Gli Archives d'Outre-Mer - gli archivi coloniali più forniti di Francia - erano un labirinto di sapere sepolto. Per arrivarci da Venezia avevo preso treni e attraversato mezza Europa con uno zaino e l'elenco delle segnature da consultare, compilato pazientemente nelle settimane precedenti spulciando bibliografie e cataloghi. Gli archivi coloniali francesi conservano la memoria amministrativa di un impero: il Marocco, l'Algeria, la Tunisia, l'Africa occidentale, l'Indocina. Chilometri di scaffali.
Cercavo tutto ciò che riguardava il Protettorato francese in Marocco dal 1912 al 1956. Le politiche urbanistiche di Lyautey, i piani di Henri Prost per le nouvelles villes, i rapporti dei Services de l'Urbanisme, le riviste coloniali con gli articoli trionfalistici sulla "messa in valore" del territorio. Ma anche i documenti meno celebrativi: i rapporti sulle bidonvilles, le statistiche demografiche, i censimenti, le mappe catastali che mostravano come la terra passava di mano dai marocchini ai coloni.
Articoli nelle riviste degli anni Trenta, documenti della fine dell'Ottocento, rapporti amministrativi, planimetrie, fotografie ingiallite. Fotocopiavo tutto - e le fotocopiatrici degli archivi erano macchine lente, rumorose, che sputavano fogli ancora caldi. Pagavi a pagina, e il budget era quello di uno studente. Quindi dovevi decidere in fretta: questo lo fotocopio, questo lo trascrivo a mano, questo mi annoto solo gli estremi.
Ho ancora uno scatolone pieno di quelle fotocopie, in garage. Non so esattamente quanto pesi - otto chili, forse - ma so che ogni foglio è la traccia materiale di una decisione: questo mi serve, questo lo porto a casa. Ogni foglio è un atto di selezione consapevole, compiuto in un momento preciso, in un luogo preciso, con la mia mano che girava le pagine di un faldone polveroso.
Il processo era quello dell'investigatore. Trovavi un indizio, seguivi una pista, scoprivi un nome, quel nome compariva in una nota a piè di pagina, la nota ti rimandava a un altro testo, richiedevi il volume, aspettavi che arrivasse dal magazzino, lo sfogliavi, decidevi se valeva la pena, se sì fotocopiavi, se no annotavi comunque gli estremi sulla tua schedina. Il metodo Eco: cartoncini con autore, titolo, collocazione, note. Un archivio fisico della tua ricerca, che ti permetteva di sapere sempre cosa avevi visto e cosa no.
Il libro di Eco, Come si fa una tesi di laurea, era stato la mia bibbia metodologica. Lo avevo letto prima di cominciare e lo tenevo sulla scrivania. Quella disciplina apparentemente pedante - le schedine, le note, la catalogazione manuale - era in realtà un sistema di controllo epistemico. Sapevi esattamente dove eri stato, cosa avevi visto, cosa ti mancava. Il tuo archivio personale era la mappa del territorio che avevi esplorato.
Dopo un po' sviluppi una specie di sesto senso. Entri in una biblioteca qualunque, in qualunque posto tu sia, e sai già dove guardare. Riconosci gli autori, le parole chiave, i pattern bibliografici. Capisci se un libro vale la pena prima ancora di aprirlo - dal titolo, dall'editore, dall'anno, dalla collana. Impari a leggere le bibliografie come un detective legge la scena del crimine: questo autore è citato da tutti, quindi è fondamentale; quest'altro compare solo qui, quindi forse è una pista secondaria; questo titolo continua a tornare, devo assolutamente trovarlo.
È un fiuto che si affina con la pratica, con l'accumulo, con l'errore. Perché sbagli anche: ordini un libro che si rivela inutile, perdi ore su una pista morta, ti accorgi troppo tardi che una fonte era decisiva e l'avevi sottovalutata. Ma ogni errore deposita esperienza, e l'esperienza diventa intuizione.
E poi c'erano le sorprese. Edmondo De Amicis: noi tutti lo conosciamo per Cuore, quel libro strappalacrime che ci facevano leggere alle elementari - il piccolo scrivano fiorentino, la madre di Franti, lacrime e buoni sentimenti. Ma sfogliando cataloghi ho scoperto che aveva scritto Marocco, cronaca di un suo viaggio del 1876. L'ho fotocopiato tutto.
Era tutt'altro personaggio rispetto a quello che immaginavo. De Amicis viaggiatore era curioso, ironico, attento ai dettagli. Raccontava il paese prima del Protettorato con occhi senza la supponenza del colonizzatore - o almeno, con una supponenza più leggera, più ingenua. Per la mia tesi era prezioso: una testimonianza della territorialità marocchina prima che i francesi la trasformassero, vista da un europeo che non aveva ancora l'alibi della "missione civilizzatrice".
Questa si chiama serendipità: ti imbatti in qualcosa mentre cerchi altro. Non la puoi pianificare, non la puoi programmare. Succede perché stai sfogliando scaffali, esplorando indici, seguendo tracce laterali. Perché sei fisicamente presente in un luogo pieno di libri, e i libri vicini a quello che stai cercando ti chiamano dallo scaffale. È il premio della ricerca fisica, l'incontro inatteso che cambia direzione al tuo lavoro.
Il momento in cui capisci di essere arrivato alla fine del viaggio è preciso. Non è un'intuizione vaga - è un dato empirico.
A un certo punto, qualunque testo trovi, trovi riferimenti a cose che hai già visto. Ogni nuova bibliografia cita le stesse fonti che hai già schedato. Cominci a girarti su te stesso. E allora sai: hai scandagliato tutto quello che c'era da scandagliare, dati i limiti e i confini che ti sei dato.
Quei confini li conoscevo perfettamente. Non testi in arabo, perché non li sapevo leggere. Non documenti di prima mano marocchini - gli appunti personali dei funzionari coloniali, i quaderni delle tribù, i disegni originali. Non fonti orali. Ma tutto ciò che era stato scritto, pubblicato, documentato nelle lingue che padroneggiavo - italiano, francese, inglese - quello l'avevo visto, letto, guardato.
Era una forma di onniscienza locale. Limitata, dichiarata, consapevole dei propri confini. Ma dentro quei confini, completa.
La scrittura, poi, era un'attività febbrile e ciclica. C'erano giorni in cui non mi veniva fuori niente - fissavo il foglio bianco e le parole non arrivavano. Accumulavo, accumulavo, accumulavo letture, sperando che prima o poi qualcosa si sbloccasse.
E poi a un certo punto sgorgavano - le parole, intendo. Come se tutta quella lettura avesse raggiunto una massa critica e dovesse uscire per forza. C'erano giorni che scrivevo dieci pagine, come una macchina, senza fermarmi. La mano correva sulla tastiera del mio primo computer, un piccolo Macintosh 512K, e le idee si organizzavano da sole mentre scrivevo. Non era velocità: era intensità. Quella lentezza delle settimane precedenti non era inefficienza - era comprensione che si sedimentava, conoscenza che veniva metabolizzata prima di trasformarsi in scrittura.
Trentacinque anni dopo, uso ChatGPT, Claude, Gemini, Perplexity quotidianamente.
Ho sviluppato una metodologia - AIRA, Artificial Intelligence Relational Approach - che tratta l'AI come partner dialogico. Non sono un nostalgico luddista. E l'altro giorno mi è venuta un'idea: e se rifacessi quella ricerca oggi? Se chiedessi a Perplexity di cercare tutto su territorialità e colonizzazione nel Marocco del Protettorato?
L'ho fatto. Deep Research, sette minuti. Risultati impressionanti. L'impressione iniziale è di onniscienza. Sopratutto, ovviamente, in tutti i testi d i riferimenti successivi al 1990, l'anno della mia tesi.
Poi il dubbio
Quello che un LLM cerca è solo ciò che è stato digitalizzato. Ciò che non è digitale non esiste. E anche ciò che è digitale ma protetto da copyright è fantasma. E ciò che è solo citato, mai letto integralmente.
È un problema di territorialità - proprio il concetto della mia tesi. Come la territorialità coloniale francese ri-costruiva il mondo europeo ignorando ciò che non rientrava nei suoi schemi, così la territorialità digitale ri-costruisce la conoscenza ignorando tutto ciò che non è stato convertito in bit. E come i francesi non sapevano di non sapere, così gli LLM rispondono con la stessa confidenza sia quando attingono a fonti solide sia quando ricostruiscono per plausibilità.
Ho fatto fare a Perplexity una ricerca su questo - consapevole del paradosso. Poi ho controllato con Claude, Gemini, ChatGPT. Il giro delle sette chiese.
Quello che ho scoperto sono sette categorie di sapere invisibile
L'Antico Non Trascritto. La maggioranza delle tavolette cuneiformi sumere non è mai stata trascritta. Per l'AI, non esistono. Mi chiedo: quegli articoli nelle riviste coloniali degli anni Trenta che ho fotocopiato ad Aix, sono mai stati digitalizzati? Il mio scatolone potrebbe contenere conoscenza che per un LLM non c'è.
L'Archivio Sommerso. L'Archivio Vaticano custodisce ottantacinque chilometri di scaffali. Gli Archives d'Outre-Mer, chilometri. Solo una frazione infinitesima è digitale.
Il Secolo Blindato. La gran parte della cultura del Novecento è protetta da copyright. Harry Potter è inaccessibile all'AI - lo "conosce" attraverso Wikipedia, Reddit, meme. Quando le chiedi di citare un dialogo, ricostruisce plausibilmente. Molti testi critici della mia tesi - monografie francesi su Lyautey - sono ancora sotto copyright. Per un LLM, fantasmi.
La Fortezza della Competenza. I commentari giuridici costano migliaia di euro. Le edizioni critiche: il testo di Dante è pubblico, ma le note filologiche sono protette. L'AI conosce "Nel mezzo del cammin", non il dibattito su quale versione sia autentica.
Il Dato Ombra. Molti LLM potrebbero essere stati addestrati su opere piratate - Books3, centonovantaseimila libri da Library Genesis. Cause legali in corso. Il paradosso: l'AI potrebbe aver "letto" Harry Potter, ma i filtri le impediscono di ammetterlo. Deve fingere ignoranza e ricostruire - generando le famose "allucinazioni".
La Metadatazione. Gli LLM conoscono cataloghi di milioni di libri - titolo, autore, pagine. Ma ne hanno letto il contenuto solo di una frazione. Libri fantasma: sanno che esistono, non cosa dicono.
La Fortezza del Privato. Il sapere che fa girare il mondo è invisibile. Comunicazioni aziendali, know-how industriale, dati clinici, intelligence governativa, risultati negativi mai pubblicati.
Il vero pericolo non è ciò che l'AI non sa.
Chiedi: "Cosa dice Heidegger nel volume 79 della Gesamtausgabe?" L'AI risponde con confidenza. Sembra una citazione. È una sintesi plausibile basata su altri testi. L'utente crede che abbia consultato il volume. Non è vero.
Io nel 1990 dicevo: "Questo non l'ho letto perché è in arabo." L'AI dice: "Sì, Heidegger sostiene..." senza averlo mai visto.
Si chiama allucinazione erudita. È pericolosa perché plausibile.
Quando un'interpretazione semplificata domina online e quella accurata è relegata a monografie a pagamento, l'AI impara la semplificata. Poi produce milioni di testi basati su quella. Questi finiscono online. La prossima generazione di AI si addestra anche su quelli. L'errore si amplifica.
"Machiavelli dice che il fine giustifica i mezzi." Non l'ha mai scritto. Ma la vulgata domina online. Le future AI ripeteranno l'errore con più confidenza.
Nel 1990, un'interpretazione sbagliata restava confinata a pochi saggi. Oggi può generare migliaia di documenti che contamineranno i prossimi dataset.
C'è qualcosa che quella ricerca mi ha lasciato: il fiuto.
Quel sesto senso che ti dice quando una fonte è inventata, quando una ricerca è parziale. È perché ho vissuto l'esperienza di cercare pezzettino per pezzettino che oggi lavoro criticamente con gli LLM. Capisco quando allucinano - quella leggera genericità, quella confidenza eccessiva, quella tendenza a inventare citazioni. Il fiuto investigativo funziona anche con l'AI.
Chi non ha mai fatto ricerca analogica rischia di non accorgersi della Bibliografia Fantasma.
Ogni tanto ripenso a me stesso alla Marciana. Lo scatolone in garage - mi dispiace perfino buttarlo.
Non è nostalgia. È consapevolezza epistemica. Quel peso fisico mi ha insegnato che la ricerca è un viaggio con una fine riconoscibile - quel momento in cui sai di aver percorso tutto il territorio disponibile.
Gli LLM sono strumenti straordinari. Li uso sapendo cosa sono e cosa non possono fare. Li uso con il fiuto che ho sviluppato trentacinque anni fa.
Il mio scatolone pesa otto chili. Il training dataset di GPT-5.2 pesa... boh, nessuno lo sa.