Non è il ritmo della produzione, ma il ritmo della simulazione a scandire il tempo della nostra epoca. Tutto ciò che un tempo era prassi, ora si traveste da rappresentazione; ciò che era metodo, diviene rito. Le metodologie nate con intento liberatorio, sorte come antidoti all’ingessatura dei processi, sono oggi recitate come formule magiche da chi ne ha dimenticato il senso. Ecco allora che l’agile, nato per sfidare l’inflessibilità, è divenuto forma irrigidita, gesto replicato senza comprensione, manifesto ormai fossilizzato in codici operativi che escludono ogni dialettica.
Là dove si volevano liberare le persone dai lacci dell’apparato, si è invece creato un nuovo apparato. Uno che non impone, ma seduce. Uno che non disciplina, ma lusinga. E nella lusinga si cela la coercizione più sottile: la performance che si sostituisce al significato, il vocabolario che ruba il pensiero, la velocità che corrode la profondità.
La trasformazione avviene nel linguaggio prima ancora che nelle strutture. Quando un progetto non è più tale, ma diventa una roadmap da allineare; quando non si collabora più, ma si fa un sync cross-funzionale; quando il tempo per pensare viene sostituito dal tempo per “deliverare”, allora non siamo più in presenza di strumenti, ma di sintomi. Sintomi di una mutazione epistemologica: dal dire al recitare, dal fare al mostrare, dal comprendere al contabilizzare.
Vi è una parola che ritorna ossessivamente in questo contesto, parola antica e desueta: vanità. Non nel senso moralistico di un peccato, ma in quello più ontologico di vuoto apparente che si espone come pieno. La vanità linguistica che domina il lessico del lavoro contemporaneo non è un semplice abuso stilistico. È lo specchio di una perdita più profonda, quella del legame tra segno e referente, tra parola e mondo. E quando la parola non indica più, non connette più, non illumina più, essa si fa idolo. Il linguaggio smette di servire il pensiero, e inizia a servire se stesso.
Il risultato è una cultura della messa in scena. Le riunioni si svolgono come coreografie, i ruoli si cristallizzano in etichette: coach, master, owner. La funzione viene consumata nel titolo, il sapere nella certificazione, la competenza nell’apparenza. Ci si aggira per gli uffici – o, più frequentemente, nelle piattaforme digitali – come attori su un palcoscenico che muta continuamente scenografia ma ripete lo stesso copione.
Questa deriva non è un effetto collaterale. È il cuore pulsante della logica ipertecnologica che ci avvolge. In un sistema dove l’efficienza è valore supremo, ogni forma di riflessione che non si traduca immediatamente in esito misurabile viene scartata come perdita di tempo. Ma è proprio l’inutile a custodire il seme dell’umano. L’inutile inteso come lo spazio della domanda senza risposta, della pausa che precede la decisione, della parola detta non per convincere, ma per comprendere.
Ciò che si osserva non è dunque un semplice malinteso metodologico, ma una più vasta crisi della possibilità stessa del pensare. La riflessione – per sua natura lenta, ambigua, contraddittoria – è incompatibile con il tempo accelerato della connessione permanente. Dove tutto deve essere risolto in tempo reale, nulla può essere pensato in tempo profondo. Il sapere viene compresso in informazione, l’informazione in dato, il dato in impulso. E l’impulso, per definizione, non ragiona.
In tale scenario, l’educazione non è più trasmissione di sapere, ma addestramento all’utilità. L’apprendimento si frammenta in moduli, in percorsi adattivi, in tutorial. Si impara ciò che serve, mai ciò che trasforma. Il pensiero viene derubricato a soft skill. La curiosità è tollerata solo se canalizzabile in risultato.
Anche la ribellione è stata addomesticata. Le pratiche nate come deviazioni creative – l’agile, il design thinking, la disobbedienza gentile – vengono assorbite, pacchettizzate, rivendute. Nulla di ciò che sfida il sistema rimane tale per molto. Viene subito tradotto in linguaggio accettabile, in pratica conforme, in slide da presentare.
E tuttavia, non tutto è perduto. Esiste ancora una possibilità: la disobbedienza intellettuale. Non urlata, non eroica, ma minuta e ostinata. Una disobbedienza che inizia col parlare diversamente. Col rifiutarsi di usare parole vuote. Col chiedere, in mezzo a una riunione, che cosa si intenda davvero per “alignment strategico”. E nel silenzio imbarazzato che ne seguirà, forse, si aprirà uno spiraglio di verità.
Pensare è oggi l’atto più sovversivo. Non perché produca rivoluzioni, ma perché resiste all’oblio. Resiste all’omologazione, alla velocità, alla semplificazione. Pensare non è decidere rapidamente: è indugiare, è ritornare sulle cose, è dubitare. E solo chi dubita può ancora comprendere.
Non vi è bisogno di nuovi metodi. Vi è bisogno di un nuovo sguardo. Di un modo di abitare i metodi, i linguaggi, i processi, senza lasciarsene possedere. Come accade nei saperi antichi, quelli che insegnano non a dominare il mondo, ma a decifrarlo. È lì, in quella postura interiore, che forse può rinascere l’agile come era stato pensato: non uno schema da seguire, ma un’arte da esercitare.
Un’arte fatta di ascolto, di equilibrio, di dubbio. Un’arte che non si insegna nei bootcamp, ma si coltiva nel tempo lento della consapevolezza.
Nel tempo, appunto, del pensiero.
Bibliografia essenziale con URL
1. Jean Baudrillard – Simulacres et Simulation
Un testo chiave per comprendere come i segni abbiano sostituito la realtà e dato origine a un mondo simulato, dove la rappresentazione ha preso il posto della prassi. Il cuore concettuale dell’articolo è qui.
• Edizione originale: Éditions Galilée, 1981
• ISBN: 2-7186-0210-4
• Edizione inglese: Simulacra and Simulation, University of Michigan Press, 1994
• ISBN: 978-0-472-06521-9
• URL (edizione inglese)
2. Byung-Chul Han – La società della trasparenza
Han analizza una forma di controllo più sottile e pervasiva, che passa attraverso la seduzione e l’eccesso di positività. Un saggio che spiega perché oggi non si impone, ma si lusinga — e quindi si domina più a fondo.
• Editore: nottetempo, 2014 (titolo originale: Transparenzgesellschaft, 2012)
• ISBN: 978-88-7452-505-8
• URL
3. Ivan Illich – Descolarizzare la società. Una società senza scuola è possibile?
Questo testo profetico estende le sue intuizioni al mondo del lavoro: quando l’apprendimento si riduce a modulo, e il pensiero a competenza monetizzabile, anche la ribellione viene neutralizzata.
• Editore: Mimesis Edizioni, 2019
• ISBN: 978-88-575-5632-1
• URL
4. David Graeber – Bullshit Jobs: A Theory
Una teoria dissacrante e documentata sui “lavori senza senso” che popolano il mondo post-industriale. Il libro aiuta a comprendere come l’apparenza e la ritualità abbiano preso il sopravvento sull’utilità reale.
• Editore: Simon & Schuster, 2018
• ISBN: 978-1-5011-4331-1
• URL (sito dell’editore)