La rete pullula di suggerimenti su come farsi notare ed essere visibili, su come lavorare sul proprio Sé sviluppandolo, in modo da essere felici e diventare qualcuno, o raccontarsi di esserlo diventati. E se invece la soluzione fosse di scomparire, dissolversi, lasciarsi andare al flusso della vera vita in modo da riconciliarsi con le sue inadeguatezze, vulnerabilità e negatività? Chi lo dice che dobbiamo per forza di cose inseguire la felicità? Abitando in pianta stabile le piattaforme digitali ci siamo convinti di avere più vite, in realtà “non possiamo uscire dalla nostra vita e rientrarci” come si fa con Linkedin o Facebook. La vita è una sola, sia che la viviamo nella realtà fattuale sia che la rappresentiamo e proiettiamo nelle molteplici realtà virtuali che la tecnologia ci ha regalato.
Se la vita è una sola e non esistono vite di ricambio, piuttosto che dannarsi a ricercare visibilità e felicità, perché non fermarsi chiedendosi “a che punto siamo”? E se invece di cercare individualmente e con insistenza di essere, cercassimo soltanto di esistere? Le risposte a queste domande le ho trovate nel pensiero di alcuni autori che leggo da sempre: Francois Jullien, Marc Augè, Miguel Benasayag, Peter Sloterdijk, Alain Badiou.
Perché viviamo?
La domanda è rivolta ai tanti Sisifo cablati e sempre in rete di questo mondo. Tanti Sisifo contemporanei, che si alzano ogni mattina compulsando lo smartphone e terminano la giornata guardando la serie televisiva del momento, per poi ricominciare il giorno dopo, convivendo con il senso di alienazione che ne deriva. La domanda se l’è posta Marc Augè in un suo libro del 2017.
Prima della pandemia, prima della guerra e prima delle crisi già in formazione che arriveranno. La domanda non è capziosa, risponde al senso profondo di disagio, non soltanto materiale, che caratterizza il vissuto di molti. Nasce dal bisogno di immaginare la propria vita, di costruirne le immagini e le narrazioni senza accontentarsi di consumarne di prefabbricate. Il disagio e il malessere psichico, esacerbati dall’attualità, vengono da lontano e da dentro, hanno a che fare con noi come individui, come società, interessano la consapevolezza e la conoscenza che abbiamo del mondo e della realtà.
Le risposte sono cercate da molti nell’investire su sé stessi e sulla propria vita privata. Tutti sanno che l’immagine patinata e sorridente a cui associano la loro identità, non esiste, è un’illusione. “La felicità come l’individualità si costruiscono faticosamente” nell’incontro con l’Altro, con il suo aiuto. La domanda sul perché viviamo viene rigettata, negata, mascherata, rinviata e dissimulata. Il tutto avviene dentro il frastuono dell’attualità, il chiacchiericcio incessante, anche mediale, che domina le nostre vite, il presentismo della vita corrente che ha cancellato i legami con la memoria e il passato e si è mangiato il futuro. La conseguenza è lo smarrimento, rimosso ma sempre di ritorno, per mancanza di sbocchi. Eppure, basterebbe interrogarsi su quali finalità vogliamo dare alla nostra vita, la vita vera.
La vera vita
Viviamo vite raggomitolate, inautentiche, che alimentano il mal di vivere e il dubbio che la vita “potrebbe essere tutt’altra da quella che stiamo vivendo”. Dalla sofferenza, da una visione del mondo non conforme alla realtà e dal dubbio nasce il bisogno di una riflessione, filosofica, urgente, non superficiale né banalizzata dalle tante pseudo-filosofie felicitarie e commerciali del momento, ma capace di permettere di cogliere lo scarto esistente tra la vita ordinaria che conduciamo, oggi vincolata alla gratificazione continua e alla ricerca della soddisfazione, e un’altra vita possibile, meno apparente, meno fittizia o falsa. La pseudo-vita dell’oggi è rassegnata, passiva, regalata all’algoritmo e condizionata dalle piattaforme, reificata e alienata.
La ricerca della vera vita ci suggerisce, con le parole di Jullien, un approccio in negativo declinabile nella non rassegnazione, la de-falsificazione della vita ordinaria (togliere il falso, smettere le maschere), il disoccultamento, la disalienazione, il rifiuto della sua narrazione conformista e felicitaria, accettando la coesistenza di bello e brutto, felicità e infelicità, armonia e disarmonia, ecc. Per vivere una vita vera non serve esporsi a teorie felicitarie apprendendone canoni e ricette, si tratta semplicemente di tentare di vivere, in modo da resistere alla non-vita.
"Per conquistare la vera vita bisogna “lottare contro le prevenzioni, i preconcetti, l’obbedienza cieca, le consuetudini ingiustificate, la concorrenza illimitata” - Alain Badiou
Guardandosi indietro a distanza di tempo si scoprirà che la vera vita vissuta è tutta dentro questo tentativo di produrre lo scarto che permette di diventare coscienti che ogni vita è unica e irripetibile. Alla vera vita si è richiamato anche Alain Badiou invitando gli anziani a corrompere socraticamente i giovani cercando di dimostrare loro che esistono false vite e che per conquistare la vera vita bisogna “lottare contro le prevenzioni, i preconcetti, l’obbedienza cieca, le consuetudini ingiustificate, la concorrenza illimitata”.
Cambiare la propria vita
I tempi sono dominati dall’individualismo, dal cinismo e dal nichilismo. Molti reagiscono ricercando e sperimentando pratiche spirituali e di ascesi, quasi mai religiose, finalizzate a migliorare la propria condizione di vita con lo scopo di scongiurare la morte, battere le vulnerabilità e sconfiggere il destino.
Da storpi quali sono (termine usato dal filosofo Peter Sloterdijk) molti individui diventano acrobati, funamboli che si sottopongono a innumerevoli esercizi al fine di giungere a un livello superiore. Al di sopra della normalità. La spinta viene dal percepire di non vivere ancora correttamente, dalla necessità di superare la passività per passare all’attività in un contesto in continua trasformazione e cambiamento. Una fruizione passiva della realtà è in contrasto con la propensione alla motricità e all’azione del nostro cervello, ci suggerisce di agire da attori piuttosto che da semplici fruitori passivi.
“Cambia la tua vita!”
La conversione da passivi ad attivi passa, secondo Sloterdijk, oltrepassando, andando sull’altra sponda delle abitudini, delle passioni e delle idee. Il problema è come farlo dentro una società tecno-capitalistica che ha messo al bando ogni ascesi e ogni spiritualità (i conventi si sono svuotati e i monasteri sono occupati da vacanzieri, le ferie sostituiscono i ritiri e le fughe dal mondo). La percezione che, nell’attuale crisi sistemica e globale, le cose non possono più andare avanti così, rimane comunque forte. Alimentata da un imperativo: “cambia la tua vita!”. Se non lo si fa la catastrofe globale incombente disvelerà ciò che ci siamo lasciati sfuggire dei tanti segni premonitori che indicavano da tempo l’urgenza di un cambiamento.
Ci serve una seconda vita
La seconda vita non è una vita che viene dopo, ma una vita vissuta con altre aspettative. Non è la vita ripetitiva e edonistica delle pratiche online ma la vita attuale, quella che si vorrebbe riprendersi, liberandola dalle trappole cognitive indotte dalle ibridazioni tecnologiche.
È quella che secondo Francois Jullien ci serve a cominciare a esistere davvero, esercitando la libertà di scelta che abbiamo da tempo (re)delegato alle macchine provando a sprigionare il nostro potenziale e a vedere le cose altrimenti, a (ri)scegliere e (ri)scoprire solo ciò che è nostro ma forse abbiamo sottovalutato. Per farlo bisogna staccarsi dalla vita ordinaria e, a partire dal proprio vissuto e dalle proprie esperienze, elaborare e sondare uno sguardo lucido, perspicace e profondo sul reale, cogliere le trasformazioni silenziose e sotterranee in atto, dedicare tempo al silenzio, alla lentezza, alla rilettura e alla riflessione.
Nella (tecno)consapevolezza che non abbiamo una vita di ricambio e non possiamo uscire dalla vita e rientrarci come facciamo ogni giorno con Linkedin e con Facebook.
Esistere o funzionare?
Le macchine funzionano, noi dovremmo aspirare a esistere. Per farlo bisogna affrontare la complessità del vivere, serve coraggio, capacità di esistere, accettando la concretezza del vivere, non accontentandosi dell’informazione ma perseguendo la conoscenza. Cosa molto diversa, ci dice Benasayag, dal manutenere e far vivere un profilo social online adattandolo ai memi, agli influencer e alle tendenze del momento. Provare a esistere potrebbe placare l’ansia da prestazione e riappacificare l’esistenza con la sua realtà biologica fatta anche di negatività, fragilità e disfunzionalità, potrebbe favorire il recupero del tempo e della sua durata, un tempo oggi pensato come un semplice fluire lineare di eventi misurabili.
Il dilemma tra funzionare o esistere è d’obbligo perché si pone mentre viviamo dentro una crisi che ci pone a un bivio. Una via di uscita sta nel riscoprire il senso dell’umano riconoscendosi nell’Altro, nella sua singolarità, nell’esistere.
Un primo passo nasce dal riflettere su cosa è accaduto e sulla tabula rasa, anche cognitiva, operata dalla tecnica sul nostro modo di vivere in modo funzionale alla società e agli apparati di consumo.
Il secondo passo sta nell’avere il coraggio di rifiutare di essere sempre performanti ed efficienti, che l’esistenza possa essere ridotta a un bilancio di skill e competenze. Infine, bisogna smettere di avere paura di confrontarsi con il limite e il negativo, con ciò che non funziona, con la fragilità e il fallimento. Dalla negatività sgorga il senso di cui ha bisogno la nostra esistenza.
Per provarci
Provare a esistere cercando una seconda vita non è facile ma necessario, possibile. Un modo per provarci è quello suggerito da Laurent de Sutter: farla finita con sé stessi; con tutto ciò che cerca di assegnarci a un luogo assegnandoci una identità per poi controllarla e indirizzarla; con il management della identità tanto celebrato online. Catalogati, videosorvegliati, digitalizzati non ci resta che provare a scomparire dai radar, a “dissolverci nei flussi della vita per vivere meglio le sue svolte”, e “abbracciare i futuri che si aprono davanti a noi da ogni incontro presentatoci dal caso, esplorare i mondi ignoti di ciò che non conosciamo, per scoprire, infine, i poteri di ciò di cui non sappiamo ancora di essere capaci”.