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Il mio libro 𝗧𝗘𝗖𝗡𝗢𝗖𝗢𝗡𝗦𝗔𝗣𝗘𝗩𝗢𝗟𝗘𝗭𝗭𝗔 𝗘 𝗟𝗜𝗕𝗘𝗥𝗧𝗔' 𝗗𝗜 𝗦𝗖𝗘𝗟𝗧𝗔 condiviso per intero sulla Stultiferanavis. Anche se è diventata pratica comune usare il display del proprio dispositivo come uno specchio, anche interiore, guardarvi attraverso come se fosse una finestra è sempre possibile, anche se chi è innamorato dei selfie evita volutamente di farlo. Uno sguardo diverso, rigenerato, può cambiare tutto. Può distrarre dalla irrealtà delle immagini dei display, rifocalizzare l’attenzione, spostare la concentrazione su qualcosa di diverso, favorire una migliore cura di sé stessi, modificare la percezione di Sé e del proprio immaginario, dell’ambiente, del tempo, delle prospettive future e delle certezze.


Oggi siamo diventati Popolo dello Schermo. Gravitiamo verso gli schermi: del cinema, della televisione, del computer, dell’iPhone, degli occhiali per la realtà virtuale, dei tablet; nel prossimo futuro graviteremo verso schermi di megapixel brillanti che ricopriranno ogni superficie. La cultura dello schermo è un mondo di flussi costanti, di infiniti assaggi musicali, di tagli frettolosi e di idee incomplete; è un fluire di tweet, titoli, Instagram, messaggi informali e prime impressioni fluttuanti...”L’inevitabile di Kevin Kelly 

Impossibile sapere dove andremo. Ma abbiamo una certezza: dipenderà dalle nostre scelte di oggi.”– Sir Berners-Lee


Cosa succede quando a comandarci è il tablet o lo smartphone personali, quando non si resiste al richiamo di un cinguettio o di una richiesta di MiPiace (Like)? Quanti realizzano di comportarsi come robot? Veri e propri automi (Automata, diversi dai robot protagonisti del film omonimo di Gabe Ibáñez), macchine programmate senza pensiero, che non decidono, non scelgono, ma semplicemente muovono mani e polpastrelli, per soddisfare algoritmi, interfacce software e applicazioni e, solo in secondo luogo, altre persone che come loro si agitano online, all’interno di territori digitali perimetrati da display, schermi, icone, finestre e piattaforme[1].

Quanti hanno compreso fino in fondo gli effetti determinati dal passaggio dalla logica lineare dei libri al flusso dinamico dei pixel di uno schermo, dalla lettura alla visualizzazione e alla navigazione?

Quanti si sono resi conto che la consuetudine e la velocità con cui interagiscono con le immagini digitali le ha rese metafore morte di una vitalità fasulla, temporanea e sfuggente? 

Oltre la cornice dello schermo 

Benché catturati dal magnetismo dei display e imprigionati dentro le tante macchine tecnologiche che abitiamo, continuiamo a essere umani, individui dotati di comprensione semantica della realtà (la macchina, il computer operano in maniera prevedibile, si fermano alla sintassi[2]), di interiorità e di un’anima, qualità con le quali possiamo andare oltre la cornice di uno schermo, allargare lo sguardo al di fuori delle finestre applicative di un social network, acquisendo consapevolezza e coscienza di noi stessi e dei tanti mondi paralleli che costituiscono la realtà delle nostre singole e temporalmente limitate vite. 

Uno sguardo diverso, rigenerato, può cambiare tutto

Anche se è diventata pratica comune usare il display del proprio dispositivo come uno specchio, anche interiore, guardarvi attraverso come se fosse una finestra è sempre possibile, anche se chi è innamorato dei selfie evita volutamente di farlo. Uno sguardo diverso, rigenerato, può cambiare tutto. Può distrarre dalla irrealtà delle immagini dei display, rifocalizzare l’attenzione, spostare la concentrazione su qualcosa di diverso, favorire una migliore cura di sé stessi, modificare la percezione di Sé e del proprio immaginario, dell’ambiente, del tempo, delle prospettive future e delle certezze. 

Uscire dalla cornice dello schermo può essere all’origine di ansie nuove e tanti dubbi, entrambi però prodromici ad un esame di coscienza reso autonomo da meccanismi tecnologici. Come quelli del Quantified Self, tecnologie del sé che servono a esprimere la soggettività individuale ma vincolano a un potere di controllo esterno, fatto di puri dati (mai grezzi per definizione), non solo tecnologico ma politico. L’esame di coscienza da compiere passa invece attraverso la ritrovata capacità di tradurre i pensieri in azioni, diverse da quelle a cui ci si è abituati adottando passivamente le pratiche suggerite dalle funzionalità tecnologiche di uno smartphone, di un motore di ricerca o di un’APP. Riprendere l’iniziativa, agire dando una opportunità al libero pensiero di sperimentare nuovi modi di manifestarsi ed esprimersi, alimenta la capacità di resistere all’imposizione di contenuti che sembrano fluire liberamente all’interno delle cornici dei display ma che in realtà sono imposte da entità impegnate a costruire il loro controllo sulle menti, sugli individui e sulle moltitudini che li contengono. 

La fuga dallo schermo o un suo uso diverso, il ritorno alla realtà si produce interrogandosi, formulando domande finalizzate alla ricerca di senso e di verità, all’analisi, al riconoscimento dell’errore, alla creazione di nuovi concetti interpretativi e alla trasformazione silenziosa di noi stessi, ma anche attraverso l’abbandono del sogno digitale, spesso generatore di malinconia, tedio e insonnia, e con il disvelamento delle sue false promesse. 

Contestualizzare la tecnologia 

Si continua a parlare di trasformazione digitale, di realtà 2.0 e aziende 4.0, senza collocare il tutto all’interno di contesti più ampi, economici, culturali, politici, sociali, ma anche cognitivi ed emotivi. Contestualizzare le tecnologie serve a comprendere il diverso ruolo da esse giocato nell’economia e la loro destinazione d’uso, spesso piegata a semplici programmi marketing pensati per aumentare il consumo di prodotti, a trasformare le persone in merce e in semplici consumatori. In quest’ottica si possono comprendere meglio le innovazioni tecnologiche di Amazon e alcuni dei suoi prodotti come Amazon Echo, il Kindle, o il Dash Button. Riflettere criticamente sulle nuove tecnologie e i loro prodotti è una scelta di partecipazione attiva per contrastare conformismo di pensiero, generalizzazioni e banalizzazioni. Per ribadire l’importanza di una dimensione etica che non sia solo quella cinica, narcisistica e utilitaristica, tipica delle piattaforme tecnologiche e dell’uso che ne facciamo. 

Porsi domande è un modo per alimentare la curiosità ma anche per difendersi. Per resistere alla semplificazione, cimentandosi nella complessificazione che serve a problematizzare ogni realtà o evento che si sta sperimentando.  È come se ci si guardasse dall’esterno per andare alla ricerca di cosa si pensa, si sente e si è. La difesa è contro la forza del dispositivo, del suo display, degli algoritmi o delle piattaforme social. Ci si difende anche da sé stessi, sempre più piegati volontariamente e inconsapevolmente a una servitù volontaria e interiorizzata nella quale ci si crogiola a proprio agio. Esercitare la curiosità e la difesa sono attività faticose che comportano il superamento della passività alla quale ci si è assuefatti dalla gratuità della Rete e dalla sua offerta continua di intrattenimento, obbligando a uno sforzo di volontà di cui non tutti sono probabilmente capaci, per dare forma a una mente consapevole. 

Interrogarsi criticamente è un primo passo di autodifesa per ritrovare il tempo e il ritmo, un modo per scoprire i filtri della realtà imposti dalle macchine, per non farsi riscrivere continuamente dagli algoritmi, per ascoltare/si e apprendere, per svelare le trame di controllo e manipolazione da essi messe in atto, per toccare con mano (la pratica di San Tommaso), procacciarsi le informazioni e le conoscenze che possono servire all’acquisizione di nuova conoscenza e maggiore consapevolezza, e ad alimentarle in modo progressivo. 

La maggiore consapevolezza serve a risolvere problemi, a darsi delle risposte non prevedibili, a scoprire cose e abilità nuove, a lasciare strade note per altre non ancora esplorate. Aiuta a diventare nuovamente protagonisti del cambiamento attivato, interrogandosi per decidere se farne parte o chiamarsi fuori. “La finalità dell’autodifesa – scrive Ippolita – non è combattere e distruggere ma divenire consapevoli della propria forza per agire con sicurezza nel mondo e magari essere di esempio per gli altri”. 

Essere di esempio non ha nulla di eroico ma trasforma chi ci prova in attore di controinformazione e testimone di possibilità per tutti coloro che gli/le stanno intorno. Le possibilità che si aprono sono quelle dell’avere maggiore cura di sé, di non farsi codificare e programmare il DNA, di riconquistare l’autonomia perduta con la cessione del sé a sosia digitali fuori controllo, di smettere le vesti di merce (in Rete il prodotto siamo diventati noi, meglio saperlo!) per riscoprire la sensazione soggettiva di un’emozione che sempre nasce dall’illusione di essere liberi o da una condivisione ed esperienza empatica nella vita reale. 

Può darsi che, chi si esercita nell’arte delle domande e delle ipotesi, faccia parte di una generazione superata, ancorata alla fase evolutiva precedente, ai suoi modelli di interpretazione della realtà, una generazione diversa da quelle recenti dei cosiddetti Nativi Digitali ormai inconsapevoli della pervasività e della potenza della tecnologia. Una generazione ancora legata al pensiero analogico, abituata a chiedersi il perché le persone facciano quello che fanno, diano importanza in modo acritico anche a ciò che non è importante, e a cercare di rintracciarne le tracce comportamentali ed etiche. Rivolto alla vita sociale online, lo sguardo interrogativo dei membri di questa generazione è un modo per superare la cecità indotta dalla convinzione che ciò che scorre sul display, in termini di parole e immagini, sia la pura verità ed espressione di realtà. 

La potenza delle immagini che ci guardano 

Soffermandosi un attimo a osservare meglio le immagini dei display si potrebbe scoprire ciò che nascondono, la (con)fusione tra verità e falsità che alimentano, le falsità che veicolano, la loro capacità di nascondere la realtà e anche di trasformarla, come nel caso di immagini costruite con la tecnica del deepfaking

Le nuove scoperte potrebbero suggerire nuove domande e il ricorso a strumenti utili a riacquistare la vista, anche quella mentale e non solo quella degli occhi, svelando l’inganno del ricatto emotivo delle immagini che impedisce l’esercizio della consapevolezza, la mobilitazione della coscienza e la scelta di indignarsi per le cause giuste e di agire (molta indignazione attuale sul Web è sapientemente costruita e canalizzata). Le reazioni empatiche determinate dalle immagini sullo schermo sono automatiche. Probabilmente non dissimili da quelle generate dalla vista di un’opera d’arte o di un dipinto, ma sicuramente più capaci di confondere le idee, imporre la loro forza emotiva e agire come neuroni specchio digitali in forma di pixel. Come tali capaci di generare immedesimazione, viralità, proliferazione. 

Porsi delle domande è agire ma anche un esercizio pericoloso perché comporta la rinuncia a abitudini e la perdita di controllo, rischia di togliere il sorriso dalle labbra. Il sorriso che oggi vediamo spesso stampato sulla faccia di moltissime persone che incontriamo per strada intente a farsi un selfie con cui alimentare i loro canali di comunicazione online, mantenendo in vita i profili digitali con cui li abitano.  È un sorriso imperturbabile e perenne, quanto falso e ingannevole. Un sorriso che, come ha scritto Antonio Moresco nel suo libro Il grido, sembra più il risultato di un ictus facciale (“una paresi sovrapposta come maschera ai veri volti”) che l’espressione di uno stato reale di benessere o felicità. 

Piegarsi alla tirannia dei selfie non è obbligatorio e non tutti si sono costretti alla catena di montaggio che li caratterizza. Non sono persone immuni da paresi o ictus facciali vari, ma forse ancora capaci di porsi semplici domande (“Che ci faccio qui?”), prima di ogni autoscatto, solitario o di gruppo.  La resistenza al conformismo diffuso non è quasi mai apprezzata, anzi provoca fastidio e noie, viene percepita come anticonformista, politicamente scorretta ed espressione di una pretesa superiorità intellettuale che mira a distinguersi dalle masse (I Radical chic del No-Selfie). Non avendo ceduto alla tirannia dei selfie, di loro probabilmente nel futuro prossimo venturo non ci sarà traccia. La loro testimonianza è però oggi rilevante nel sottolineare che il problema non è il selfie ma il non interrogarsi sulle motivazioni che spingono così tante persone a praticarlo. 

Tra queste motivazioni ci può essere il narcisismo e la necessità di presenziare una realtà nella quale non si esiste se non ci si racconta e rappresenta in continuazione. C’è però da chiedersi quanto queste motivazioni siano efficaci e quanto saranno rilevanti le tracce, lasciate dalle moltitudini che oggi ingolfano la Rete con immagini sorridenti e gaudenti che non rispecchiano la realtà di vita che stanno vivendo. Una realtà che per un numero crescente di persone è fatta di precarietà lavorativa, difficoltà esistenziale, solitudine, senso di isolamento e ansie che ne derivano. 

 “I selfie, purtroppo, non hanno niente a che vedere con il Sé, non rivelano il Sé, ma un ‘altro’, mentre compie un atto solitario di intimità alienata. Ci scattiamo una foto da una certa distanza, come se fossimo in buona compagnia.” ( Christopher Bollas). I selfie sono la testimonianza dell’importanza del display, della prevalenza del visuale, di uno sguardo rivolto all’esterno piuttosto che uno rivolto al proprio interno, legato alle proprie esperienze vissute personali e alla ricchezza dei numerosi significati ad esse associabili. 

Il selfie diventa una lente con cui guardarsi dentro ma non è sufficiente per riuscire a conoscersi nella propria particolarità soggettiva, diversa da quella omologata e omogeneizzata di cui il selfie è una rappresentazione e icona. Il selfie racconta che si può andare avanti come se niente fosse ma al tempo stesso certifica la difficoltà crescente a modificare atteggiamenti, comportamenti, percorsi e destinazioni che potrebbero riportare con i piedi per terra, far comprendere di essere dentro una narrazione semplificata e manipolata della realtà. Una narrazione che in qualche modo restringe lo sguardo, impedisce la capacità di guardare attraverso, utile per acquisire maggiore consapevolezza (autocoscienza) dei comportamenti e dei gesti nei quali ci si esercita, ma anche di tutto ciò che sta al di fuori della cornice del display e dall’occhio grandangolare della telecamera di uno smartphone. Sorridere davanti a un display fa bene, ridere ancora di più, ma deve essere l’espressione sentita di uno stato d’animo o il risultato di un’esperienza gratificante. 

Non deve essere una forzatura. 

Perdere la vista 

Attaccati ai sensi e ai nostri display difficilmente riusciremmo a immaginare di perdere la vista, di diventare improvvisamente ciechi e non vedere più nulla. Privi di vista come lo sono i protagonisti anonimi di Cecità, il libro con cui Josè Saramago racconta il panico che si genera in una città i cui abitanti precipitano uno dopo l’altro nelle tenebre spaventose della perdita della vista. A bloccare la vista non è il buio ma un colore bianco, come quello del latte, “talmente luminoso, talmente totale da divorare più che assorbire, non solo i colori, ma le stesse cose e gli stessi esseri, rendendoli in questo modo doppiamente invisibili”. Metafora, allegoria e parodia perfetta dei mondi digitali che ci rendono ciechi di fronte a ciò che non si vuole vedere (“online siamo ciechi, che pur vedendo, non vedono”). 

La cecità non è fisica ma metafisica, esprime l’appannamento dell’anima (“eravamo già ciechi nel momento in cui lo siamo diventati, la paura ci ha accecato, la paura ci manterrà ciechi”) e porta a sottomettersi al potere degli automatismi statistici degli algoritmi, rinunciando a esercitare le tante possibilità alternative esistenti. In Cecità i protagonisti ciechi vengono raggruppati in un manicomio nel quale finiscono per prevalere indifferenza, invidia, cattiveria ed istinti malevoli che sempre portano l’uomo ad approfittare degli altri quando le condizioni lo permettono. 

Molto di ciò che scorre oggi sui display usati da miliardi di persone richiederebbe una cecità momentanea prolungata. Una cecità capace, per un momento, di azzerare quanto nella realtà digitale attuale sembra certificare una regressione a Homo homini lupus, verso una società primitiva nella quale prevalgono prepotenze, brutalità linguistiche e fisiche (femminicidi, omofobia, ecc.), soprusi e cattiverie di ogni tipo. La cecità non è però l’unica destinazione possibile. C’è anche l’esercizio della vista positiva della moglie del medico del romanzo di Saramago che diventa cieca solo al termine della storia, dopo avere regalato la sua “vista” condividendola con coloro che ne sono stati privati. Un modo di guardare e vedere che ispira speranza, solidarietà, familiarità e attenzione. 

La cecità epidemica improvvisa ha la capacità di obbligare tutti a elaborare una risposta al flagello di cui sono stati vittime. A decidere di combattere per raggiungere una qualche forma di controllo della nuova situazione esperienziale che si sono trovati a vivere. Quelli ospitati nella terza camerata lo faranno cercando di trarre vantaggio dal potere di cui dispongono e attraverso violenze e prevaricazioni. Gli altri lo fanno resistendo alle privazioni imposte, non dandosi per vinti e trovando il modo, con l’aiuto della moglie del medico, di abbandonare il manicomio. 

Il recupero della vista nel romanzo di Saramago è tanto repentino quanto lo era stata la sua perdita. Potrebbe esserlo anche per chi l’ha sperimentata rispetto ai suoi display. 

Il ritorno alla vista dopo una esperienza in cui si è lottato per controllare le circostanze potrebbe essere di utilità per un utilizzo diverso della vista, anche quando essa è rivolta allo schermo attrattivo di uno smartphone. Una vista capace di vedere in profondità e lateralmente, di cogliere il narcisismo dei selfie, l’impulsività, l’impazienza e l’egoismo di tanti comportamenti online, tenendo aperti gli occhi (farlo costa fatica e a volte dolore) di fronte al male e alla sofferenza di coloro che oggi vivono situazioni di povertà, isolamento, precarietà, mobilità e difficoltà. Con gli occhi aperti e così orientati ci sarebbe anche la possibilità di vedersi meglio dentro! 


Indice del libro

Premessa

  • Osare pensare
  • Una riflessione sulla tecnologia è necessaria
  • In viaggio
  • Qualcosa non funziona più
  • Andare oltre la tecnologia 

Introduzione

  • Un appello per scelte non binarie
  • Intelligenze artificiali e umane
  • Libertà di scelta come possibilità
  • Homo Sapiens: una evoluzione a rischio
  • Ruolo e criticità della tecnologia
  • Costruire narrazioni diverse
  • Menti hackerate e azioni da intraprendere

Tempi Moderni

  • Tempi irreali e mondi paralleli
  • Mondi virtuali, memi virali e contagiosi
  • Il ruolo che dobbiamo esercitare
  • In culo alle moltitudini 

Tempi tecnologici

  • πάντα ῥεῖ, tutto scorre
  • Il dominio delle macchine
  • Media digitali e dimensione umana
  • Leggerezza virtuale e pesantezza del reale
  • La realtà come gioco
  • Il grande inganno
  • Mettersi in cammino

Velocità e senso dell’urgenza

  • Il tempo tecnologico è viscoso e agitato
  • L’illusione del tempo presente
  • Immediatezza come registrazione
  • Il recupero della lentezza
  • Deleghe in bianco e scelte fuori dal coro
  • Potenza, vitalità e velocità delle immagini
  • Il tempo dimenticato

Immersi in realtà multiverso

  • Reale e virtuale convivono
  • Finzioni digitali e realtà
  • Multiverso lento
  • Via dalla pazza folla
  • Il ruolo delle emozioni 

Libertà di scelta ed emozioni

  • Emozioni chimiche digitali
  • Emozioni algoritmiche
  • Macchine intelligenti e assistenti personali
  • Emozioni e sofferenza

Siamo scimmie intelligenti?

  • Tecnologia strumento di libertà
  • Trasformazioni cognitive
  • Interazioni uomo-macchina
  • Esseri umani o burattini
  • Scimmie allevate per consumare 

Sentirsi liberi

  • Internet da spazio libero a mondo chiuso
  • Libertà perdute, libertà simulate
  • Libertà illusorie
  • Scelte binarie e libertà illimitata
  • La libertà non fa regali
  • Sapere di non sapere

Gli strumenti che servono

  • Strade accidentate e coraggio
  • Coltivare gli orti del pensiero
  • Pratica del silenzio e tempi lenti
  • Metterci la faccia 

Alimentare il dubbio

  • Dubitare ora dubitare sempre
  • Per dubitare serve una pausa

Gatti, asini e canarini, voliere, acquari e gabbie di vetro

  • Comportiamoci da gatti
  • Pesci in acquario
  • Le voliere di Twitter
  • La gabbia è di vetro ma riscaldata
  • Cambiare aria
  • Mura ciclopiche, barriere e porti chiusi
  • La metafora dell’asino

Attraversare la cornice del display

  • Oltre la cornice dello schermo
  • Contestualizzare la tecnologia
  • La potenza delle immagini che ci guardano
  • Perdere la vista

Interrogarsi sulla solitudine

Isolati nella realtà, soli online
Costretti a stare soli
Voglia di comunità e social networking
Consapevolezza e responsabilità
Solitudine e impegno

Il potere degli algoritmi

  • Attenzione distratta
  • Algoritmo maggiordomo ruffiano
  • Algoritmo invisibile ma non trasparente
  • Un algoritmo fintamente autonomo
  • L’algoritmo calcolatore
  • Ribellarsi all’algoritmo

Poteri forti e monopolistici

  • Poteri totalitari ma sorridenti
  • Fedeltà vado cercando
  • Tecnocrazie nichiliste alla ricerca di delega
  • Libertà, lavoro e diritti
  • Preoccuparsi è meglio che non farlo
  • L’esercizio politico della critica
  • Le chiese della Silicon Valley
  • La politica cinguettante
  • Fake news e analisi dei fatti

Le domande da porsi

  • Domande, domande, domande
  • Dipendenze e rinunce alle dosi quotidiane
  • Esercitare l’arte delle domande
  • Un elenco di domande possibili

Scegliere è difficile

  • Le opzioni della scelta
  • Difficoltà esistenziale della scelta
  • Scelte lenti e consapevoli
  • La libertà di scelta online
  • Scegliere la gentilezza 

Addestramento alla gentilezza

  • C’è bisogno di amicizia e solidarietà
  • Reti di contatti e reti amicali

Alcune considerazioni finali

Webgrafia/Bibliografia


Note

[1] Sull’argomento ho pubblicato un e-book dal titolo E guardo il mondo dal display, pubblicato nella collana Technovisions di Delos Digital 

[2] Citazione di Giulio Giorello da Lo scimmione intelligente: “Mentre noi siamo dotati di una semantica, in quanto abbiamo una lunga storia evolutiva alle spalle, il computer ragiona unicamente sulla base di regole sintattiche.  È necessario l’intervento dell’esperto per mettere i simboli al loro posto, per tradurre la semantica in semplice sintassi

StultiferaBiblio

Pubblicato il 20 maggio 2025

Carlo Mazzucchelli

Carlo Mazzucchelli / ⛵⛵ Leggo, scrivo, viaggio, dialogo e mi ritengo fortunato nel poterlo fare – Co-fondatore di STULTIFERANAVIS

c.mazzucchelli@libero.it http://www.stultiferanavis.it

Sull’argomento ho pubblicato un e-book dal titolo E guardo il mondo dal display, pubblicato nella collana Technovisions di Delos Digital 

Citazione di Giulio Giorello da Lo scimmione intelligente: “Mentre noi siamo dotati di una semantica, in quanto abbiamo una lunga storia evolutiva alle spalle, il computer ragiona unicamente sulla base di regole sintattiche.  È necessario l’intervento dell’esperto per mettere i simboli al loro posto, per tradurre la semantica in semplice sintassi