosi parlano apertamente di crisi del sistema parlamentare e sostengono la necessità di rafforzare l'esecutivo per uscire dallo stallo.
Questa necessità è motivata dall'impossibilità di formare governi duraturi, che nel periodo in questione avevano una vita media che non superava l'anno. La situazione è strutturalmente insostenibile: da una parte i democratici liberali cercano di indebolire il potere esecutivo per tutelare la democrazia; dall'altra i costituzionalisti ritengono che l'esecutivo, dotato di poteri speciali, debba assumersi il compito di salvare la democrazia da un parlamento inadatto al suo ruolo.
In questo senso il fallimento della democrazia parlamentare è stato prima di tutto il fallimento del liberalismo: i liberali russi non sono stati in grado di gestire la rivoluzione, nonostante i bolscevichi fossero inizialmente in minoranza e tutto sommato favorevoli a un governo borghese, necessario, secondo le linee guida del materialismo storico marxiano, a preparare il terreno per la società senza classi. Allo stesso modo hanno fallito i liberali italiani ritenendo che bastasse dare diritti costituzionali e libertà individuali per risolvere il malcontento popolare causato dalla crisi economica, invece di puntare su una riforma agraria che avrebbe scontentato la loro base elettorale. Il fallimento della democrazia parlamentare ha coinciso poi con il fallimento della borghesia, vista soprattutto come la principale responsabile di un individualismo controproducente al bene della nazione. Va così letta la ricomposizione della frattura fra sfera pubblica e privata soppiantata da una politica totalitaria che andrà a riempire ogni ambito della vita del cittadino.
Ma il fallimento della democrazia è stato in sostanza il fallimento di una certa concezione della politica: dopo il 1918 la democrazia europea è stata puntellata da una serie di forze che hanno gradualmente perso potere e di conseguenza autorità. Mentre gli Stati Uniti si ritirano nella dottrina isolazionistica del presidente Harding – che pensa a sviluppare le capacità economiche e il mercato interno piuttosto farsi coinvolgere dai problemi europei –, Francia e Gran Bretagna, vedono un pericolo maggiore nel diffondersi del comunismo che nelle nascenti dittature. Nessuno ha compreso a pieno che la crisi della democrazia europea avrebbe condotto all'abbandono dei criteri di ordine e di pace seguiti ai trattati di Parigi. Questo nesso non è stato colto forse perché la democrazia europea non è stata la conquista di un cosciente percorso storico, ma un “regalo” di Versailles, più esplicitamente un'imposizione, dei vincitori ai vinti. Diviene allora chiaro per quale motivo sia stato così facile abbatterne la struttura: pochi erano disposti a combattere in nome di qualcosa che non avevano scelto. Un albero, seppur rigoglioso, necessita di solide radici, tanto più in periodo tempestoso come quello degli anni Venti e Trenta. L'assenza di queste radici spiega meglio di ogni altra metafora la facilità con cui i regimi dittatoriali si sono sostituiti alla democrazia liberale con così poche proteste. Di fronte a questi complessi fatti storici, alcuni illustri filosofi hanno sentito la necessità di ripensare le categorie dell'agire politico, comprendere gli errori del passato e costruire un futuro di pace.
Cento anni dopo l'ideologia prodotta dalla postdemocrazia giustifica il circolo vizioso della crisi perpetua. Il populismo è il desiderio di riconquista della dimensione politica attraverso la distruzione del modello democratico. Non voler comprendere queste istanze e pensare di liquidare la questione con l’uso arrogante di una democrazia ridotta a ideologia del liberismo non può che riprodurre il loop disastroso che ha caratterizzato la storia di cui sopra.