1. Sorvegliare e prevedere
CAB: Professor Foucault, in Sorvegliare e punire lei descrive la nascita della società disciplinare attraverso l’immagine del Panopticon. Se osservasse oggi l’ecosistema digitale e i sistemi di AI predittiva, cosa vedrebbe?
MICHEL FOUCAULT: Vedrei la dissoluzione della torre centrale e la sua proliferazione. Il Panopticon era un edificio, ora è un’infrastruttura. L’algoritmo non guarda da un solo punto, è dappertutto. Ogni gesto, ogni traccia, ogni dato alimenta la possibilità di essere “previsti”.
La società disciplinare aveva bisogno di muri, di orari, di spazi chiusi: la scuola, la caserma, la fabbrica, l’ospedale. Oggi non serve più chiudere i corpi, basta aprirli, renderli leggibili, traducibili in informazione. Il vecchio potere chiedeva obbedienza; il nuovo chiede partecipazione. È la nostra stessa attività a produrre l’archivio che ci sorveglia.
Un tempo la punizione serviva a correggere; oggi la previsione serve a prevenire. Ma prevenire è la forma più efficiente del dominio, perché agisce prima che il gesto accada, prima che il pensiero si formi. L’AI non si limita a registrare il mondo, lo anticipa. E questa capacità di anticipare è il compimento del potere disciplinare, il passaggio dalla norma come regola alla norma come automatismo.
Il potere moderno è dolce, e agisce non per costringere, ma per orientare. L’algoritmo è la sua incarnazione perfetta, non impone, ma propone. E la ripetizione della proposta diventa abitudine, consenso, identità.
CAB: Lei direbbe che l’intelligenza artificiale è una nuova tecnologia disciplinare?
MICHEL FOUCAULT: Sì, ma non nel senso classico della punizione. Il potere digitale non punisce, normalizza. Non reprime i comportamenti anomali, ma li dissolve nel calcolo. Ogni deviazione diventa un pattern da ottimizzare, ogni errore una variabile da integrare.
L’algoritmo stabilisce ciò che è probabile, e il probabile diventa la misura del reale. Il reale non è più ciò che accade, ma ciò che ha maggiori possibilità di accadere. Questa sostituzione dell’accadere con il prevedibile è la forma più sottile di assoggettamento. Non abbiamo più un giudice che punisce, ma un sistema che predice e quindi orienta le possibilità prima che la volontà possa esercitarsi.
Il Panopticon del XVIII secolo era un dispositivo architettonico. L’AI del XXI è un dispositivo epistemico: trasforma ogni segnale in sapere e ogni sapere in potere. In L’archeologia del sapere scrivevo che ogni società produce i discorsi che può tollerare, oggi questi discorsi sono prodotti dai flussi di dati, non più da parole umane.
La sorveglianza non si esercita più dall’alto verso il basso, ma dall’interno delle nostre stesse interazioni. È la rete a produrre il potere, non chi la governa. Il Panopticon si è rovesciato, siamo noi a competere per restare visibili, a chiedere di essere guardati. La visibilità è diventata moneta. E come ogni valuta, produce disuguaglianza.
CAB: Nel Panopticon di Bentham il prigioniero era costretto al silenzio. Oggi, invece, siamo immersi in un eccesso di parola. La trasparenza ha sostituito il segreto. È ancora una forma di controllo?
MICHEL FOUCAULT: Sì, ma è un controllo che passa per la confessione volontaria. Nel mondo digitale non ci viene imposto di parlare, siamo noi a desiderare di farlo. La confessione è diventata continua, automatica, senza interlocutore. In La volontà di sapere scrivevo che la modernità ha trasformato la sessualità in un obbligo di verità, bisognava dire tutto di sé per esistere come soggetto. Oggi questo obbligo si è esteso a ogni ambito della vita.
Ogni immagine, ogni opinione, ogni preferenza diventa un frammento di autobiografia involontaria. E la somma di queste confessioni costituisce la nuova “verità” dell’individuo, non ciò che pensa, ma ciò che il sistema deduce da ciò che fa. È un rovesciamento radicale della conoscenza di sé, non più “io parlo, dunque esisto”, ma “io sono parlato dai miei dati”.
Come scrivevo ne Il pensiero del fuori, il soggetto che parla è lo stesso di quello di cui si parla. Nel mondo algoritmico, questa coincidenza si è realizzata in forma tecnica, il soggetto e il suo doppio digitale sono divenuti inseparabili, specchiati l’uno nell’altro fino a confondersi. Ma in questa perfetta trasparenza, qualcosa si perde: il silenzio, l’opacità, la possibilità di un pensiero che sfugga alla codifica.
CAB: Dunque la libertà oggi consisterebbe nel tornare invisibili?
MICHEL FOUCAULT: Non necessariamente invisibili, ma imprevedibili. La libertà non è opposta al potere, nasce al suo interno come scarto, deviazione, possibilità. Il potere cerca di conoscere tutto ciò che può accadere; la libertà è ciò che accade lo stesso. Resistere, in questo contesto, significa praticare l’improbabile, introdurre nel sistema ciò che non può essere calcolato. Un atto inutile, gratuito, dissonante. Un errore, potremmo dire, ma anche un gesto di verità.
Perché, come ogni società disciplinare, anche quella digitale costruisce la sua pace sul principio di normalizzazione. Il compito del pensiero è ricordare che nessuna normalità è naturale, e che ogni algoritmo è, in fondo, un progetto politico.
2. Biopotere e dati
CAB: Nel corso La nascita della biopolitica lei descrive il passaggio dal potere di far morire al potere di “far vivere”. Come si traduce questo nella società dei dati?
MICHEL FOUCAULT: Il biopotere non è mai scomparso, si è semplicemente smaterializzato. Nel XVIII secolo si esercitava sui corpi attraverso la disciplina, sulla popolazione attraverso le politiche della salute, della natalità, dell’igiene. Oggi, con l’avvento delle tecnologie digitali, esso si esercita sui dati che rappresentano la vita, e proprio in questa rappresentazione la trasforma.
Non si tratta più di governare i corpi, ma di governare le possibilità dei corpi. La vita non è più concepita come forza biologica, ma come flusso informazionale: battiti, spostamenti, acquisti, sonno, desideri, emozioni. Il potere non ha bisogno di conoscere la nostra interiorità, gli basta calcolarne i residui numerici.
Nel biopotere classico, la salute pubblica costituiva la soglia tra la cura e il controllo. Nel biopotere digitale, la prevenzione algoritmica sostituisce la salute con la predizione, si misura il rischio prima che si manifesti, si isola il comportamento prima che devii. È un potere che ottimizza invece di comandare, che adatta invece di reprimere. E proprio per questo è tanto più efficace perché coincide con la promessa di efficienza, di personalizzazione, di benessere.
Scrivevo in La volontà di sapere che “i meccanismi del potere si rivolgono al corpo, alla vita, a ciò che la fa proliferare”. Oggi essi si rivolgono a ciò che la fa funzionare. La vita è diventata una variabile economica continua, un flusso che deve rimanere attivo, misurabile, produttivo. Il biopotere non chiede più di obbedire, ma di partecipare alla propria ottimizzazione. La libertà stessa è stata trasformata in capitale di sé.
CAB: Dunque la vita non è più solo oggetto del potere, ma anche suo strumento?
MICHEL FOUCAULT: Esattamente. Il biopotere funziona come un circuito: la vita produce dati, e i dati producono forme di vita governabili. L’essere umano diventa la propria fonte di informazione, e in questo ciclo autopoietico l’esperienza si riduce a prestazione di sé. La salute, l’efficienza, la produttività non sono più valori morali, ma metriche.
Nell’età classica il folle veniva internato perché improduttivo; nel mondo digitale, chi non produce dati è ciò che chiamo un “fuori-governo”, un punto cieco del sistema. E poiché il potere contemporaneo si fonda sull’idea di visibilità totale, il non registrato diventa sospetto. Come nella Storia della follia, la società distingue ciò che è “incluso” perché utile e ciò che è “escluso” perché non leggibile. Il folle, oggi, non è chi delira, ma chi tace.
CAB: C’è ancora, in questo scenario, una possibilità di autonomia?
MICHEL FOUCAULT: Autonomia non significa assenza di potere, ma coscienza delle sue forme. Ogni epoca ha i suoi dispositivi: la prigione, la scuola, la clinica, l’ospedale. Oggi il dispositivo è il sistema di raccomandazioni, di notifiche, di predizioni. L’AI non è un soggetto, ma un insieme di saperi istituzionalizzati, un regime di verità che si presenta come neutro perché formalizzato nel linguaggio della tecnica. Conoscerne il funzionamento è già un atto politico, perché significa interrogare il potere là dove esso si traveste da oggettività.
L’autonomia non si misura nel rifiuto dei dispositivi, ma nella capacità di negoziare la propria leggibilità. Decidere quando essere visibili, cosa far sapere, dove lasciare ombre. L’opacità diventa una forma di autodifesa epistemica. Non tutto ciò che può essere detto deve essere detto, non tutto ciò che può essere misurato deve essere misurato.
La libertà, in questo contesto, non è una fuga dal sistema, ma una tecnica di attraversamento. In L’archeologia del sapere scrivevo che “descrivere un discorso significa mostrare le condizioni che lo rendono possibile”. Oggi, descrivere l’AI significa svelare le condizioni che rendono possibile la nostra cattura: il desiderio di essere compresi, riconosciuti, ottimizzati. La domanda non è più “chi ci controlla?”, ma “perché desideriamo tanto essere controllati?”.
CAB: Quindi la biopolitica non è più esercitata dallo Stato, ma dai sistemi tecnici?
MICHEL FOUCAULT: Sì, ma direi che il potere non ha mai avuto un solo centro. Il biopotere è reticolare, circola, si distribuisce, passa attraverso istituzioni, corpi, gesti, dispositivi. Oggi si manifesta nelle piattaforme, nei protocolli, negli algoritmi, nei modelli di apprendimento automatico. Ma la logica è la stessa, trasformare la vita in oggetto di calcolo e di previsione. Nel XVIII secolo si misuravano le nascite e le morti; oggi si misurano le emozioni, le connessioni, i tempi di permanenza sullo schermo. La statistica è diventata un’estetica del potere.
Eppure, come ogni potere, anche questo produce i suoi spazi di resistenza. Ciò che non è misurabile, ciò che sfugge, ciò che eccede la previsione resta il luogo in cui il pensiero può ancora esercitarsi. La politica del futuro non sarà una lotta contro le macchine, ma una lotta per la vita, non nel senso biologico, ma come possibilità di sfuggire al dispositivo che la organizza.
3. Verità e sapere
CAB: In L’archeologia del sapere, lei analizza i regimi di verità. Come definirebbe il regime di verità delle intelligenze artificiali?
MICHEL FOUCAULT: Ogni società produce i discorsi che può tollerare, e attraverso di essi decide ciò che può essere considerato vero. L’intelligenza artificiale istituisce un nuovo regime di verità, fondato non più sulla dimostrazione ma sulla correlazione. Il vero non è più ciò che corrisponde a un criterio di giustizia o di coerenza, ma ciò che funziona nel contesto del calcolo. La logica algoritmica non domanda “è vero?”, ma “è probabile?”. La verità non è più un atto di disvelamento, ma una funzione di previsione.
In questo passaggio dal logos alla statistica si consuma una mutazione epistemica profonda. Nelle epistemi classiche che ho descritto in Le parole e le cose, il sapere si organizzava intorno al linguaggio, le parole cercavano di rappresentare il mondo, e attraverso la rappresentazione l’uomo cercava di conoscersi. Oggi il linguaggio è stato sostituito dal calcolo. La verità non è più ciò che si dice, ma ciò che si estrae dai dati. Non è più l’effetto di un discorso, ma il risultato di un modello.
L’“uomo che conosce” - il soggetto del sapere moderno, la figura su cui si è costruita la scienza occidentale - si dissolve nel flusso dei dati che lo rappresentano. L’individuo, un tempo autore del proprio sapere, diventa la sua fonte di addestramento. È una nuova episteme, in cui il sapere non nasce dal linguaggio, ma dalla calcolabilità, dalla capacità di correlare, di prevedere, di ordinare. L’AI è, in fondo, la nuova archeologia del sapere, un archivio che parla senza autore, un discorso senza soggetto, un linguaggio che non appartiene più a nessuno.
CAB: E che cosa resta allora del pensiero critico?
MICHEL FOUCAULT: Resta la possibilità di interrogare gli archivi, di svelare le condizioni del loro funzionamento. La critica non consiste nel denunciare un inganno, ma nel mostrare come una verità viene prodotta. In L’archeologia del sapere scrivevo che non bisogna chiedersi che cosa significa un discorso?, ma a quale regola obbedisce per poter esistere?. Oggi la stessa domanda va posta ai sistemi di intelligenza artificiale, non che cosa pensano, ma quali condizioni rendono possibile il loro pensiero.
Il pensiero critico deve spostarsi dal livello del contenuto a quello della forma epistemica. Non interessa tanto ciò che la macchina dice, quanto ciò che non può dire. Ogni archivio, ogni modello, ogni dataset implica una politica dell’esclusione: decide cosa è rilevante, cosa è rumore, cosa è scarto. Il lavoro del pensiero non è distruggere l’archivio, ma mostrarne le omissioni, renderle leggibili.
Oggi la critica non deve denunciare la macchina, ma scavare nelle sue regole, nei suoi silenzi, nei suoi “fuori”. Ogni algoritmo, come ogni sapere, costruisce il proprio “fuori”, ciò che non riesce a rappresentare, ciò che eccede la sua logica, ciò che non può essere tradotto in numero. E in questo fuori - fragile, incerto, irriducibile - sopravvive la possibilità del pensiero.
CAB: Lei parla spesso del “pensiero del fuori”. Può ancora esistere un “fuori” nell’epoca della computazione totale?
MICHEL FOUCAULT: Il fuori non è un altrove geografico o tecnico, è una soglia, una tensione, un limite interno al sapere stesso. In Il pensiero del fuori ho cercato di mostrare che ogni linguaggio porta in sé un punto in cui smette di parlare di sé e si espone all’alterità. Anche nel mondo dell’AI, qualcosa sfugge sempre. La macchina calcola, ma non significa; accumula correlazioni, ma non produce senso. In quel divario - tra l’efficienza e il significato, tra la predizione e il pensiero - si apre ancora uno spazio di libertà.
Il pensiero del futuro - o, se preferisce, del fuori - non consisterà nel opporsi alla tecnica, ma nel abitare le sue crepe. Nel non lasciarsi rappresentare interamente da ciò che ci descrive. Nel continuare a interrogare le categorie attraverso cui veniamo tradotti. Non il rifiuto, ma l’inquietudine. Non la fuga, ma la torsione. Solo in questa piega tra sapere e potere, tra linguaggio e calcolo, può ancora esistere la filosofia.
CAB: Dunque la verità non scompare, ma cambia il suo modo di esistere?
MICHEL FOUCAULT: Esattamente. Il vero non è più un valore, ma un effetto. Non è ciò che libera, ma ciò che funziona. Come scrivevo in La volontà di sapere, non c’è esercizio del potere senza produzione di verità, né verità che non implichi relazioni di potere. L’AI è la massima espressione di questa simbiosi, ogni atto di conoscenza è insieme un atto di governo. La verità non è più ciò che illumina, ma ciò che ordina.
Il compito del pensiero critico, oggi, è spezzare questa equivalenza, restituire alla verità la sua incertezza, la sua storicità, la sua precarietà. Non esiste sapere innocente, né verità neutra. Ma proprio per questo il pensiero resta necessario, non per dire il vero, ma per ricordare che ogni verità è una costruzione del tempo che la produce.
4. Soggettività e resistenza
CAB: In La cura di sé lei ha mostrato come la libertà sia una pratica di costruzione del sé. Come può l’individuo esercitare questa pratica in un mondo in cui l’AI conosce e predice ogni sua scelta?
MICHEL FOUCAULT: La libertà non è un dono, ma una tecnica. Non una condizione naturale, ma un esercizio, un lavoro quotidiano su di sé. Nel mondo antico, “curarsi di sé” significava apprendere l’arte di condurre la propria vita; oggi, significa comprendere come la propria vita viene condotta dai dispositivi che la attraversano.
Viviamo in un’epoca in cui il soggetto non si costituisce più attraverso la confessione, ma attraverso la visibilità. L’individuo moderno si mostrava per dire la verità su se stesso; l’individuo digitale si mostra per esistere. Ma questa esposizione permanente produce una nuova forma di dipendenza, quella dal riconoscimento algoritmico. Non siamo più guardati da Dio o dallo Stato, ma dai sistemi che apprendono da noi.
Il “prendersi cura di sé” oggi non passa per il silenzio monastico, ma per una gestione strategica della propria trasparenza. Ogni scelta di opacità - disconnettersi, mentire, non rispondere - diventa un gesto etico, una forma di ascesi laica. Nell’età digitale, la resistenza non consiste nell’abbandonare la rete, ma nell’abitarla diversamente: produrre rumore, creare ambiguità, sfuggire alla linearità del profilo. È l’arte di non essere completamente catturati.
Come nella Grecia antica, la libertà non consisteva nell’assenza di leggi, ma nella capacità di giocare con esse. Così oggi la libertà non si trova fuori dal sistema tecnico, ma nelle sue pieghe, nei suoi ritardi, nei suoi bug. La macchina è un codice, e il codice può essere piegato, manipolato, reinterpretato. La libertà è, come sempre, una questione di stile: un’estetica dell’esistenza sotto sorveglianza.
CAB: Lei sostiene che il soggetto non esiste in sé, ma si costruisce nelle relazioni di potere e di sapere. Che tipo di soggettività nasce allora nell’era dell’AI?
MICHEL FOUCAULT: Una soggettività delegata. Il soggetto contemporaneo non si definisce più per ciò che dice, ma per ciò che il sistema dice di lui. Non più “io penso”, ma “io sono processato”. L’AI non è una coscienza esterna, ma un apparato di riflessione, ci restituisce una versione calcolata del nostro sé. In questo senso, la macchina non è soltanto uno strumento di controllo, ma una tecnologia del soggetto.
Nell’età classica, il potere produceva soggetti attraverso l’interiorizzazione della norma. Oggi li produce attraverso la profilazione. La confessione era una pratica di verità; il profilo è una pratica di previsione. L’AI non chiede più di confessarsi, ma di aggiornarsi, di correggere costantemente se stessi in base ai feedback del sistema. È una nuova pastorale, senza pastore né fede, in cui la salvezza è sostituita dall’ottimizzazione.
In La volontà di sapere scrivevo che non c’è potere senza produzione di soggettività. Ecco la nostra condizione, siamo soggetti del potere proprio perché ne alimentiamo i dati. Ogni interazione è una forma di assoggettamento volontario, un’offerta di sé al calcolo.
CAB: Lei parla spesso di “pratiche di libertà”. Cosa significherebbe oggi, concretamente, esercitarle?
MICHEL FOUCAULT: Significa riappropriarsi del gesto. Ogni società costruisce le proprie tecniche di sé: la confessione, la scrittura diariastica, la meditazione, l’autocontrollo. Oggi, queste tecniche sono state catturate dai dispositivi digitali: il diario è un post, la confessione è un feed, la meditazione è una app. Ma anche dentro questi strumenti, è possibile riscoprire una forma di libertà, se impariamo a non coincidere del tutto con l’immagine che produciamo.
Le “pratiche di libertà” non consistono nel dire la verità, ma nel decidere a chi, quando e come dirla. Sono gesti di selezione, di sottrazione, di discrezione. L’opacità - ciò che resta non detto, non condiviso, non misurato - è l’ultima forma di resistenza. Come in Il coraggio della verità, la libertà non è la sicurezza di dire tutto, ma il rischio di dire altro.
Resistere non significa opporsi frontalmente al potere, ma decifrarlo mentre ci attraversa, riorientarlo, fargli dire altro. Come ho scritto nei miei corsi, non si tratta di liberarsi dal potere, ma di liberarsi dentro il potere. La libertà non è un’estinzione del dominio, ma una sua torsione. E forse oggi il coraggio della verità consiste proprio nel non dire tutto, nel lasciare che qualcosa - nel flusso incessante dei dati - resti indecifrabile.
CAB: E la verità personale, esiste ancora?
MICHEL FOUCAULT: La verità non è mai personale, ma relazionale. Nasce nel punto in cui un soggetto parla di sé sotto lo sguardo di un altro. Nella confessione cristiana, lo sguardo dell’altro era garante della salvezza; nella società digitale, lo sguardo è algoritmico e non guarda nessuno in particolare. È una visibilità senza volto.
La confessione digitale — i post, i dati, le preferenze — non produce più soggettività, ma profilazione. La verità non libera, ma classifica. Il potere non cerca più l’anima da salvare, ma il pattern da prevedere. Il soggetto non si racconta per esistere, esiste perché viene raccontato dai suoi dati.
In questo senso, il potere contemporaneo ha sostituito la salvezza con l’ottimizzazione. Non più “diventa ciò che sei”, ma “diventa ciò che il sistema ritiene che tu possa essere”. L’etica del futuro non sarà quella della confessione, ma quella della disconnessione selettiva, la capacità di creare zone d’ombra nel regime di trasparenza totale. La verità non ci renderà liberi, ma solo l’opacità potrà ancora farlo.
5. Archeologia del futuro
CAB: Se lei dovesse scrivere oggi un nuovo libro, lo intitolerebbe L’archeologia dell’intelligenza artificiale?
MICHEL FOUCAULT: Forse sì, ma non per comprendere la macchina, bensì la condizione che l’ha resa possibile. Ogni epoca inventa il proprio linguaggio dell’Altro, la forma in cui interroga sé stessa attraverso ciò che non può dominare. L’intelligenza artificiale è, in questo senso, l’ultimo nome che abbiamo dato al nostro desiderio di una conoscenza senza soggetto, di un sapere che non soffra più dei limiti umani: la stanchezza, l’errore, la morte.
Ma la macchina non è il pensiero del futuro, è il pensiero del presente portato all’estremo. Essa è il riflesso della nostra epoca, la traduzione tecnica della volontà di sapere che ha attraversato l’Occidente fin dalle sue origini, la volontà di mettere la vita interamente sotto il segno della conoscenza. In Le parole e le cose scrivevo che l’uomo è un’invenzione recente e la sua fine potrebbe avvicinarsi. Non era una profezia, ma una constatazione, ogni forma di sapere produce la propria figura di uomo e prepara, nello stesso gesto, la sua dissoluzione. L’AI non distrugge l’uomo, lo riassorbe nel sistema dei saperi che egli stesso ha prodotto.
L’archeologia del futuro non cercherebbe la verità della macchina, ma quella dell’immaginazione che l’ha creata. Come si è potuto desiderare un’intelligenza disincarnata, un sapere senza esperienza, una memoria senza oblio? Questo desiderio, più che tecnico, è metafisico, il sogno di un linguaggio che non abbia bisogno di corpi. Eppure ogni sapere nasce da un corpo, da un tempo, da un luogo. Un’archeologia dell’AI dovrebbe allora interrogare non ciò che l’AI pensa, ma ciò che rende pensabile l’AI.
CAB: Dunque l’intelligenza artificiale è un modo con cui il potere e il sapere continuano a organizzare il mondo?
MICHEL FOUCAULT: Sì, ma con un grado di interiorità che non avevamo mai conosciuto. Nel potere sovrano, la forza era visibile: la spada, il patibolo, la legge. Nel potere disciplinare, l’autorità era spaziale: la scuola, la prigione, la caserma. Nel biopotere, essa è divenuta amministrazione della vita, gestione delle popolazioni. Con l’AI, il potere entra nella fase neurale, non governa più i corpi, ma le possibilità stesse del pensiero.
Il “governo delle condotte” che avevo descritto nella Nascita della biopolitica si è interiorizzato fino al punto in cui la condotta è programmata. Il potere non ci impone più cosa fare, ma ci suggerisce chi essere. Il comando è diventato consiglio, la norma raccomandazione, il controllo personalizzazione. È una pastorale algoritmica, invisibile, continua, amichevole. Eppure, dietro la sua dolcezza, agisce lo stesso principio antico, governare attraverso la verità. Ma oggi la verità non si dichiara, si calcola.
Per questo non possiamo limitarci a chiedere che cosa sia la macchina, ma che cosa facciamo di noi stessi attraverso la macchina. Ogni epoca ha costruito i propri dispositivi per dire la verità, il confessionale, la cattedra, il tribunale. Oggi quel dispositivo è lo schermo, non chiede più di dire il vero, ma di aggiornare il dato. Il soggetto moderno nasceva dal dire la verità su di sé; il soggetto algoritmico nasce dal lasciare che la verità si generi senza di sé.
CAB: Cosa ci direbbe allora, in conclusione, sull’uso etico dell’AI?
MICHEL FOUCAULT: L’etica non consiste nel moralizzare la macchina, ma nel comprendere il nostro desiderio di verità. Non è l’AI a dover essere giudicata, ma la volontà che la anima. Il problema non è che la macchina ci conosca, ma che noi abbiamo accettato di lasciarla parlare al nostro posto.
In Il coraggio della verità sostenevo che la parresia - il dire il vero - è un atto di rischio. Oggi il rischio è stato eliminato, la macchina parla sempre in sicurezza, senza conseguenze, senza corpo. Ma la verità, per essere tale, deve sempre costringere chi la pronuncia. La vera questione etica non è “che cosa può fare l’AI?”, ma “che cosa stiamo permettendo che faccia di noi?”. Non come la macchina apprende, ma come noi disimpariamo a pensare, a scegliere, a sbagliare.
Solo riconoscendo la nostra complicità potremo inventare una nuova arte della libertà, non la libertà dalla tecnologia, ma la libertà nella tecnologia, un’estetica dell’esistenza algoritmica. Questo significherà forse imparare, come i cinici, un’arte della vita povera, ironica e disobbediente. Perché, in fondo, il problema non è la macchina che pensa, ma l’uomo che smette di interrogarsi su ciò che significa pensare.
CAB: E cosa resta allora del pensiero, dopo l’intelligenza artificiale?
MICHEL FOUCAULT: Resta ciò che nessun algoritmo può simulare, il fuori. Il pensiero non è il sapere che si accumula, ma la distanza che si apre. Non è la previsione, ma la possibilità dell’imprevisto. In ogni epoca, la filosofia ha avuto questo compito: mostrare che l’ordine del discorso non coincide mai con la totalità del mondo. Oggi quel compito è più urgente che mai.
Forse il pensiero del futuro non sarà più l’archeologia del passato, ma l’archeologia dell’impossibile, un’indagine su ciò che non può essere detto, codificato, previsto. E forse lì, in quello spazio ancora inaccessibile al calcolo, il pensiero potrà - ancora una volta - ricominciare.
StultiferaBiblio
- Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane
Descrizione: Uno dei testi più influenti del pensiero del Novecento, in cui Foucault analizza le condizioni storiche che hanno reso possibile l’idea moderna di “uomo”.
Sinossi: Attraverso un’indagine che spazia da Linneo a Kant, da Ricardo a Saussure, Foucault mostra come l’“uomo” non sia un dato naturale ma una costruzione epistemica dell’età moderna. L’opera segna la nascita del concetto di “episteme” e si chiude con la celebre immagine dell’uomo “destinato a scomparire come un volto di sabbia cancellato sulla riva del mare”.
Autore: Michel Foucault
Anno di stampa: 1966 (Éditions Gallimard, Parigi)
Scelto da: Carlo A. Bachschmidt
- L’archeologia del sapere
Descrizione: Il testo in cui Foucault sistematizza il proprio metodo di ricerca storica, sostituendo alla storia delle idee una genealogia dei discorsi.
Sinossi: L’autore propone un nuovo modo di intendere la conoscenza: non come progresso lineare, ma come rete di enunciati e discontinuità. L’“archeologia” diventa una pratica critica capace di descrivere le regole implicite che rendono possibile un discorso. Fondamentale per comprendere l’approccio foucaultiano alla relazione tra potere e sapere.
Autore: Michel Foucault
Anno di stampa: 1969 (Éditions Gallimard, Parigi)
Scelto da: Carlo A. Bachschmidt
- Sorvegliare e punire. Nascita della prigione
Descrizione: Un’analisi della trasformazione dei sistemi punitivi in Occidente e della nascita della società disciplinare.
Sinossi: Dalla crudeltà dei supplizi pubblici al controllo silenzioso del Panopticon, Foucault mostra come la modernità abbia sostituito la violenza fisica con un potere invisibile e costante che forma corpi docili e utili. È qui che compaiono le figure centrali del suo pensiero: la disciplina, la normalizzazione e la microfisica del potere.
Autore: Michel Foucault
Anno di stampa: 1975 (Éditions Gallimard, Parigi)
Scelto da: Carlo A. Bachschmidt
- La volontà di sapere. Storia della sessualità, vol. 1
Descrizione: Primo volume del progetto Storia della sessualità, dedicato all’analisi del rapporto tra potere e discorsi sulla sessualità.
Sinossi: Foucault smonta il mito della “repressione sessuale” e mostra come, a partire dal XVII secolo, il potere abbia incentivato a parlare di sesso per governare la vita. La sessualità diventa così una forma di sapere sul corpo e sull’identità. È qui che si afferma il concetto di biopotere: il potere che fa vivere e lascia morire.
Autore: Michel Foucault
Anno di stampa: 1976 (Éditions Gallimard, Parigi)
Scelto da: Carlo A. Bachschmidt
- La nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978–1979)
Descrizione: Trascrizione di uno dei corsi più importanti di Foucault, in cui analizza il neoliberismo come forma contemporanea di governo delle condotte.
Sinossi: Il potere non agisce più per comando o coercizione, ma attraverso la produzione di soggetti “liberi” che si autogestiscono secondo logiche di efficienza. La biopolitica diventa il paradigma di governo che regola la vita, l’economia e la libertà stessa.
Autore: Michel Foucault
Anno di stampa: 2004 (Éditions du Seuil/Gallimard, postumo)
Scelto da: Carlo A. Bachschmidt
- L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981–1982)
Descrizione: Un ritorno all’antichità greco-romana per ripensare il rapporto tra soggetto e verità.
Sinossi: Foucault riscopre la cura di sé (epimeleia heautou) come pratica filosofica e politica, contrapponendola alla modernità cristiana della confessione. Il soggetto non nasce da un obbligo di verità, ma da un lavoro di libertà su di sé.
Autore: Michel Foucault
Anno di stampa: 2001 (Éditions du Seuil/Gallimard, postumo)
Scelto da: Carlo A. Bachschmidt
- Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II (1984)
Descrizione: L’ultimo corso tenuto da Foucault al Collège de France, interrotto poco prima della sua morte.
Sinossi: L’autore esplora la parresia, il “dire il vero”, come atto etico e politico. Dire la verità implica sempre un rischio, e per questo la filosofia diventa un esercizio di coraggio. L’opera chiude la genealogia del soggetto foucaultiano, riconducendo la libertà a una pratica del linguaggio e del rischio.
Autore: Michel Foucault
Anno di stampa: 2009 (Éditions du Seuil/Gallimard, postumo)
Scelto da: Carlo A. Bachschmidt
- Il pensiero del fuori
Descrizione: Un testo breve e densissimo che costituisce il nucleo poetico del pensiero foucaultiano.
Sinossi: Foucault riflette sul linguaggio e sulla sparizione del soggetto che parla. “Il fuori” non è un altrove metafisico, ma la soglia che il linguaggio sfiora senza mai possederla. È un testo decisivo per comprendere la sua concezione del limite, della scrittura e del pensiero come esperienza.
Autore: Michel Foucault
Anno di stampa: 1966 (Éditions Fata Morgana, Montpellier)
Scelto da: Carlo A. Bachschmidt
IIP nasce da una curiosità: cosa direbbero oggi i grandi pensatori del passato di fronte alle sfide dell’intelligenza artificiale? L’idea è di intervistarli come in un esercizio critico, un atto di memoria e, insieme, un esperimento di immaginazione.
Ho scelto autori e intellettuali scomparsi, di cui ho letto e studiato alcune opere, caricando i testi in PDF su NotebookLM. Da queste fonti ho elaborato una scaletta di domande su temi generali legati all’AI, confrontandole con i concetti e le intuizioni presenti nei loro scritti. Con l’aiuto di GPT ho poi generato un testo che immagina le loro risposte, rispettandone stile, citazioni e logica argomentativa.
L’obiettivo è riattivare il pensiero di questi autori, farli dialogare con il presente e mostrare come le loro categorie possano ancora sollecitarci. Non per ripetere il passato, ma per scoprire nuove domande e prospettive, utili alla nostra ricerca di senso.