“Viviamo immersi in un clima culturale, che oggi pare inarrestabile, denominato nichilismo, intendendo con questo termine il fatto che gli ideali su cui da sempre l’umanità conveniva (il bene, la giustizia, l’amore, la fedeltà, l’ordine, l’armonia, la verità) si ritrovano senza fondamento e sono ricondotti dalla coscienza al puro nulla, al nihil.”– Il bisogno di pensare Vito Mancuso
Poteri totalitari ma sorridenti
Questa realtà anticipa distopie future e realtà illusorie come quelle raccontate nei suoi racconti e romanzi da J.G.Ballard, dominate da poteri totalitari ma sorridenti, ammiccanti e impegnati nell’ingraziarsi il popolo piuttosto che a schiacciarlo sotto il tallone militare o quello violento della legge. Un Sistema Orwelliano ma implementato nella forma di pubblico servizio, attraverso sistemi di (video) sorveglianza pervasivi e diffusi che provocano “On the whole […] a loss in freedom, and the danger is that people may move into the area of psychopathology in order to enlarge the scope of their lives and imaginations.”(J.G. Ballard). Un sistema i cui abitanti non sembrano avere paura del controllo e della videosorveglianza per averne introiettato psicologicamente e politicamente meccanismi e finalità. L’introiezione è complice, facilitata dalla capacità del sistema di fornire forme di intrattenimento e di divertimento persistenti e gratuite nel tempo. Agli scenari distopici di Ballard, Orwell, Huxley si può assimilare anche quello di William Gibson che nel suo Neuromante ha anticipato un mondo così permeato dai flussi elettronici dall’aver demolito ogni separazione tra il mondo empirico della realtà e la sua rappresentazione e simulazione digitale.
Le tante distopie letterarie che hanno fatto la fortuna dei loro autori e alimentato il piacere della lettura di milioni di lettori, possono servire oggi a comprendere meglio l’egemonia della tecnologia e di Internet sul mondo e in che modo essa si sia trasformata in arma potente per l’esercizio di altre egemonie e poteri, capaci oggi di sostituire le rivoluzioni digitali in restaurazioni, in termini di diritti, democratici e di libertà, utopie possibili in distopie inevitabili. La tecnologia è diventata, suo malgrado ma con la complicità di molti, strumento potente di ingegneria sociale e politica, di indebolimento del discorso pubblico, di disintermediazione e soprattutto di trasformazione delle forme della cittadinanza che hanno caratterizzato le nostre democrazie occidentali. Ha dato origine a una grande coalizione, potente ed elitaria che sta dispiegando tutta la sua forza per il raggiungimento di obiettivi diventati sempre più chiari. Così trasparenti da suggerire una qualche riflessione critica e azione.
Fedeltà vado cercando
Ciò che il sistema consumistico oggi prevalente, le Grandi Marche e le piattaforme tecnologiche vogliono veramente da tutti noi è la nostra cieca fiducia e fedeltà, la rinuncia a riflettere sulle loro conseguenze, in pratica pianificano e coltivano la nostra sottomissione. Le piattaforme tecnologiche vogliono che ci rivolgiamo ad esse in modo da poter ottenere le informazioni di cui sono ghiotte, che servono a compilare elenchi e profili contenenti le nostre preferenze, così come le cose che non ci piacciono, i nostri viaggi così come quelli che stiamo progettando. Una compilazione che passa anche attraverso la collaborazione tacita con i produttori delle APP installate sui dispositivi mobili. Queste APP trasmettono dati e informazioni anche quando non si è collegati alla piattaforma di social network (Facebook) e persino di coloro che non hanno alcun account social.
Come ha scritto Franklin Foer nel suo libro I nuovi poteri forti (World Without Mind), i comportamenti dei grandi produttori tecnologici “stanno facendo a pezzi i principi che proteggono l’individuo […] annientano la privacy […] e per quanto concerne il libero arbitrio hanno una visione tutta loro: vogliono automatizzare le scelte, grandi e piccole che facciamo nell’arco della giornata. […] vogliono rendere il mondo meno privato, meno individuale, meno creativo e meno umano”. Quella concessa dai nuovi poteri è una libertà limitata, associata alla possibilità di transitare gratuitamente dentro mondi chiusi e compiere le proprie scelte al loro interno. Ma la libertà non può essere declinata, è una sola, applicabile alla realtà fattuale così come a quella digitale, mai intimorita dal disturbare il manovratore di turno o dall’attraversare territori sconosciuti da esplorare, terre di nessuno come la Kamchatka, la Dankalia o la Mongolia, nuovi limiti e nuove frontiere.
Tecnocrazie nichiliste alla ricerca di delega
In tempo di sovranismi e populismi politici, espressione della rabbia ma anche dei tempi tecnologici correnti, forse si presta poca attenzione all’affermarsi di nuove tecnocrazie nichilistiche che con essi condividono alcuni obiettivi come il dominio, la pratica della delega e il potere assoluto della leadership. In politica i movimenti attuali stanno facendo riemergere tendenze fascistoidi (la definizione è di Luciano Canfora) che in passato hanno privato popoli e persone delle loro libertà e diritti.
La tecnocrazia delle multinazionali tecnologiche si dichiara apolitica ma agisce con gli stessi obiettivi di privazione della libertà e riduzione delle possibilità di scelta a mere certificazioni consumistiche all’interno di opzioni preordinate. La privazione della libertà si manifesta all’interno di un sistema mondo che celebra le libertà e l’abolizione di ogni limite. Nasce dalla delega di utenti-consumatori che vivono dentro la necessità di consumare, accettando la limitazione reale della loro libertà di scelta e l’imposizione cinica di opzioni e percorsi, a loro suggeriti per soddisfare bisogni e desideri. Rinunciando in questo modo a immaginare scelte, percorsi alternativi e diversi, fatti di opportunità e in assenza di opportunismo.
Delegare alla tecnocrazia è un atto politico. Come lo è la delega alle nuove forze politiche populiste che, in nome del popolo, in realtà perseguono obiettivi egemonici e autoritari. Simili a quelli percepibili nelle strategie e nelle pratiche delle multinazionali tecnologiche, della Silicon Valley ma anche Cinesi (il mondo si va riempendo di novelle Silicon Valley, di potenti e insorgenti nuovi centri di potere). I nuovi sovranismi, populismi vari, fascismi potenziali emergenti, suggeriscono la fragilità delle democrazie occidentali e della libertà, due conquiste mai acquisite per sempre e in maniera definitiva. Neppure su piattaforme digitali, Internet e mondi virtuali, nei quali la libertà non è altro che un percorso accidentato, reso complicato dalla cecità massificata, dalla scarsa consapevolezza di chi li frequenta, dalle molteplici manipolazioni e illusioni che li caratterizzano.
Nel 2018 sono aumentati gli allarmi di intellettuali e studiosi sulle conseguenze della pervasività tecnologica ma soprattutto dell’uso (abuso) che ne viene fatto da parte di aziende tecnologiche guidate dalla semplice logica economica del profitto. Gli allarmi interessano tutti gli ambiti di maggiore innovazione quali l’Intelligenza Artificiale, le piattaforme di social networking, l’automazione e le Reti degli oggetti. Tutti fanno riferimento alla sparizione della privacy, al problema dell’identità individuale, all’utilizzo dei dati e delle informazioni personali per condizionarci e teleguidarci. Dave Eggers, l’autore di Il Cerchio, un romanzo distopico nel quale i protagonisti hanno rinunciato a qualsiasi tipo di privacy e tutti controllano tutti, ricorda ai lettori che “Ci stiamo privando da soli della nostra libertà. Per comodità e pigrizia. E per l’avidità delle grandi compagnie tecnologiche […] espressione dell’ascesa di un capitalismo della sorveglianza estremamente pericolosa e che porta con sé il rischio dell’eliminazione della maggior parte delle nostre libertà individuali se non addirittura di tutte”.
Libertà, lavoro e diritti
Per molti la perdita di libertà va di pari passo con la perdita di posti di lavoro determinata dalla propensione sostituiva del lavoro umano, con macchine dotate di intelligenza artificiale che faranno aumentare la disoccupazione e l’inutilizzazione di un numero elevato di lavoratori candidati a non essere più occupabili. Scenari ben diversi da quelli ipotizzati agli albori dell’intelligenza artificiale o AI 1.0. Macchine intelligenti non più finalizzate a riprodurre il cervello umano e il suo modo di ragionare ma impegnate in modo stachanovista a ingurgitare quantità elevate di dati e informazioni per adattarsi ed evolvere, apprendere e imparare a muoversi, dentro contesti umani e sociali, semplicemente scegliendo le ipotesi o le opzioni statisticamente migliori o più efficaci. Una volta attivato, l’algoritmo farà le sue scelte. Non sempre facilmente spiegabili, ma i cui risultati ed effetti potrebbero suggerire di chiedere a chi lo ha implementato di rendere pubblici gli obiettivi e gli scopi assegnati alle sue componenti intelligenti e routine software.
Chi difende vantaggi e benefici delle intelligenze artificiali, rifiuta gli allarmi emergenti ricordando che in passato molte rivoluzioni tecnologiche abbiano sì cancellato posti di lavoro ma creandone di nuovi (i cocchieri delle carrozze si sono trasformati in tassisti, ci hanno rimesso solo i cavalli trasformati in salsicce!). A fare la differenza oggi è la concentrazione del potere nelle mani di poche aziende monopolistiche, in grado di sostituire interi servizi eliminando ogni opportunità reale di lavoro e professionalità a essi collegati. Alcuni esempi su tutti, collegati alla precarietà diffusa della cosiddetta GIG economy e in ambiti di lavoro cognitivo: il lavoro dei giornalisti o dei musicisti ma anche quello dei traduttori e interpreti che si devono confrontare con strumenti potenti come Google Translate, la cui intelligenza artificiale ha fatto progressi inimmaginabili, semplicemente alimentandosi con tutte le traduzioni rese pubbliche e messe in circolazione online.
La riflessione non deve fermarsi a considerare il mercato del lavoro ma rivolgersi alla modalità e ai modelli di business che stanno producendo effetti sostanziali nelle vite di ognuno, incidendo cognitivamente sul modo di pensare e interagire con la realtà, determinando una nuova fase economica nella quale è come se molti lavorassero al proprio suicidio professionale. In modo inconsapevole, quasi sereno (#internautastaisereno), regalando la propria trasparenza assoluta e montagne di dati (da intendersi come registrazioni, memorie e descrizioni di eventi, ricordi e molto altro) agli algoritmi tecnologici e alle piattaforme social, permettendo a società come Google (90% delle ricerche online in Europa), Facebook e Amazon (60% di e-commerce in Europa) di dare forma e far crescere servizi alternativi. Nel caso del servizio di traduzione ad esempio, come ha ben raccontato Jaron Lanier, l’intelligenza artificiale di Google Translate usa tutte le traduzioni prodotte online da traduttori umani per migliorare le proprie capacità statistiche e di traduzione apprendendo dai dati raccolti. Tutti forniti gratuitamente da traduttori che in questo modo stanno operando un vero e proprio harakiri professionale. La stessa sorte toccherà poi ai traduttori in carne e ossa, sostituiti da assistenti personali, macchine dalle sembianze umane, capaci di parlare lingue diverse a seconda del contesto, della necessità e dell’impostazione data loro da un semplice comando vocale (parla inglese, parla cinese, traduci dal giapponese al vietnamita, ecc.).
Preoccuparsi è meglio che non farlo
Se questa è la realtà, meglio preoccuparsi ora dei cambiamenti che le tecnologie stanno producendo, facendo attenzione a non lasciarsi intrappolare dentro un dibattito troppo incentrato sui futuri che verranno, sulle meraviglie della tecnologia e poco attento alla realtà attuale delle persone. Una realtà fattuale che racconta storie quotidiane composte da frustrazioni reali, preoccupazioni legate alla precarietà e alla perdita del posto di lavoro, alla crescente povertà (quanti sanno che su una popolazione di 300 milioni di abitanti negli Stati Uniti i poveri censiti sono 105 milioni?) e disuguaglianza (in crescita esponenziale tra il 2006 e il 2014 secondo una ricerca McKinsey del 2016), che sono un prodotto di una società altamente tecnologica e al tempo stesso ineguale e ingiusta.
Chi interagisce con la tecnologia in modo critico e consapevole, sente forte e urgente la necessità di pensare che la delega concessa ai monopolisti tecnologici non sia senza conseguenze, rischi futuri ed effetti. Riflettere sulla necessità o meno di confermare questa delega o di ritirarla è un modo per sperimentare modi diversi di vivere e di rispettare gli altri. Anche per riaffermare un ruolo individuale, una scelta valoriale, esercitando una responsabilità morale fondata sulla libertà di scelta conflittuale. Una pratica che, in ambito politico e nel ruolo di elettori, il 50% del popolo italiano, che ancora vota, sta sperimentando da alcuni anni portando dalle (5) stelle alle stalle (#renzibyebye), in tempi politicamente brevi, politici di razza così come bravi ragazzi improvvisatisi statisti e strateghi.
Nel conformismo dilagante determinato dalla complicità gratificante che caratterizza la relazione con le piattaforme social, il rischio è di trovarsi isolati, soli e abbandonati, a causa dell’incertezza che sempre accompagna scelte individuali, non legittimate da autorità esterne o dall’appartenenza a una comunità di persone che fanno e sostengono scelte simili. Fare una scelta consapevole è un modo per costruire o rafforzare la propria identità personale ma anche per favorire il nascere di un’identità allargata, accettata socialmente e riconoscibile da un numero crescente di persone che fanno scelte conformi o condividono la necessità di farle. In questo senso una scelta critica e responsabile è anche una scelta etica, morale e politica, una scelta pubblica fatta anche per gli altri, come membri di una comunità umana che non si arrende alla disumanizzazione incombente che sta portando al dominio delle macchine, dei loro algoritmi e del software.
La critica dei mezzi tecnologici può essere il frutto di una scelta di libertà, ad esempio per difendere meglio la propria privacy. Un modo per combattere una mentalità diffusa, introiettata da molti, che sposa e suggerisce la resa ai modelli di business, ai meccanismi e alle pratiche che caratterizzano le piattaforme tecnologiche. Una resa che viene esercitata anche quando esse, come strumenti mediali, sono portatrici di menzogne e false notizie, di misinformazione, disinformazione, e falsificazione semantica della realtà.
L’esercizio politico della critica
Approcciarsi in modo critico alla tecnologia è un modo per resistere alla fusione in corso con le macchine e per evitare che essa avvenga anche con le aziende che le producono e le gestiscono (sul tema numerosi sono i film di fantascienza che ne anticipano probabilmente il futuro distopico possibile). Il loro obiettivo finale è la fusione con la nostra mente, la strategia praticata è il sequestro dell’attenzione, il risultato perseguito è l’accumulazione di dati e informazioni attraverso l’hackeraggio di ciò che le persone pensano, dicono e fanno. Una pratica quest’ultima che abbiamo visto all’opera nel rendere innocui movimenti sociali di protesta come Occupy Wall Street o le Primavere Arabe che sono stati assorbiti nello storytelling asfissiante dei media o sono state usati per obiettivi opposti a quelli che li avevano animati.
Stessa sorte è capitata anche ai Gilet Gialli, infiltrati dai partiti di destra e sinistra ma anche cloroformizzati dalla eccessiva mediatizzazione dei gesti violenti e ribelli. Nel caso delle Primavere Arabe la trasformazione ha portato a nuove dittature e al fondamentalismo dell’ISIS. Occupy Wall Street non è morto ma nessuno ne parla più, potrebbe però risorgere nella campagna elettorale per le prossime elezioni presidenziali americane del 2020. Nel frattempo, i media hanno spostato la loro attenzione sul movimento ambientalista che si è manifestato intorno a Greta Thunberg. Probabilmente con lo stesso obiettivo, dare spazio televisivo al movimento per assorbirlo, assimilarlo e renderlo innocuo, trasformandolo in storytelling e favole per bambini adulti, in una semplice galleria di belle immagini animate, una iconografia alla Bansky di Greta, di selfie di ragazzi e ragazze in posa con cartelli ironici e in inglese, trattati come se fossero stati fatti appositamente per essere ripresi dalle videocamere e dagli YouTuber, per ottenere migliaia di Like ed essere condivisi.
Ciò che sta avvenendo sta cambiando l’evoluzione umana trasformandoci in tanti cyborg e simbionti automatizzati, programmati con l’intento di impedirci una riflessione autonoma sulla nostra stessa esistenza, individualità psichica (in qualche modo sempre più anestetizzata), autonomia e libertà. Su tutto questo è giunto il tempo di meditare, di riflettere cimentandosi nella critica e nella conflittualità per ristabilire la libertà morale della scelta. Un approccio utile a ottenere un semplice risultato: contrastare la cultura egemonica corrente che guida le strategie delle aziende della Silicon Valley, il loro essere al servizio di governi e infrastrutture di controllo istituzionale correnti, la loro rapacità di dominio e volontà di potenza. La meditazione così come il ragionamento e la riflessione, sono resi difficili da “[…] società tecnologiche [che] stanno distruggendo qualcosa di prezioso, ovvero la possibilità di meditare, poiché hanno creato un mondo nel quale siamo costantemente monitorati e continuamente distratti” (I nuovi poteri forti, Franklin Foer, 2018).
Alla base delle strategie di queste aziende non ci sono soltanto obiettivi finanziari e di mercato. Essendosi trasformate in sette religiose, con le loro chiese, papi secolarizzati ma ricchissimi, pratiche di fede millenaristiche, newage e palingenetiche, sono propugnatrici di ideologie libertarie e rivoluzionarie. Il tutto in un periodo storico che considera morte le ideologie del Novecento quali la psicanalisi, il cristianesimo e il marxismo ma è alla ricerca di sempre nuove ideologie e teorie di interpretazione della realtà e del mondo. Si sentono spinte da una vena messianica finalizzata alla realizzazione pagana e new age di nuovi paradisi sulla Terra. Sono guidate da leader carismatici che non perdono occasione di salire sui palcoscenici mediali per agire come novelli evangelisti e armati come lo era San Paolo, impegnati nella scrittura e nella narrazione delle evoluzioni umane future ma anche per imporle, armi in pugno. Come se si fossero fatti carico del determinismo darwiniano per portare il genere umano alla sua nuova fase evolutiva, quella dalla quale l’essere umano così come lo conosciamo oggi potrebbe essere escluso (sul tema suggerisco la lettura del libro Homo Sapiens – Da animali a Dei di Yuval Noah Harari), sostituito da corpi cyborg, da macchine dotate di cervelli più efficienti perché privati delle componenti irrazionali ed emozionali che caratterizzano quelli umani.
Le chiese della Silicon Valley
Ognuna delle aziende tecnologiche della Silicon Valley, attraverso i propri centri direzionali, ha dato forma anche fisica alle proprie mire messianiche. Le sedi di Apple, Google, Facebook e presto anche quelle nuove di Amazon (forse a New York) sono state erette come se fossero cattedrali di San Pietro o moschee della Mecca che aspirano all’eternità, pensate per la celebrazione di culti secolarizzati che non rifiutano la trascendenza, come quelli delle religioni tradizionali. Al tempo stesso Elon Musk, fondatore di Tesla, forse l’evangelista più visionario, un San Paolo del terzo millennio, sta lavorando alla costruzione di una chiesa su Marte e a predisporre i mezzi di trasporto per renderne frequentate messe e cerimonie.
Nelle strategie di Google, ma sarebbe meglio dire di Alphabet (Google va ben oltre il motore di ricerca ma anche delle reti neurali di DeepMind[1]) la spinta messianica si manifesta nel tentativo dichiarato di superare i limiti della mente umana, investendo somme ingentissime per predisporre quanto serve a realizzare macchine dotate di un’intelligenza artificiale, capace di replicare e in futuro superare quella umana. Obiettivo percepito come a portata di mano considerando l’evoluzione tecnologica in ambiti quali il Cloud Computing, i Big Data, l’intelligenza artificiale, gli algoritmi e gli strumenti di analisi dei dati.
Le strategie di Facebook sono assimilabili a quelle della setta dei Dianetici. Le piattaforme di social networking e di messaggistica non sono altro che potenti strumenti di condizionamento cognitivo e della volontà, finalizzati alla dipendenza o alla complicità, al conformismo dei sentimenti e dei comportamenti, all’automazione delle reazioni e all’impedimento di ogni forma lenta di pensiero. E perché no anche all’esborso generoso di denari (i profitti che Apple incassa su ogni iPhone venduto e la felicità generosa di chi lo acquista è solo uno dei molteplici esempi). Il tutto perseguito attraverso il software delle piattaforme social, gli algoritmi che ne gestiscono procedure e funzionalità, e la trasparenza radicale richiesta agli utenti che li rende protagonisti e vittime designate al tempo stesso. “Facebook – scrive Franklin Foer - cerca costantemente di interferire con la visione del mondo dei suoi utenti, di influire sulla qualità delle notizie e delle opinioni cui consente di emergere dal frastuono, di modificare il livello del discorso politico e culturale per catturare l’attenzione dei suoi utenti per qualche istante in più”. Facebook va ben oltre le notizie e il loro consumo, punta alle emozioni, cerca di manipolarle psicologicamente con l’obiettivo di creare partecipazione, condivisione e viralità.
È in questo modo che la piattaforma sociale di Facebook è stata usata nelle ultime elezioni presidenziali americane che hanno influenzato la democrazia del più importante paese del mondo e portato alla elezione di Trump come presidente per il più potente paese al mondo. I fatti, spesso semplici opinioni, sono stati trattati come rilevanti, indipendentemente dalla loro veridicità o falsità, e a prescindere dalla loro provenienza, reputazione e autorevolezza. È così che le false notizie si sono fatte strada nelle menti di masse di persone, più abituate a cercare conferme alle loro opinioni che alla ricerca della verità (“la verità non si dimostra a quelli che per sé stessa non la cercano”[2]), pronte a sposare qualsiasi argomentazione complottistica e cospirazionista, piuttosto che cercare spiegazioni più complesse. Moltitudini che alla vita libera hanno preferito la vita confortevole, che si sentono costantemente mobilitate (obiettivo mai riuscito neppure a Goebbels), che hanno probabilmente rinunciato al loro libero arbitrio, a fare delle scelte, in modo consapevole, motivato e cosciente. Scelte capaci di portare a destinazioni e attraverso percorsi diversi da quelli programmati da altri, di alimentare comportamenti di resistenza (pratica che in filosofia era propria dei cinici e oggi dei Tecnocinici, ribelli del dubbio anche se non del dubitare su tutto) nei confronti di entità esterne che puntavano ad alterare la capacità di valutazione e giudizio, in modo da poter tele-guidare i processi decisionali, alimentare il consumo di informazioni, con l’obiettivo di condizionare menti e comportamenti, non solo elettorali.
La politica cinguettante
Twitter non ha soltanto portato all’estinzione le agenzie di stampa, è diventato strumento privilegiato di potere e comando. Unitamente a Facebook, la piattaforma di Twitter ha cambiato la politica mondiale evidenziando il potere crescente della tecnologia ma soprattutto quello dei potenti che la usano.
La volontà di potenza della tecnologia non si esprime soltanto nelle aspirazioni monopolistiche delle élite tecnologiche e delle aziende della Silicon Valley. Si manifesta nell’uso politico che viene fatto degli strumenti tecnologici per condizionare opinioni e scelte elettorali da parte di novelli e spregiudicati leader politici, cresciuti a Nutella e MiPiace e che hanno compreso quanto la tecnologia abbia cambiato la testa delle persone, predisponendola a nuove forme di comunicazione breve e senza alcun controllo, a esperienze politiche che danno l’illusione della piena libertà e della democrazia diretta. A trarre vantaggio di questa nuova situazione non sono però i cittadini o gli elettori ma pochi leader nella veste di influencer (Trump, Salvini, Le Pen, Grillo, Wilders, ecc.) che, consapevoli del potere che possono rapidamente acquisire con il mezzo tecnologico, tendono a disintermediare qualsiasi realtà democratica tradizionale per costruire una relazione diretta con loro. Facendolo spesso in modo autoritario, cavalcando le paure, le fobie e le paranoie delle persone, sfruttando in modo cinico gli strumenti tecnologici per esasperare emozioni e situazioni in tema di immigrazione, sicurezza, domino delle élite e assenza di lavoro.
In questa realtà, modificata politicamente e tecnologicamente, destra e sinistra hanno smesso di essere due baricentri valoriali. Anche se le elezioni di febbraio 2018 in Abruzzo sembrano avere indicato diversamente, tutto suggerisce che politicamente non siamo più né di destra né di sinistra ma semplicemente agnostici, rassegnati o populisti, diventati infedeli quando esprimiamo il nostro voto. Socialmente condizionati dall’incertezza, dalla precarietà e dalla stanchezza. Personalmente smarriti, alla ricerca costante del nostro sé perduto, in qualche modo disperso, disintermediato e frammentato nei mille alter ego (la catastrofe Sé disintegrato) con cui abbiamo trasformato lo spazio virtuale nella nostra residenza ufficiale. Politicamente pronti a spostarci da destra a sinistra, senza trascurare il centro e le ali estreme movimentiste, in base alle parole chiave del momento, ai tag, ai cinguettii e alla loro viralità.
Grazie alla forza attrattiva del mezzo tecnologico, alla sua velocità e potere, i leader politici del momento possono esercitare il comando, spesso nello stesso modo con cui viene esercitato dai loro padroni su animali domestici come i cani (da alcuni uomini anche sulle donne, come si evidenzia dal numero crescente di violenze familiari e femminicidi). Animali il cui addestramento non richiede grande capacità comunicative, che si esprime con ordini brevi e chiari e che produce quasi sempre l’effetto desiderato. Salvo quando l’animale, spaventato, obbedisce ad altre tipologie di comando o impulso interiore che lo portano alla fuga e a nascondersi (sul comando suggerisco di leggere o rileggere il libro Massa e Potere di Elias Canetti, un testo dimenticato che andrebbe ripreso e rivalutato). La similitudine con il cane vale anche per un altro aspetto che caratterizza oggi la dipendenza dalle tecnologie e da chi ne ha il controllo, sia in termini tecnologici sia mediali. Chi si abitua a obbedire al comando conferma quanto ogni rapporto di proprietà si traduca in una sudditanza nella quale, il cane, lo schiavo, il cittadino, l’elettore finiscono per accettare una forma di sudditanza, di servitù volontaria e di complicità. Come quella che lega il cane al padrone da cui dipende la sua alimentazione quotidiana, sopravvivenza e felicità (canina).
Le vittorie di Trump, l’affermazione della Brexit, la vittoria dei due movimenti populisti che governano in Italia, l’emergere della rabbia dei Gilet Gialli che ha distrutto l’immagine del nuovo Re di Francia, sono tutti fatti imprevedibili, che hanno sorpreso e colto di sorpresa. Soprattutto opinionisti e media, impreparati a intuire il nuovo che emerge perché dotati di lenti, concetti e culture ormai superati, qualcuno direbbe novecenteschi. Oppure con la mente digitale ben fatta ma asserviti al potente vincente di turno.
L’incertezza sociale nasce dalla precarietà determinata dalla diseguaglianza crescente e dalla concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi a scapito dei più. La stanchezza è reale, fisica e psichica, determinata dalla difficoltà nel garantirsi un reddito dignitoso e dalla fatica di vivere, in senso letterale. Lo smarrimento personale, di noi occidentali, è il risultato di tutte queste cose insieme ma anche dell’aver perso per strada la capacità riflessiva, l’attitudine a riflettere sulla propria esperienza vissuta, sulle sfide mentali che da essa sono generate. Anche con l’obiettivo di capire come capiamo noi stessi e le cose cha fanno parte della nostra esperienza.
Chi volesse cimentarsi nell’arte delle domande per comprendere meglio i collegamenti tra realtà tecnologiche e politica può leggere il libro di Michiko Kakutani, La morte della verità. Un testo scritto da una reporter americana per condividere una riflessione sulla democrazia americana e sui rischi che essa corre in epoca tecnologica e Trumpiana. Il libro inizia con una citazione di Hannah Arendt (è un segno dei tempi che i libri di questa immensa pensatrice siano oggi ripubblicati) che ben si adatta alla riflessione che sto condividendo in questo scritto. La citazione è tratta da Le origini del totalitarismo ed è usata per far riflettere sulle similitudini tra periodi ed eventi storici diversi: “Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione tra realtà e finzione (cioè la realtà dell’esperienza), tra vero e falso (cioè i criteri di pensiero) non esiste più”.
Le persone che oggi condividono le molteplici falsità circolanti in Rete, in particolare quelle messe in circolazione da politici, diventati troll tecnologici dotati di neo-lingue, inventate appositamente per manipolare semanticamente la realtà attraverso la forza del linguaggio, hanno rinunciato al loro stato di cittadini, a esprimere il loro diritto di indignarsi come atto consapevole di critica e di cittadinanza. Può darsi che ciò sia il risultato della disillusione politica, del senso di impotenza accumulato negli anni, della stanchezza e del cinismo che ne sono derivati. È in ogni caso una resa colpevole alla disinformazione e alla (auto)propaganda, alla menzogna e alla manipolazione, che dovrebbe fare riflettere tutti sui pericoli che stiamo correndo. L’ignoranza dei fatti, l’indifferenza, l’insensibilità, un’informazione acquisita soprattutto attraverso i media sociali, il lasciarsi guidare dalle emozioni più che dalla razionalità, un linguaggio abbreviato e veloce, stanno rendendo complicato ai più rilevare la verità oggettiva, facilitando la credulità, la manipolazione delle idee e dei comportamenti.
Fake news e analisi dei fatti
La rinuncia o l’incapacità ad analizzare i fatti sono all’origine della diffusione di Fake News e fatti alternativi (denominazione collegabile a Trump, ma attività già praticata vittoriosamente da Lee Atwater, il guru della comunicazione di Bush senior e oggi protagonista di un romanzo di Antonio Monda), post-verità e narrazioni inventate e false. Falsi si rivelano spesso anche i numeri che accompagnano testi, notizie e contenuti online nella forma di MiPiace, di faccine, follower e condivisioni. Numeri e Fake News nascono sempre più spesso da attività pianificate (Clickbaiting, Like farming, ecc.) finalizzate alla falsificazione dei dati online, alla disinformazione o a obiettivi commerciali. Le conseguenze possono però essere pesanti e non solo perché vengono negati i fatti. La diffusione di false notizie aumenta il relativismo e il nichilismo, l’indifferenza alla ricerca di verità e l’irresponsabilità (se un politico mente dovrebbe essere delegittimato dall’opinione pubblica e dai media, al contrario viene celebrato e votato).
“Quando si tratta di diffondere fake news e di minare la fiducia nell’obiettività – scrive Michiko Kakutani – la tecnologia si è dimostrata un acceleratore altamente infiammabile” (ne sa qualcosa il nostrano Salvini). Di questa potenzialità negativa bisogna rendersi conto e prendere coscienza. Esiste un lato oscuro della tecnologia che, forse erroneamente, continuiamo a pensare come “catalizzatore di trasformazioni innovative”. Il lato oscuro emerge, in questi tempi movimentati e incerti, nelle forme di comunicazione politica adottate da movimenti populisti che usano la Rete e le sue piattaforme per attivare la componente rettiliana del cervello delle persone. Lo fanno puntando su un tipo di informazione e comunicazione che privilegia i proclami, il sensazionale, l’offesa, la violenza e la brutalità verbale, il tutto per accalappiare consensi ma soprattutto per tenere sempre alta l’attenzione. Lo fanno ben conoscendo gli impulsi pre-politici che spingono i destinatari dei loro messaggi alla condivisione, impulsi generati dall’indignazione, dal timore, dalla paura, tutte emozioni sapientemente alimentate. Con le loro narrazioni semplificate (“Mussolini ha fatto anche cose buone!”) condizionano la nostra capacità di riflettere criticamente e riducono la chiarezza dei nostri sentimenti, operano una vera e propria distrazione di massa, non molto diversa da quella che, per altri motivi e finalità, compiono altri protagonisti dell’era digitale come i proprietari delle piattaforme tecnologiche.
In politica cliccare e cinguettare è diventato un modo irriflessivo di essere presenti, di rappresentare e sentirsi rappresentati, senza partecipare realmente a nulla se non per avere detto e lanciato nello spazio digitale un semplice cinguettio. Dal didentro di piattaforme tecnologiche online è un modo, in parte inconsapevole e in parte complice, di promuovere senza alcuna riflessione contenuti promozionali e pubblicitari, a tutto vantaggio di chi queste piattaforme possiede e controlla. Consapevoli dei meccanismi delle piattaforme social e delle abitudini di chi le usa (due terzi delle persone dichiarano di informarsi almeno in parte tramite i social network) i politici dell’era digitale si appoggiano agli algoritmi tecnologici affidando a loro e ai meccanismi che li governano i loro messaggi e proclami, anche quando si tratta di notizie false, costruite ad hoc o manipolate. Messaggi, cinguettii e proclami non hanno la funzione di comunicare verità ma quella più semplice ed efficace di generare familiarità e condivisione. Facili da ottenere attraverso la frequente ripetizione dei messaggi che alla fine li rende veri anche quando non lo sono.
Per difendersi dalla politica dei cinguettii e dei MiPiace che creano illusioni di verità è necessario trovare motivazioni forti finalizzate a riconoscere la superficialità, la scarsa accuratezza delle fonti e l’inaffidabilità del messaggio. Non bisogna semplicemente assimilare rapidamente il messaggio e andare oltre ma alimentare la capacità di comprendere e vivere la complessità, coltivare e alimentare l’intelligenza, la conoscenza e la capacità di pensare criticamente. Un modo per contrastare la disuguaglianza cognitiva, coltivata ad arte da chi interpreta oggi il comando e il potere puntando a trasformare tutti in branco, in moltitudini[3] molteplici e multicolori le cui differenze vengono però scolorite e assorbite fino a essere annullate. Non intraprendere un percorso di conoscenza può tradursi in disuguaglianze ulteriori future, per la maggiore difficoltà nel praticare il cambiamento continuo che sarà necessario in qualsiasi tipo di scenario futuro.
Il progresso tecnologico attuale obbliga a fare i conti con la complessità crescente e l’imprevedibilità, la necessità di adattamento, la flessibilità e la predisposizione all’apprendimento. Non quello meccanico, che nasce dall’assuefazione o da comportamenti pavloviani ma quello in grado di produrre un cambiamento reale, anche nello stesso processo di apprendere. Per trarre un effettivo vantaggio dalle tecnologie è necessario studiarle e conoscerle, senza soffermarsi al loro semplice utilizzo superficiale. Per studiarle è importante disporre delle competenze cognitive necessarie, che non possono che essere il risultato di un’istruzione, di cambiamenti e adattamenti frutto di apprendimenti precedenti.
Le nuove tecnologie non permettono soltanto di fare meglio e diversamente molte cose, obbligano ogni individuo ad analizzare se e quanto sia pronto ad affrontare le sfide da esse poste. Essere abili nel dominare le funzionalità dei media sociali non basta, bisogna saper riflettere su quanto e come queste esperienze stiano modificando il modo di pensare e le scelte che si fanno.
Chi non lo farà si troverà a essere meno preparato ad affrontare le sfide del futuro ma anche a usare in modo proficuo le tecnologie alle quali ha accesso. Interrogarsi, porsi delle domande, intrattenere una relazione conflittuale e dialettica con la tecnologia è un atto sociale e politico, ribelle, a volte anche sovversivo.
Non è un esercizio da snobbare o lasciare a pochi intellettuali o influencer di turno che giocano a fare i filosofi. È ciò che serve a potersi muovere con maggiore efficacia negli scenari futuri dell’infosfera, a limitare la disuguaglianza crescente della fase attuale del turbo o tecno-capitalismo e a costruire prospettive e scenari alternativi.
Indice del libro
- Osare pensare
- Una riflessione sulla tecnologia è necessaria
- In viaggio
- Qualcosa non funziona più
- Andare oltre la tecnologia
- Un appello per scelte non binarie
- Intelligenze artificiali e umane
- Libertà di scelta come possibilità
- Homo Sapiens: una evoluzione a rischio
- Ruolo e criticità della tecnologia
- Costruire narrazioni diverse
- Menti hackerate e azioni da intraprendere
- Tempi irreali e mondi paralleli
- Mondi virtuali, memi virali e contagiosi
- Il ruolo che dobbiamo esercitare
- In culo alle moltitudini
- πάντα ῥεῖ, tutto scorre
- Il dominio delle macchine
- Media digitali e dimensione umana
- Leggerezza virtuale e pesantezza del reale
- La realtà come gioco
- Il grande inganno
- Mettersi in cammino
- Il tempo tecnologico è viscoso e agitato
- L’illusione del tempo presente
- Immediatezza come registrazione
- Il recupero della lentezza
- Deleghe in bianco e scelte fuori dal coro
- Potenza, vitalità e velocità delle immagini
- Il tempo dimenticato
- Reale e virtuale convivono
- Finzioni digitali e realtà
- Multiverso lento
- Via dalla pazza folla
- Il ruolo delle emozioni
- Emozioni chimiche digitali
- Emozioni algoritmiche
- Macchine intelligenti e assistenti personali
- Emozioni e sofferenza
- Tecnologia strumento di libertà
- Trasformazioni cognitive
- Interazioni uomo-macchina
- Esseri umani o burattini
- Scimmie allevate per consumare
- Internet da spazio libero a mondo chiuso
- Libertà perdute, libertà simulate
- Libertà illusorie
- Scelte binarie e libertà illimitata
- La libertà non fa regali
- Sapere di non sapere
- Strade accidentate e coraggio
- Coltivare gli orti del pensiero
- Pratica del silenzio e tempi lenti
- Metterci la faccia
- Dubitare ora dubitare sempre
- Per dubitare serve una pausa
Gatti, asini e canarini, voliere, acquari e gabbie di vetro
- Comportiamoci da gatti
- Pesci in acquario
- Le voliere di Twitter
- La gabbia è di vetro ma riscaldata
- Cambiare aria
- Mura ciclopiche, barriere e porti chiusi
- La metafora dell’asino
Attraversare la cornice del display
- Oltre la cornice dello schermo
- Contestualizzare la tecnologia
- La potenza delle immagini che ci guardano
- Perdere la vista
- Attenzione distratta
- Algoritmo maggiordomo ruffiano
- Algoritmo invisibile ma non trasparente
- Un algoritmo fintamente autonomo
- L’algoritmo calcolatore
- Ribellarsi all’algoritmo
- Poteri totalitari ma sorridenti
- Fedeltà vado cercando
- Tecnocrazie nichiliste alla ricerca di delega
- Libertà, lavoro e diritti
- Preoccuparsi è meglio che non farlo
- L’esercizio politico della critica
- Le chiese della Silicon Valley
- La politica cinguettante
- Fake news e analisi dei fatti
- Domande, domande, domande
- Dipendenze e rinunce alle dosi quotidiane
- Esercitare l’arte delle domande
- Un elenco di domande possibili
- Le opzioni della scelta
- Difficoltà esistenziale della scelta
- Scelte lenti e consapevoli
- La libertà di scelta online
- Scegliere la gentilezza
- C’è bisogno di amicizia e solidarietà
- Reti di contatti e reti amicali
Note
[1] DeepMind è un'impresa britannica di intelligenza artificiale controllata da Alphabet. Fu fondata nel 2011 come DeepMind Technologies e fu acquisita da Google nel 2014. Wikipedia)
[2] Ibid La cabala dell’asino di Nuccio Ordine
[3] La moltitudine è diversa dal popolo e dalla massa. Popolo e massa hanno una loro entità unitaria (il popolo è uno), la moltitudine è molteplice e basata sulle differenze. Le masse, descritte magistralmente da Elias Canetti, ma anche da Toni Negri e Michael Hard nel loro libro Moltitudine, tendono alla concentrazione e a formare conglomerati uniformi. La moltitudine è aperta, applicabile concettualmente al modello di Rete.