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La morte non è più soltanto un evento biologico o un fatto intimo da elaborare nel silenzio del lutto. Nell’era digitale, le tracce che lasciamo online sopravvivono a noi stessi: profili social, chat, immagini, archivi che continuano a parlare anche quando la vita si interrompe. Tecnologie emergenti trasformano questa eredità immateriale in presenza attiva, attraverso avatar, chatbot e piattaforme che promettono di mantenere vivo il legame con chi non c’è più. È un cambiamento che solleva domande profonde: fino a che punto siamo disposti ad affidare la memoria e la nostra identità a una macchina? E cosa accade quando il confine tra ricordo e simulacro diventa sempre più sottile, confondendo vita, morte e persistenza digitale?


Qualche giorno fa mi sono imbattuto in un articolo di Lavinia Capogna pubblicato qui sulla Stultifera Navis, dal titolo "Lorraine Hansberry, una scintilla che non si spegne".

Leggendolo mi sono ritrovato a pensare alla morte. Non tanto in senso esistenziale o spirituale, quanto nella sua relazione con la tecnologia e con l’intelligenza artificiale. È un tema che sembra appartenere alla filosofia, ma che oggi ci tocca da vicino, perché la trasformazione digitale investe persino il modo in cui elaboriamo il lutto e custodiamo la memoria dei defunti.

Su questo punto permettetemi di ricordare un episodio personale. Alla fine degli anni Novanta, quando Internet era appena arrivata in Italia, un amico mi commissionò un programma per un’azienda che forniva servizi ai comuni. Il programma doveva contabilizzare il consumo elettrico delle lampade votive nei cimiteri. Lo sviluppai in Python, perché mi trovavo a mio agio per pilotare i sensori che avevo scelto di usare. Ma l’idea che mi affascinava di più era un’altra: sfruttare la circuiteria conta tempo e il qualche altra riga di codice per fare una specie di "promemoria" per inviare, ogni anno, nel giorno dell’anniversario, via e-mail una frase ricordo come fosse stata detta dal defunto ai familiari.

L’intuizione mi venne ripensando a un vecchio programma che da ragazzo avevo scritto sul Commodore 64 per una radio locale: un generatore automatico di oroscopi, che combinava frasi preconfezionate e veniva letto ogni giorno da una speaker in diretta. Del resto cosa sono altrimenti gli oroscopi a cui molti credono, se non "frasi fatte" adattabili ad una platea di suggestionabili creduloni?

Immaginai di fare lo stesso con le parole dei defunti: un generatore di “messaggi dall’oltretomba”. Allora non vivevo a Milano e trasformare in business idee del genere era molto più difficile: restarono intuizioni, visioni isolate. Ma oggi, a distanza di decenni, mi accorgo che quelle stesse idee sono diventate industrie globali.

Viviamo infatti in un’epoca in cui le tracce digitali sopravvivono alle persone.

Profili social, chat, immagini, video: un archivio che resta, anche quando la vita biologica si interrompe. Qui entra in gioco un campo emergente, quello delle tanatecnologie (thanatechnologies). Con questo termine si indicano le tecnologie del lutto: strumenti e piattaforme che raccolgono e organizzano i nostri resti digitali, trasformandoli in entità potenzialmente immortali. Non è più solo la lapide a custodire un nome e una data: sono gli algoritmi a rendere accessibile, replicabile, interattiva la memoria.

Pensiamo ai cosiddetti deadbot, applicazioni basate sull’intelligenza artificiale che consentono di dialogare con una rappresentazione digitale di una persona scomparsa. Sono costruiti utilizzando i dati prodotti in vita: messaggi, email, contenuti social. Da un lato, questi strumenti offrono la possibilità di mantenere viva una relazione simbolica, trasformando il ricordo da passivo a interattivo. Dall’altro, pongono enormi rischi psicologici ed etici. Ho letto da qualche parte, ora non ricordo con precisione dove, che esiste la possibilità che i deadbot ostacolino il naturale processo di elaborazione del lutto, creando una dipendenza emotiva verso un simulacro tecnologico.

La questione non riguarda soltanto il dolore individuale. C’è anche un’intera industria del lutto digitale, guidata dal profitto.

Aziende promettono di conservare la memoria dei defunti attraverso avatar, chatbot e piattaforme di eredità digitale come Facebook Legacy o Google Inactive Account Manager. Si tratta di un mercato globale che intreccia emozione e business, tecnologia e spiritualità, memoria e consumo. In questa direzione si muove la riflessione di chi parla di tanatecnologie come di un settore industriale vero e proprio, fondato sulla monetizzazione della morte.

A fianco delle inquietudini, emergono anche narrazioni ibride, a metà tra ironia e distopia. Penso al caso raccontato da Agnese Vellar, che nel suo progetto HALpaca.ai descrive un animale-guida virtuale, creato come forma di elaborazione personale. La sua invenzione, ispirata all’immaginario di HAL9000, ribalta la prospettiva: non più una macchina minacciosa, ma una creatura tenera, quasi surreale, che diventa compagna e musa per raccontare la relazione sentimentale tra marketing e intelligenza artificiale. Non è la morte al centro, in questo caso, ma un altro tipo di perdita: quella di un desiderio negato e la sua trasfigurazione in un oggetto digitale. È un esempio che mostra come l’immaginazione umana riesca a rielaborare anche il lutto – in senso lato – attraverso l’ibridazione tra artificiale e simbolico.

In prospettiva epistemologica, tutto questo solleva domande radicali. La morte non è più soltanto un confine biologico, ma una soglia che la tecnologia ridisegna continuamente.

Se un avatar continua a parlare con la mia voce, se un deadbot risponde ai messaggi dei miei cari, se le mie foto restano nei social per decenni, dove finisce la mia identità? Siamo di fronte a una nuova forma di “vita eterna” digitale, diversa da quella religiosa, ma altrettanto densa di implicazioni.

Non è immortale il corpo, ma la memoria algoritmica. Non è eterno lo spirito, ma il database.

Il rischio è che la memoria venga privatizzata, manipolata, trasformata in prodotto. Ma c’è anche la possibilità di ripensare il senso stesso della sopravvivenza simbolica. Le tanatecnologie ci costringono a ridefinire categorie fondamentali: presenza e assenza, ricordo e oblio, verità e simulazione. In un certo senso, viviamo già in un’epoca in cui la morte non è più totale: ciò che resta, digitale e immateriale, continua a interagire con i vivi. È un’eredità diversa, che ci obbliga a chiederci chi siamo quando non siamo più.

La domanda finale, dunque, non riguarda solo l’uso etico o psicologico di queste tecnologie. Riguarda la nostra capacità di accettare che la morte resti un limite, o al contrario la volontà di affidare persino quel limite a una macchina. Forse la vera sfida è mantenere il confine aperto, senza cancellarlo: sapere che si muore, ma che la memoria – nostra e altrui – può continuare, se usata con consapevolezza e misura.


Pubblicato il 17 agosto 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / omnia mea mecum porto