Questa riflessione nasce dalla noia di vedere quanti post, qui sulle poche piattaforme social che frequento e in Rete, si occupino di (algor)etica, di etica delle macchine e dell’IA, e dall’aver assistito a un dibattito tra una scrittrice libanese che evidenziava il lato puramente umano della sofferenza dei civili libanesi e Federico Rampini che mostrava un’assoluta insensibilità a questa sofferenza, tanto era impegnato a promuovere il suo ultimo libro scritto per ringraziare il nostro Occidente di esistere.
A tutto ciò collego i ricordi di alcune letture di Hannah Arendt sul buio nel quale l’umanità è precipitata (riferito ai suoi tempi ma ancora valido oggi in tempi di guerra) e l’insofferenza crescente verso un giornalismo (buona parte del mondo intellettuale non è da meno) sempre meno capace di raccontare i fatti e sempre più “embedded”, dentro cornici interpretative e cognitive del “così va fatto e così va detto” per non stare fuori dal coro del conformismo imperante nel quale ci siamo rintanati per paura della realtà e per evitare di fare i conti con essa. Infine dentro questa riflessione c’è, in questi giorni, la lettura illuminante del libro a-ideologico, storico e antropologico di Emmanuel Todd sulla sconfitta dell’Occidente.
Il punto di partenza di questa riflessione è quanto siamo diventati insensibili alla sofferenza lontana da noi (in realtà anche a quella a noi vicina) e incapaci di prendere in considerazione e riflettere il modo con cui questa sofferenza ci viene (rap)presentata e raccontata. Il modo è narrativo e fotografico (per immagini, foto, video, ecc.) e definisce la cornice prestabilita dentro la quale opera la nostra percezione dei fatti e della realtà. Una percezione che rimane tale e si consolida tale in mancanza di una presa di coscienza (consapevolezza), di un allargamento di conoscenza e in assenza di una riflessione animata da pensiero critico, capace di suggerire un agire etico, consapevole e responsabile.
L’insensibilità etica del nostro mondo occidentale (non so in verità cosa stia succedendo nel resto del mondo) verso la sofferenza rientra per me dentro la crisi della nostra civiltà occidentale, che è umana (umanistica), sociale, economica (disuguaglianze e ingiustizie), (psico)cognitiva, politica, delle élite e di leadership. È benissimo raccontata dalla prospettiva narrativa e visuale nella quale il nostro intelletto e il nostro sguardo sono costantemente ricondotti e condizionati, portandoci ad accettare come nostra una percezione in qualche modo indotta e fatta emergere da interpretazioni preconfezionate che la guidano e la determinano.
Considerando che si legge sempre meno o si legge veloce, un ruolo particolare lo hanno le immagini, di questi tempi tutte “lampeggianti” (chissà dosa direbbe Benjamin…) di fuochi, esplosioni e fiamme. Noi guardiamo queste immagini pensando di farlo come atto soggettivo e non ci accorgiamo che sono loro a guardarci (Horst Bredekamp), a presentarci la loro realtà selettiva, atomizzata, frantumata e dissociata. Ormai abituati a stare dentro mondi (caverne, voliere, acquari) precostruiti senza metterli in discussione facciamo ormai fatica a svolgere qualsiasi atto di volontà volto a interpretare la cornice e la sceneggiatura prima ancora che l’immagine o il testo che la racconta e la comprende. L’atto di volontà potrebbe portarci a pensare criticamente, a riflettere, a (de)coincidere, e infine ad agire.
In attesa che tutto ciò succeda, dovremmo provare a fare appello al nostro senso morale, se mai ce ne fosse ancora uno, non fermarsi ai tanti clichè narrativi ed estetizzanti della sofferenza, sforzarsi di capire, fermarsi a riflettere e poi provare a fare qualcosa.
"[...]intorno a noi si formava l vuoto [...] potevo constatare che tra gli intellettuali allinearsi era la regola" H. Arendt