Per secoli, l'"Europa" è stata poco più di un campo di battaglia di ambizioni egoistiche: imperi sono sorti e caduti, la colonizzazione ha imposto un costo brutale a milioni di persone, la nostra decantata "missione civilizzatrice" si è dissolta in cenere e vergogna. La gloria era inseparabile dalla violenza. Solo nello specchio infranto del 1945 si rischiò finalmente una risposta diversa: non la sottomissione per conquista, ma un patto di mutuo salvataggio. Dalle rovine abbiamo costruito una casa comune, non per cancellare le differenze, ma per proteggerle. Eppure rimane una casa costruita a metà, incompiuta dal punto di vista del progetto, che richiede, sempre, che scegliamo di ricostruirla di nuovo.
Questa scelta è ora urgente. La guerra ancora una volta segna i nostri confini. Demagoghi e oligarchi rosicchiano i nostri fragili legami. Le nostre economie ristagnano, la nostra energia è armata, la nostra fede nella democrazia vacilla. Si è tentati di ritirarsi nelle zone di comfort nazionali o di nutrire vecchi rancori. Ma l'Europa non è mai stata una questione di comfort. Si trattava di forgiare una civiltà in cui la dignità umana potesse essere istituzionalizzata, in cui la legge avrebbe limitato il potere e in cui la libertà non fosse un dono, ma un obbligo quotidiano.
Questo non è il vangelo americano della libertà individuale illimitata, né l'ossessione della Cina per l'armonia controllata dallo Stato. La civiltà europea, quando è degna di orgoglio, si forgia nel rifiuto: il rifiuto di arrendersi ai nostri peggiori istinti, il rifiuto di accettare un mondo dominato da vecchi uomini bianchi, il rifiuto di tradire la speranza di giustizia universale che la nostra sofferenza si è così amaramente guadagnata. Essere europei non significa avere un passaporto, ma portare sulle spalle il peso della memoria – dei crimini e del coraggio – e rispondere alla domanda della storia: aiuterai a costruire un mondo migliore, o ti allontanerai, ancora una volta?
La natura incompiuta dell'Europa non è un fallimento, ma una vocazione. Ogni crisi ci chiama a rinnovarci, non a ritirarci. Come avvertiva Jacques Delors: "Solidarietà o morte". La nostra scelta plasma non solo l'Europa, ma l'umanità.
Non si tratta né di un'eredità sentimentale né di un'arroganza morale, ma di un atto vivente del carattere. La nostra sussidiarietà non è mero decentramento: è la disciplina per elevare ciò che c'è di buono l'uno nell'altro, per forgiare istituzioni degne di fiducia, per creare comunità che fioriscano veramente. La nostra diversità non è debolezza, è la prova che l'unità non deve necessariamente richiedere uniformità.
Guidare significa scegliere, non perché sia facile, ma perché è importante. Il nostro non deve essere un progetto per un'Europa migliore, ma un'Europa per un mondo migliore. L'orgoglio per l'Europa non deve mai diventare arroganza, ma vigilanza: il coraggio di attenersi alle norme che il passato richiede; lottare per la giustizia, la pace e la libertà positiva; insistere sul fatto che essere "europei" non è mai solo un'etichetta, ma una cittadinanza con le maniche rimboccate, un impegno a costruire una società che non lasci indietro nessuno.
Ma l'Europa sarà ciò che sceglieremo, niente di più, niente di meno. La vera questione non è che cosa sia l'Europa, né che cosa sia stata, ma se abbiamo il coraggio di realizzare il suo futuro.
La risposta inizia da noi
Origial English version
Being European is a choice
Europe isn't just a geography—it's a commitment we make.
For centuries, "Europe" was little more than a battlefield of selfish ambitions—empires rose and fell, colonisation exacted a brutal cost on millions, our vaunted “civilising mission” dissolved into ash and shame. Glory was inseparable from violence. Only in the shattered mirror of 1945 did we finally risk a different answer: not submission by conquest, but a pact of mutual rescue. From ruins we built a common house—not to erase difference, but to shelter it. Yet it remains a half-built house, unfinished by design, demanding, always, that we choose to build it anew.
That choice is now urgent. War once again scars our borders. Demagogues and oligarchs gnaw at our fragile bonds. Our economies stagnate, our energy is weaponised, our faith in democracy wavers. It is tempting to retreat into national comfort zones, or nurse old grievances. But Europe was never about comfort. It was about forging a civilisation where human dignity could be institutionalised, where law would restrain power, and where freedom was not a gift, but a daily obligation.
This is not the American gospel of boundless individual liberty, nor China’s obsession of state-controlled harmony. European civilisation, when worthy of pride, is forged in refusal: refusal to surrender to our worst instincts, refusal to accept a world dominated by old white men, refusal to betray the hope for universal justice that our suffering has so bitterly earned. To be European is not to carry a passport, but to shoulder the weight of memory—of crimes and of courage alike—and to answer history’s question: will you help build a better world, or turn away, yet again?
Europe’s unfinished nature is not failure but vocation. Every crisis calls us to renew, not retreat. As Jacques Delors warned: "Solidarity, or death." Our choice shapes not just Europe, but humanity.
This is neither sentimental inheritance nor moral arrogance, but a living act of character. Our subsidiarity is not mere decentralisation—it's the discipline to elevate what is good in each other, to forge institutions worthy of trust, to create communities that truly flourish. Our diversity is not weakness—it's proof that unity need not require uniformity.
To lead is to choose—not because it's easy, but because it matters. Ours must not be a project for a better Europe, but a Europe for a better world. Pride in Europe must never become arrogance, but vigilance: the courage to hold ourselves to standards our past demands; to stand for justice, peace, and positive freedom; to insist that being “European” is never just a label, but citizenship with sleeves rolled up—a commitment to building a society that leaves no one behind.
But Europe will be what we choose—nothing more, nothing less. The real question is not what Europe is, nor what it has been, but whether we dare to realise its future.
The answer begins with us