"Etiam capillus unus habet umbram suam" – anche un singolo capello proietta la sua ombra.
Questo mio principio epistemologico, che applico anche negli articoli per la Stultifera Navis, assume significato particolare quando si riflette sulla propria presenza digitale: anche le scelte apparentemente minori rivelano strutture di potere più ampie, connessioni nascoste tra libertà individuale e controllo sistemico.
Ieri ho chiuso definitivamente il mio account su un importante social network professionale dopo ventidue anni. L'esito necessario di un processo di erosione progressiva della possibilità stessa di dialogo autentico. Sei blocchi temporanei in dodici mesi, ciascuno con richieste di identificazione sempre più invasive: video-registrazioni del volto, documenti d'identità validi, prove della mia umanità fornite a un sistema algoritmico che continuava a classificare il mio comportamento come "sospetto" e "assimilabile a un bot".
L'ultimo episodio ha reso manifesta l'insostenibilità. Dopo aver fornito nella mattinata tutti i documenti richiesti, la sera stessa l'account è stato nuovamente sospeso. Il ciclo kafkiano invariato: blocco improvviso, procedura di verifica umiliante, ripristino temporaneo, nuovo blocco. La logica del processo, per usare le parole di Kafka, si rivela nella sua essenza: perpetuare il processo stesso come forma di controllo.
I primi blocchi ad aprile, dopo post a sostegno della Palestina e contro il genocidio perpetrato da Israele. Qualche mese prima Facebook aveva chiuso senza spiegazioni il mio profilo per gli stessi motivi. Un pattern chiaro: le piattaforme censurano attraverso l'opacità algoritmica, l'accusa tecnica che maschera il giudizio politico.
Ho quindi deciso di interrompere questo gioco. Non aspetto il settimo blocco, non concedo a nessun sistema di decidere per me quando e come posso esprimermi. In questo gesto apparentemente marginale si condensa una questione filosofica più ampia: la possibilità di sottrarsi, il diritto alla defezione come forma di resistenza quando il dialogo diventa impossibile.
Michel Foucault ci ha insegnato che il potere si manifesta attraverso la produzione di soggettività, la modulazione dei comportamenti, l'interiorizzazione delle norme. Le piattaforme digitali rappresentano l'evoluzione contemporanea di questa logica: il controllo si presenta come ottimizzazione, la censura come cura dell'ecosistema informativo.
La pressione algoritmica crescente sui social network riflette una metamorfosi strutturale del capitalismo contemporaneo. Le corporations che un tempo costituivano l'agens della produzione di valore – loci dove capitale fisso e forza lavoro convergevano nella generazione di surplus – si sono trasformate in dispositivi di estrazione rendita-finanziaria. Il fenomeno che gli economisti politici definiscono financialization ha ridisegnato radicalmente l'allocazione del capitale: flussi ingenti di liquidità vengono sistematicamente dirottati dall'economia reale verso l'universo speculativo dei mercati finanziari.
La finanza speculativa opera secondo una logica autoreferenziale: costruisce derivatives su derivatives, stratifica scommesse su scommesse in una progressione che gli anglosassoni chiamerebbero infinite regress, perdendo progressivamente ogni ancoraggio con l'economia materiale dove si producono beni tangibili e si genera occupazione. È il trionfo di quello che Thorstein Veblen, all'inizio del Novecento, definiva absentee ownership: la proprietà assente, disincarnata, che estrae ricchezza senza partecipare alla produzione.
I social network incarnano perfettamente questa logica estrattiva. Le piattaforme professionali si presentano come spazi di networking e opportunità lavorative. Nella maggior parte dei casi gli annunci rimandano a siti specializzati o direttamente ai siti delle aziende. Estraggono dati dai comportamenti degli utenti mentre questi cercano lavoro altrove. Trovare lavoro attraverso queste piattaforme è, nella pratica, un eufemismo. Il loro successo deriva dalla costruzione di un monopolio sulla rappresentazione digitale dell'identità professionale, costringendo milioni di persone a mantenere una presenza "per non restare fuori".
Il data harvesting – la mietitura sistematica dei dati comportamentali – costituisce lo strumento primario di quello che potremmo definire workforce discipline: la disciplina della forza lavoro. L'accumulazione di informazioni granulari sulle attività, preferenze, relazioni, movimenti degli individui permette di costruire architetture predittive che modulano l'offerta di lavoro, comprimono le aspettative salariali, mantengono costantemente depresso il labour cost. Le piattaforme digitali operano come panopticon diffusi: raccolgono dati su ogni nostra azione, costruiscono profili predittivi, modulano la nostra visibilità secondo criteri opachi ma perfettamente funzionali agli interessi del capitale finanziario che le possiede.
Solo dopo aver chiuso l'account mi sono reso conto: circa dieci ore alla settimana, passate a scorrere contenuti che nel novantanove percento dei casi cancellavo immediatamente. Dieci ore settimanali significano oltre cinquecento ore all'anno. Un mese intero della mia vita, ogni anno, dedicato a una piattaforma che non mi restituiva nulla di proporzionato. Stavo dissipando tempo in un flusso continuo di contenuti irrilevanti. Byung-Chul Han parla di "società della stanchezza": siamo soggetti a un potere che ci spinge all'auto-sfruttamento. I social network ci convincono che stiamo "costruendo relazioni professionali" mentre produciamo dati e generiamo valore per qualcun altro.
Quelle dieci ore adesso posso dedicarle alla lettura di testi che mi appassionano – astronomia, archeoastronomia, scienze cognitive – all'approfondimento filosofico, alla scrittura, alla riflessione, al lavoro sulla Stultifera Navis. Posso trasformarle da chronos estratto e monetizzato in kairos, tempo qualitativo della scelta e del pensiero. Questa è resistenza ontologica: rivendicare la proprietà del proprio tempo contro la logica estrattiva che domina il capitalismo delle piattaforme.
Ho svolto negli anni più di duecento consulenze in contesti industriali complessi, gestendo governance, reporting e operazioni Jira ecosistemiche attraverso team multipli. Questa esperienza mi ha reso particolarmente sensibile a una dinamica che attraversa tanto il mondo del lavoro quanto le piattaforme digitali: la progressiva riduzione dell'autonomia decisionale attraverso regole di compliance imposte dall'esterno.
Nel lavoro quotidiano osservo come l'autonomia dei manager sia sempre più condizionata da vincoli, controlli, standard di riferimento che rispondono alla logica dell'estrazione imposta dalla finanza speculativa. I compliance frameworks – quegli insiemi normativi che pretendono di garantire trasparenza e accountability – si rivelano spesso dispositivi di controllo che subordinano l'azione manageriale a imperativi estranei alla logica produttiva. Non puoi più gestire un'organizzazione basandoti sulle opportunità tecnologiche disponibili, sulle aspettative dei clienti, sulle competenze delle persone. Devi sottostare a regole funzionali all'estrazione del valore per chi la possiede.
La stessa logica opera sui social network. Ti impongono: "Rispetta questi standard opachi, comportati secondo questi pattern prevedibili, altrimenti sarai identificato come anomalia". Conta che tu generi dati estraibili, che tu produca engagement monetizzabile, che tu ti conformi. C'è un disagio profondo in questa condizione. Un disagio etico. Essere costretti a giocare contro ciò che si sa essere giusto. Sapere che la presenza umana, il dialogo autentico, il pensiero critico danno senso alle organizzazioni – che siano imprese o piattaforme digitali – ed essere costretti a servire logiche che sistematicamente li sviliscono.
La piattaforma mi ha accusato ripetutamente di utilizzare software per automatizzare l'uso. L'accusa è falsa: non ho mai usato alcun tipo di automazione. Eppure il sistema continuava a identificarmi come utente anomalo. Secondo analisi recenti del settore, già oggi tra il cinquanta e il sessanta percento dei post sulle piattaforme professionali viene generato con strumenti di intelligenza artificiale. Sono invase da contenuti automatizzati. Eppure il sistema si accanisce contro utenti che non usano alcuna automazione.
La spiegazione richiama la distinzione foucaultiana tra norma e normalità. L'algoritmo identifica la deviazione dai pattern di comportamento considerati ottimali per gli obiettivi commerciali. La norma è "comportarsi in modo prevedibile e monetizzabile". L'accusa di automazione diventa un significante vuoto, un pretesto tecnico che maschera un giudizio politico. È ciò che Paul Virilio chiamava "amministrazione della paura": il sospetto permanente come forma di governo, la minaccia sempre presente come strumento di normalizzazione.
Qui emerge una connessione inquietante con il ruolo dell'Intelligenza Artificiale nel capitalismo contemporaneo. L'AI costituisce l'orizzonte tecnologico verso cui convergono gli investimenti più massicci del capitale finanziario. Le narrazioni dominanti descrivono un futuro in cui i sistemi algoritmici sostituiranno progressivamente ogni forma di labour umano nell'arco di due o tre decenni. Queste previsioni sono probabilmente esagerate nei tempi e semplificate nelle modalità. Tuttavia operano efficacemente come Damocles sword – spada di Damocle – sospesa permanentemente sul capo di ogni lavoratore. L'AI funziona come dispositivo di labour discipline: mantiene la forza lavoro in stato di precarietà psicologica permanente, comunica incessantemente il messaggio della sostituibilità, comprime le aspettative retributive attraverso la minaccia dell'obsolescenza.
Sui social network questa logica opera in modo sottile. L'accusa di essere un bot è messaggio simbolico: sei sostituibile, il tuo contributo umano non è necessario, possiamo fare a meno di te.
Albert Hirschman ha identificato tre modalità fondamentali di risposta quando un sistema inizia a deteriorarsi: l'uscita (exit), la voce critica dall'interno (voice), o la lealtà che accetta il declino (loyalty).
La prima strategia è quella del misuse deliberato. Jon Ippolito e le pratiche situazioniste di détournement sostengono che la creatività autentica risiede nella riappropriazione critica dei dispositivi. Michel de Certeau parlava di "tattiche" del debole contro le "strategie" del forte. In pratica: sfruttare le debolezze dell'algoritmo, operare tatticamente negli spazi meno presidiati della piattaforma.
La seconda strategia è quella del disinteresse deliberato verso le logiche algoritmiche. Sforzarsi di capire l'algoritmo per aggirarlo comporta il rischio di adattarsi inconsapevolmente alle sue premesse. È ciò che Adorno e Horkheimer chiamavano "dialettica dell'illuminismo": il tentativo di dominare razionalmente il sistema finisce per renderci simili al sistema stesso. Meglio seguire le proprie intuizioni umane, anche se questo comporta pagare un prezzo in termini di visibilità.
La terza strategia è quella che ho scelto: l'uscita definitiva, l'exit hirschmaniano. Hirschman osservava che l'exit può essere più efficace della voice quando le istituzioni sono irrecuperabili, quando il dialogo è diventato impossibile. L'uscita diventa allora testimonianza: la dimostrazione vivente che alternative sono possibili, che il sistema non è totale.
Il problema si estende a tutte le piattaforme contemporanee, rivelando l'epoca della "mobilitazione totale" digitale. Internet è sempre più sorvegliata attraverso quella che Gilles Deleuze chiamava "società del controllo": un potere che modula, che opera attraverso la gestione continua dei flussi. Viviamo ciò che Shoshana Zuboff ha definito "capitalismo della sorveglianza": un sistema economico basato sull'estrazione unilaterale e la mercificazione dei dati comportamentali. Le promesse originarie di Internet come spazio di democratizzazione si sono progressivamente erose.
Piattaforme come Substack o Medium offrono oggi maggiore autonomia. Rimangono però soggette alle stesse pressioni economiche. Cory Doctorow chiama "enshittification" il progressivo deterioramento delle piattaforme digitali: prima seducono gli utenti, poi li tradiscono per favorire gli inserzionisti, poi tradiscono anche gli inserzionisti per estrarre il massimo valore per gli azionisti. Gli spazi autenticamente indipendenti nel web contemporaneo possono essere soltanto temporanei. Questo richiede consapevolezza: non affidarsi mai completamente a una singola piattaforma, mantenere sempre la proprietà dei propri contenuti, accettare la precarietà come condizione strutturale.
La Stultifera Navis, l'iniziativa editoriale transdisciplinare di cui faccio parte, rappresenta un tentativo in questa direzione. Il nome richiama la tradizione medievale riletta da Foucault come metafora dell'esclusione e della marginalità produttiva. La nostra nave è spazio scelto di navigazione intellettuale, attraversamento critico dei saperi, rifiuto delle specializzazioni disciplinari che frammentano la comprensione del reale. La Nave è spazio dove è possibile rallentare – pratica radicale in un'epoca di accelerazione compulsiva. Dove esercitare quella che Hannah Arendt chiamava "vita activa" come azione politica e pensiero condiviso. Spazio consapevole della propria precarietà ontologica, determinato a esistere secondo i propri principi, praticando quella che Foucault chiamava "cura di sé".
Dopo ventidue anni, ho scelto di andarmene alle mie condizioni. Pratica di quella che i greci chiamavano prohairesis, la scelta deliberata che costituisce il nucleo della libertà umana secondo gli stoici. La coerenza intellettuale si paga. Spinoza, rifiutando la cattedra all'Università di Heidelberg per mantenere la propria indipendenza, scelse di levigare lenti piuttosto che compromettere il proprio pensiero. È l'unico modo per costruire qualcosa che sia tentativo di prefigurazione di altre possibilità.
I sistemi complessi non sono mai definitivi – lezione di Edgar Morin. Il livello crescente di criticità apre spazi di biforcazione, momenti in cui piccole azioni possono avere grandi conseguenze. È quella che Deleuze e Guattari chiamavano "linea di fuga": creazione di nuove possibilità, apertura di spazi altri, sottrazione produttiva che costruisce alternative praticabili.
Dopo ventidue anni, posso finalmente decidere dove e come investire il mio tempo. Questa possibilità di scelta, per quanto precaria, vale infinitamente di più di qualsiasi visibilità su una piattaforma che è diventata strumento di controllo e monetizzazione. La filosofia antica insegnava che la libertà è capacità di scegliere quali vincoli accettare. Ho scelto di accettare solo i vincoli che riconosco come miei, che rispondono ai miei criteri di senso, che servono progetti in cui credo. Ho scelto di investire il mio tempo nella lettura, nello studio, nella riflessione critica, nella costruzione di spazi editoriali indipendenti come la Stultifera Navis. Ho scelto la mia forma di libertà, per quanto precaria e temporanea, contro la sicurezza illusoria di una visibilità controllata e monetizzata.